Lunedì, 13 novembre 2017Antonetta Carrabs - L'incendio dell'amore, nota di Rita Pacilio L’incendio dell’amore
di Antonetta Carrabs, LVF, 2017
Versi, luoghi intimi, sonorità sono gli elementi portanti che costituiscono la raccolta poetica di Antonetta Carrabs dal titolo L’incendio dell’amore, LVF, 2017. La messa a fuoco del sentimento più nobile, l’Amore, segnala il bisogno di considerarlo come un valore sociale, etico, eterno. È la coscienza di tutti i tempi che si mette al servizio del corpo e viceversa per favorire il massimo grado di concentrazione sull’interno/esterno, divino/materia, un circuito che avvampa e si prende cura, in versione poetica, delle stagioni che fioriscono e rifioriscono grazie alla fiammata dell’illuminazione/ispirazione. Questi versi sono torce analogiche in cerca di struggimento e passione, in continuo cammino verso luoghi e atmosfere emozionali. Il vessillo del sangue aleggia potentemente sul mistero che accosta lo spirito alla carne. Un emblema che trasmette al lettore l’elevazione dal quotidiano in maniera certa, grazie all’incontro straordinario, che inevitabilmente accade, tra persone/personaggi che si amano. Affini. Autentici, fragili. (rita pacilio) Continua a leggere "Antonetta Carrabs - L'incendio dell'amore, nota di Rita Pacilio" Domenica, 24 settembre 2017Maria Pia Quintavalla - Vitae "Racconti", dice la copertina di questo libro. Sì, certo, racconti,
narrazioni, usiamo per u
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C'è naturalmente, in questi racconti, una vena malinconica, un come eravamo, soprattutto quando Maria Pia ricorda un periodo
irripetibile, una temperie, i suoi incontri con personaggi della cultura e
della letteratura, una Milano che non era solo da bere ma anche da
respirare, da nutrirsene artisticamente, e terreno di lotta quotidiana per una donna che doveva trovare la sua strada da sola. Un serie di ritratti (è il titolo
della seconda parte), tutti molto vividi e belli (Sicari, Campana,
Zanzotto, Porta) che restituiscono bene umanità ed atmosfera ed anche il
perché di un divenire artistico e intellettuale. E' difficile sottrarsi
all'impressione, come lettore, di uno sguardo rivolto all'indietro, di un
recupero e restauro di materiali dolorosi da lasciare o no all'oblio. Se è
un libro rivolto al passato, e forse un libro che potrebbe apparire
episodico, va però ricordato, con Paul Ricoeur, che c'è una responsabilità
(tanto più in un autore) su cosa ricordare e cosa dimenticare, perché non
si può ricordare tutto. E anzi c'è anche un problema di interiorizzazione,
di silenzio, qualcosa cioè che si decide di tacere. E questo oblio
selettivo è proprio del raccontare, è peculiare della narrazione. Ma anche, aggiunge, del perdono, cosa
che - mi permetto di chiosare - è quanto mai importante quando si fanno i
conti, anche per via artistica, con le proprie vitae.
E proprio l'ultima parte del libro, intitolata Da China in prosa è il recupero più significativo, sebbene
quantitativamente minoritario. Che è sia recupero di materiali poematici
sia un dietro le quinte che torna utile a chiunque abbia apprezzato come me China alla sua uscita nel 2010 per i tipi di Effigie. Si tratta,
come spiega Maria Pia stessa di "una sezione da China in prosa,
prima che il poeta Franco Loi mi convincesse che era metro e poesia, e a
riscriverla in China". Già questo processo transitivo prosa/poesia
(e forse di nuovo prosa, con qualche intervento, suppongo) è interessante
in sé e seguendolo ci si rende conto di quanto Loi avesse ragione, poiché
il peso specifico della poesia a cui alludevo già in queste righe è palese,
e non potrebbe essere altrimenti. Ma con questa sezione si torna anche in
qualche modo alle origini, si ristabilisce una archeologia e un ordine
delle cose in quella copiosa sorgente di ispirazione che è la famiglia, la
casa, la madre (China), le radici anche dolorose e complesse che a suo
tempo chiamai autobiologia o anche il lessico familiare di Maria Pia.
Nata prima, molto prima dei Compianti, come lei mi scrisse, China, posta proprio in fondo, a sigillo del libro, immagino
voglia chiudere - qui - un cerchio, scegliendo, come dicevamo, che cosa
responsabilmente consegnare alla memoria o all'oblio. (g. cerrai)
Maria Pia Quintavalla - Vitae - Ed. La Vita Felice, 2017 Continua a leggere "Maria Pia Quintavalla - Vitae" Venerdì, 20 maggio 2016Annamaria Ferramosca - Ciclica![]()
Questo è il primo libro di Annamaria Ferramosca che leggo. Dovrò quindi basarmi unicamente su quanto posso trovare qui e ora, su quanto la sua poetica e la
sua scrittura esprimono adesso.
Dice Ferramosca in una nota che chiude il volume: "Queste poesie nascono con l’impronta chiara di una insofferenza che chiede d’essere placata, una
necessità lancinante di catturare, diradando ogni nebbia che disorienta, anche minimi brandelli di senso nella nostra vita dell’oggi
(...) la consapevolezza di essere sul bordo dell'effimero", cercando "possibili risposte, facendosi apertura all’altro, paziente ricerca di
scambio. Portarsi sul margine della finitezza come misura dell’essere (corsivi miei).
Partire dalle postfazioni o prefazioni è sempre un errore, e forse lo è di più partire dalle note autoriali, spesso autoreferenziali. Ma potrebbe essere di
qualche utilità. Bisogna insomma chiedersi se sia questa la cifra del libro, la poetica dichiarata. Diviso in quattro sezioni ( Techne, Angelezze, Urti gentili, Ciclica) il libro in effetti sembra essere mosso dalla necessità di esercitare la scrittura (anche nel senso di
stile) all'interno di un perimetro abbastanza circoscritto, di cui appunto Ferramosca perlustra i bordi, il margine, un territorio per lo più
domestico o con lo sguardo rivolto verso la speculazione di una modernità comunque vicina, quella che ci tocca tutti come uomini e donne "liquidi" e proni
alla tecnica, quella frequentata per intenderci da varie menti che vanno da Heidegger a Bauman a Severino, come avviene appunto nella prima sezione che ho
citato. Lì la téchne non è più l'arte di saper fare cara agli dei, ma qualcosa che ipoteca una quota della nostra vita in nome di una
comunicazione irreale e problematica, in apparenza sempre disponibile, nella sostanza volatile come la RAM di un computer. Un piccolo specchio di una morte
posticipata, in ultima istanza. Il senso di finitezza si concretizza, in maniera del tutto ossimorica, nel virtuale, in qualcosa che è essenzialmente -
invece - non concreto e drammaticamente binario (0,1...) - e in fondo manicheo, si o no, c'è o non c'è. La vita cosiddetta reale è tanto diversa?
Non c'è forse l'esigenza anche in essa di avere risposte definitive, che escludano - nella più agognata delle ipotesi, ammettiamolo - tutto il resto o
tutti gli altri? L'esigenza di una semplicità? O viceversa uno stimolo univoco e forte? Forse pensa a questo Ferramosca quando parla di "urti":
certamente quelli che la vita ci riserva, inevitabili, ma che secondo l'autrice è possibile tentare di metabolizzare per mezzo della parola, della poesia,
dare loro un significato per così dire universale, un valore aggiunto, trasformarli in urti gentili, magari tornando alle
origini, a luoghi a cui si riconosce il potere ancestrale di antichi lares. O rivolgendosi a "presenze", ad angelezze, rappresentate da una natura
che si può osservare senza ansia perché sostanzialmente benevola, domesticata o introiettata, che ci "bisbiglia" un suo senso, il senso, per quanto in minimi brandelli; o meglio ancora dalla vita sorgiva, dai giovani, dai figli che simboleggiano - loro sì, davvero - la ciclicità per eccellenza
anzi, come affermava Gibran Kahlil Gibran, frecce scagliate verso il futuro. La ciclicità poi, in questa poesia, si manifesta anche in avvenimenti minuti,
insonnie, criticità sociali, intermittenze del cuore, in tutto e di più di quella "ciclica spirale che tutti e tutto avvolge", dice Ferramosca. Tenere
insieme questo gorgo, che si presume nietzschianamente ricorra, con l'effimero e la finitezza che comunque ci stroncano è la mossa poetica su cui scommette
questo libro. Il tema di fondo è drammatico ed è per questo forse che un po' di drammaticità in questo libro mi manca. Riscontro talvolta una sensazione di
serena freddezza che non riesco a sopprimere, un controllo stilistico - per così dire - delle emozioni (meno nelle poesie della sezione Ciclica,
nelle quali la dimensione affettiva, l'amore, ripristinano quella "luce di una comune possibile empatia" a cui comunque Ferramosca sinceramente aspira, e
si sente poiché sinceramente crede nella poesia). Può darsi che si tratti di una impressione (ripeto, è il primo libro di Ferramosca che leggo) che vada rivista. In questa scrittura monologante
o raramente dialogica (lo dice l'autrice stessa) in cui mi pare di intravedere echi della poesia confessionale (la Plath, in Nascita ad esempio),
del simbolismo francese, qualche traccia di Montale ecc. (ma non è questo che importa) tuttavia lo stile è assai personale, abile e linguisticamente
accurato (ma francamente tralascerei un po' di quelle parole artatamente composte come muovemuore, fuochipensiero, fioricappero o scomposte come ac-cadere,
corri-spondo, as-sentiva ecc.), per lo più costruito in ininterrotte cascate discorsive ipotattiche in cui la costruzione del discorso finisce, anch'esso,
per avvolgere il lettore, in maniera assolutamente funzionale, in una spirale centrifuga che lo lancia verso quel margine della finitezza di cui
parla l'autrice. Aggiungerei solo una cosa che è un altro merito di questa raccolta: c'è poco "corpo" e relative declinazioni, per fortuna. Credo che la
poesia, femminile o meno, per un po' sia bene che ne faccia a meno. (g. cerrai) Continua a leggere "Annamaria Ferramosca - Ciclica" Martedì, 19 aprile 2016Cinzia Marulli - Percorsi, nota di Rita Pacilio
Ogni poeta, per conoscere il mondo, diventa filosofo dirigendosi verso lo sconfinamento dell’esistenza con sguardo e sensi vigili. Ogni poeta si incanta ed eredita ricordi e interrogativi del passato rendendoli vivi, sempre originali, grazie alla ricostruzione di ipotesi, confronti e intrecci etico/emotivi. Cinzia Marulli, nel suo recente lavoro poetico Percorsi, edito La Vita Felice, 2016, infatti, si serve delle esperienze tangibili e invisibili per collocare parole sagge e di senso in componimenti poetici che interpretano aspetti esistenziali, distanti e prossimi, tra la memoria e il panorama socio/emotivo dell’uomo contemporaneo. Abitare luoghi emotivi serve ad accompagnare il proprio percorso psicologico e intellettualistico verso l’accoglimento della vita, intera, scomposta e sezionata, sollevando gli aspetti più significativi e, a volte, impercettibili. Ecco perché l’autrice indaga tra le discrepanze e le contraddizioni umane sottolineandone la coscienza e la dimensione sensibile/razionale dell’io. Il desiderio è quello di fondersi con la natura, ascoltarne la voce, lasciarsi sedurre dalla consapevolezza che tutto nasce e muore nella terra, anche i ricordi o la malinconia, la nostalgia. Non troviamo dolore esistenziale, ma inventari, propositi che hanno validità affettive e fremiti propiziatori dell’alienazione del tempo futuro. Le tre sezioni del volume, Il senso bianco delle nuvole, Il paradosso del cerchio, Il riflesso della luce, delineano viaggi fisici e spirituali, transiti che compensano il processo di umanizzazione del soggetto/oggetto inesplorato e rinnovato. Riflettere sugli aspetti molteplici ed evocativi del male, del superfluo, del dolore, permette di sviluppare itinerari a cui attingere per trovare risposte e ristoro, riconoscimento e rinascita. Le parole, allora, si trasformano in monumenti progettati per realizzare coraggiose interpretazioni del cosmo e setting da cui partire e/o ritornare comprendendo, così, la vita nella sua interezza, nel suo impianto complicato, conflittuale e, contemporaneamente, semplice, delicato. Marulli ricrea con slancio, i tasselli della celebrazione dei valori, quei lineamenti di un mosaico vertiginoso e leggero in cui le figure centrali sono naturalistiche (fiore, vento, sole, terra). È qui che si completa la pianificazione razionale e spirituale dell’autrice romana, riscrivere i significati dei segni umani, culturali. (rita pacilio) Continua a leggere "Cinzia Marulli - Percorsi, nota di Rita Pacilio" Martedì, 22 marzo 2016Lucianna Argentino - Le stanze inquiete![]()
La parola chiave che si incontra nella nota introduttiva al libro, di
pugno dell'autrice, e che fornisce una buona traccia è "prossimo", un
vocabolo che trova la sua origine e la sua giustificazione in un
superlativo, "vicinissimo", il più vicino. Questa prossimità ha
innanzitutto un valore etico, a cominciare dal comandamento evangelico.
E' anche una vicinanza spazio temporale, un gomito a gomito in cui
agisce molto del fortuito, del casuale. Una cosa non esclude l'altra: la
vicinanza non necessariamente deve protrarsi nel tempo, ma la società è
una successione di prossimi, una catena umana delle prossimità, nella
quale funziona (o dovrebbe funzionare) una specie di proprietà
transitiva pro bono.
Argentino parte da questa considerazione apparentemente semplice verso
un tentativo di ricostruzione empatica di incontri, avvenuti per così
dire "da ferma", in una sua esperienza lavorativa come cassiera in un
supermercato, quando costretta al suo posto, vedeva scorrere, in una
condizione di relativa "pazienza" (nel senso etimologico del termine)
un'umanità varia e molto spesso dolente. Una serie di "impressioni" (e
anche qui il termine è importante) registrate all'impronta su dei
foglietti e poi rielaborate poeticamente. Questa in effetti è una delle
caratteristiche di Lucianna, questa necessità, riscontrabile spesso
nella sua produzione, di trarre "ispirazione", di poetizzare quel
fortuito di cui si diceva, caricando di poesia per mezzo della lingua
quel che c'è di impoetico nel casuale. Che non manca però certo,
quell'uomo o quella donna casualmente lì in quel momento, di
essere nel contempo un simbolo esistenziale e un oggetto di una
riflessione costante, quasi evangelica, sulla condizione umana. Anche la
fila che si snoda alla cassa di un supermercato è, a suo modo, simbolo
di quella catena di prossimità di cui si diceva prima, e anche -
naturalmente - del tempo che vi scorre senza sosta. Nella meccanicità
della vita, una "vita in paragrafi" (o di un lavoro serratamente
scandito dai gesti che può rappresentarla) l 'elemento di frizione o di
resistenza è lo sguardo, è anzi vedere più che guardare, un atto
necessario di consapevolezza e comunicazione, di percezione: "ho alzato
lo sguardo dai numeri del display per incontrare gli occhi di chi mi
stava davanti", scrive Lucianna. Quel che in parte si vede, in parte si
intuisce attraverso le pieghe dei volti, in parte si immagina delle vite
del "prossimo" (vite come "stanze inquiete" in cui ci si aggira) è la
materia di gran parte di queste poesie. E tuttavia non è possibile non
notare che si tratta di uno sguardo che quasi cerca, più che trovare,
qualcosa al di fuori di sé, qualcosa che giustifichi (che giustificava
allora, in quelle ore lavorative) una ragione nascosta in quell'essere
lì, come incaricati segreti di una riflessione, tanto che Lucianna
intitola la sua nota introduttiva "Appunti per una est-etica del
lavoro", aspirando ad un'unità che i filosofi trovano così problematica
da realizzare, ma a cui l'artista deve tendere. L'incontro di occhi è
per l'autrice - in altre parole - anche una verifica di sé, se la
propria capacità di sintonizzarsi con l'altro è attiva e conciliabile
con la parola poetica.
Rispetto ad altri lavori di Lucianna di cui ho scritto in passato (v. QUI),
questo libro, come mi dice l'autrice in una lettere privata, "è molto
diverso dai miei precedenti ma non è diverso lo spirito con cui l'ho
scritto. E' diverso lo stile, è diversa e unica la circostanza". In
effetti anch'io l'ho trovato diverso, ma non certo per la qualità del
linguaggio poetico che continua ad essere di gran livello mentre
prosegue, come avevo scritto, nella direzione di una scrittura
volutamente "ingenua" o innocente, che risponde proprio a uno sguardo
sulla gente privo di critica, non giudicante, semmai quietamente
pietoso, volutamente calato al livello (ma sempre senza giudizi)
dell'umanità che descrive e che di sicuro la circostanza suggerisce, un
linguaggio insomma non "poetizzante" ad oltranza, lineare, di una
liricità smorzata a ragion veduta, senza svolazzi o scarti metaforici e
disteso in versi liberi a tratti prosastici anch'essi del tutto
funzionali al discorso che il poeta vuole fare. Mentre certo non è
diverso nello spirito di fondo, che continua ad essere intimamente
religioso, forse con qualcuna delle venature di dubbio che avevo
riscontrato parlando de L'ospite indocile, dubbi che riguardano
soprattutto l'inanità dell'individuo, le domande senza risposta, la
preghiera non esaudita, la ripetizione del dolore. Spirito che si
rinnova in una necessità di scrivere, con uno "sguardo orientato verso
l'umano", verso quel prossimo di cui si diceva, qui in maniera quasi
programmatica raccogliendo testi che certo sono stati scritti negli
anni.
C'è forse un rischio che - generalmente parlando - serpeggia in una
poesia sostenuta da una "compassione" etica, ed è un certo patetismo
emotivo che incornicia un quadro peraltro realistico, ma segnato da un
margine, "lo spazio bianco entro cui è inserito lo scritto sulla pagina
(simbolo pure del mistero, del non conosciuto, del non visibile che
circonda ogni vita)". Bene, quel margine è insuperabile, secondo me. Va
detto però che il patetismo, eventualmente, è un atto di interpretazione
e insieme un dato di realtà, soprattutto all'interno di una visione non
materialistica della realtà stessa ("La realtà è la stessa bisogna
vedere poi / con che filtro ognuno la interpreta", scrive l'autrice).
Voglio dire, la realtà è, per molti versi, patetica.
Bisogna prenderne atto senza necessariamente farne una questione
estetica (o ideologica, men che mai). Ma in ogni caso Lucianna ha
coscienza dei mezzi di cui dispone, che stanno soprattutto nelle caratteristiche
"calmieratrici" di quella lingua poetica a cui accennavo sopra. (g. cerrai) Continua a leggere "Lucianna Argentino - Le stanze inquiete" Giovedì, 30 luglio 2015Poesie d'estate - Otto poeti letti da Rita Pacilio Il tocco abarico del dubbio – Angela Caccia – Fara Editore, 2015
Molta poesia ha interesse a trasformarsi in un dialogo vivo e profondo tra le persone e le cose attingendo alla natura e ai valori esistenziali. I
contenuti, quindi, diventano fatti tangibili che rievocano la memoria cogliendo sentimenti e necessità. Alcuni testi poetici passano dalla riflessione alla
narrazione in modo ininterrotto così come accade per Il tocco abarico di Angela Caccia. Il contributo ideologico della silloge, divisa nelle
cinque sezioni, approda in un universo poetico che sfida le tendenze creative, ma mira a evidenziare la propria fedele visione del mondo/poesia con
l’utilizzo armonioso e intimista della voce ritmata/musicale. La scelta del racconto, in quanto movimento, consente a chi versifica di avere una locazione
di privilegio rispetto a chi legge: infatti l’autrice cristallizza ciò che è mutevole nel nostro tempo, affinché tutto possa essere accessibile all’essere
umano moderno. Tutto è incarnabile: le forme comunicative del dubbio corteggiano il grave peso del silenzio e della solitudine esistenziale e molto spesso
ciò accade perché l’essere umano vive l’orfanità o l’abbandono del Mistero.
Fantasie Lo stesso copione: piove. È un tempo che strina a puntino le piume e poi le tarpa serrate le porte che il dolore non vada oltre. Su di lui come sciacalli un girotondo di mosche. Lo sguardo su una cartolina profana il reticolo di falso mi perdo nel notturno di un paesaggio una carezza la colatura della sera – quant’è quieta la luce di una finestra accesa! – sono io quell’orma nel vicolo cieco? io l’ammasso di venti senza scampo? Anche qui ulula un randagio prega la sua luna resta la notte. * E non è la mia pena a mia madre C’è un paese in me che non conosci periferia fessure di cielo si dimena un vento di conchiglia che maledice le sbarre. Dove cadi nelle tue secche, cosa popola la mente limosa, difficile raggiungerti esserti mano voce sguardo si scioglie il grumo – l’ultimo che ti tempesta – e non è questa la mia pena. Sei il verso già scritto che ritorna, un’ossessione la mia compagna di viaggio ma non è la mia pena. Nell’ultima stesura del racconto la tua penna scrive a tratti, nel solco bianco le piume di un’aquila che muore e non è la mia pena chi reggerà fino a lì il tuo passo? * Scemerà il vento non riempirai più la finestra cadranno le mie sbarre sarai altro altrove nell’incavo di mani più grandi (Angela Caccia è nata e vice a Cutro (KR). Tra i concorsi vinti: Piazzetta (Salerno), Siracusa, Feile Filiochta Internationale Poetry Competition 2003 (Dublino), Fiurlini (Olanda), Colapesce 2012 (Messina), medaglia Presidente Repubblica al premio Insanamente 2012 (Rimini), Convivio 2012 (Giardini Naxos). Nel Fruscio Feroce degli ulivi (Fra 2013, prefato da Davide Rondoni, ha vinto il Premio Massa Città fiabesca e il Concorso Città di parole Firenze; II class. al Premio Pascoli Barga; III class. ai Premi Di Liegro 2013 e Camposampiero 2014). Poesie della fame e della sete – Francesco Iannone – Ladolfi Editore 2014
Un buon libro di poesia non ha età perché dialoga continuamente con il passato e con il presente e sicuramente anche con il futuro. Un buon libro di poesia
ha diverse esistenze perché riesce a delineare differenti tratti di generazioni e sopravvive alle idee, alle immagini. Ecco cosa accade quando la poesia è
viva, sorprende, è forza espressiva della parola, è ‘un’operazione interiore’ (C. Mitosz). Francesco Iannone nel suo libro dal titolo Poesie della fame e della sete – Landolfi Editore 2014, impiega robusta immaginazione per narrare il mondo. L’autore tratta la quotidianità
domestica e gli accadimenti familiari con meditazione e vitalità stilistica ora surreale, ora sacrale, quasi in modo fanciullesco, ma non puerile, come a
voler entrare in contatto intimo con lo stupore, con la polpa più pura delle cose, così come solo la nervatura dell’animo del poeta può fare. Le intuizioni
estetiche, i guizzi poetici, il verso essenziale hanno il potere di far trasformare gli oggetti e le persone: noi stessi diventiamo materia primaria del segreto, della visione che lavora nella mente del poeta. In quest’opera prima, l’arte realizza le proprie premesse e le svolge nella maniera più
vera, piena.
Perché solo non morire conta in quest’aria provvisoria d’autunno che accarezza gli alberi e poi li spoglia come fossero una donna bella.
La resistenza al nulla è una lotta che lascia ferite e tagli è un labbro squarciato da un pugno è un figlio espulso da un utero contuso.
Ci sono case che accolgono chiunque e finestre che restano chiuse per sempre. Imito il crollo di un tetto sconfitto dal peso il laccio del vento stretto intorno al collo delle foglie imito il sole disceso a far meno freddo l’inverno a vegliarlo in silenzio nel sonno.
Tremare è utile, dici, conviene, lo documentano le cose tutte contratte in attesa dell’estate.
*
Ma qui, in questa vita, dimmi se il colpire del vento significa qualcosa se il volteggiare di un uccello nell’aria indica una via e il sanguinare di quell’albero ferito da un auto all’improvviso perché non lo sana questo primo sole estivo?
Dimmi, ti prego, se infine tutti insieme partiremo e nei sedili stretti ci terremo le mani come a stringere un patto un fiore morto che riprende a respirare da solo.
* Chissà se per sempre avremo la disponibilità dell’erba a accettare un peso la gioia dell’uccello sceso a baciare la terra mentre piroetta in cerca di cibo.
E poi chissà se un giorno guariremo da questo male che non placa, non perdona, se ancora con le unghie gratteremo le ferite vecchie fino a farle sanguinare di nuovo se pure ascolteremo gli alberi cantare e i gerani dai colori vari sorridere a primavera.
Chissà cosa genera un seme e poi perché quel fiore muore, così, senza un motivo, senza una ragione?
(Francesco Iannone è nato a Salerno nel 1985. Suoi testi sono apparsi su numerose riviste, fra cuiClanDestino, La Clessidra, Italian Poetry Review e Gradiva. È incluso nell’antologia La generazione entrante. Poeti nati negli anni ottanta (Ladolfi, 2011, a cura di Matteo Fantuzzi, nota critica di Massimo Morasso). Ha pubblicato
la silloge Pietra Lavica sulla rivista Poesia, introduzione di Maria Grazia Calandrone. Poesie della fame e della sete (Ladolfi,
2011, 2012, 2014, premio L’Aquila opera prima, finalista premi Beppe Manfredi e Penne) è il suo primo libro. Collabora con la rivista Atelier). Continua a leggere "Poesie d'estate - Otto poeti letti da Rita Pacilio"
Scritto da G.Cerrai
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Sabato, 30 maggio 2015Luigi Cannillo - Galleria del ventoLuigi Cannillo - Galleria del vento - Ed. La Vita Felice 2014 ![]()
Sono molti i motivi di interesse in questo lavoro di Luigi Cannillo,
che ho avuto il piacere di sentire di recente qui a Pisa. Un libro a
lenta lievitazione, come ha avuto modo di dirci lui stesso durante
quell'incontro, perché raccoglie testi maturati lentamente negli anni,
elaborazioni di fatti, amori, impressioni, suggestioni ma soprattutto di
un lutto per così dire "esemplare" perchè riguarda la figura principe
nella vita di chiunque, quella della madre.
E' proprio questo tema che costituisce la prima sezione del libro,
"L'ordine della madre". L' ordine (e qui già si coglie la sfaccettatura
della parola poetica) è termine che può porsi come chiave multipla: da
una parte denota la serie degli eventi che determinano, attraverso la
madre, la vita e l'identità dell'uomo; dall'altra indica il codice o il
canone, la regola e l'educazione alla vita che la madre consegna al
figlio, anche oltre la sua scomparsa, qualcosa che "impronta forme e
limiti"; dall'altra ancora, io credo, segnala la necessità e il
"mestiere" di dare un senso alle cose, sia immateriali che fisiche,
collocando le cose stesse nello spazio, come quello della casa, in cui
possano caricarsi di tutto il loro valore simbolico e affettivo. E
infatti in questo genere di "temi dell'addio" a cui appartiene anche
questa sezione, la casa è un luogo importante in cui si concentrano i
ricordi, gli oggetti, i rammarichi. In un certo senso quando la madre
muore (qui e in altri autori, v. ad es. Quintavalla QUI),
muore anche la casa, e quando vi si ritorna "gli oggetti della casa /
anticipano il lutto / al giro della chiave estranea". La morte è "una
forza contraria alla vita" che questo ordine scompone e contro la quale
l'unica resistenza che si può opporre è forse la ricomposizione dei
frammenti, appunto perché la vera consapevolezza, come nota Sebastiano
Aglieco nella prefazione, è di una "finitezza che ci abita e che non ci
chiede la resa ma l'ordine". Del resto la galleria del vento, che come
sappiamo è strumento che misura la resistenza strutturale, non è altro
qui che metafora delle correnti e dei flutti che nella vita ci investono
e ci mettono alla prova e di cui contrastiamo "l'aria dell'attrito", il
"vento sconosciuto che incrina la casa da dentro".
C'è un destino in tutto questo, o un senso in quella perdita, in quelle
presenze (di cose, di anime) che tornano a "curare" il poeta? Non lo
sappiamo, ma certo Cannillo, anche per altre vie ignote agli scettici,
non rinuncia al tentativo di darci una risposta. La sezione "12 segni"
(e sono segni zodiacali), anche se forse dettata da altre occasioni,
sembra essere in effetti un prolungamento de "L'ordine" con altri mezzi.
L'iscrizione nelle stelle del destino di ciascuno di noi non marca una
differenza degli uni dagli altri poiché, al di là del "carattere" con il
quale lo si affronta, il destino in fondo è uno solo e uguale per
tutti. Tuttavia è con quel carattere, che non è altro che un modo di
affrontare la vita, che ciascuno, alla sua maniera, dà un ordine alle
cose. Che è in ultima analisi, come nota giustamente Aglieco, un modo di
reagire a un sentimento di "perdita" che attraversa tutto il libro.
Tutti i segni zodiacali che Cannillo reinterpreta (e reinventa) sono
anche la rappresentazione di una circolarità, di un riproporsi
dell'esperienza umana che in un certo senso contesta, pur nel dolore e
quindi nella sua riproposizione, una linearità del tempo a cui anche
culturalmente siamo abituati e annulla, nel destino comune, quella
differenza a cui accennavo. In ciascuno di essi e nella circolarità di
tutti Luigi parla ovviamente di sé, ed ecco che ritorna la madre ("Nel
nome della madre / completeremo il cerchio dell’esilio / noi stessi
madre tramandata / nella consolazione, la marea / che sutura e riapre la
ferita"), ecco che, come nei "gemelli", si mette in discussione
l'unicità, si ammette "la negazione del primato", una specie di
agnizione dell'altro che ci fa consapevolmente umani.
Se qualcosa di onirico aleggia nei ricordi e nei destini fin qui
tratteggiati, nella terza sezione del libro, "Il rovescio del corpo", in
cui molto del discorso è dedicato alla relazione affettiva, all'amore,
ci si riaccosta ad una certa fisicità di cui il corpo è interprete,
anche nei confronti dell'esistere, della percezione delle cose. Se
Sebastiano Aglieco ha senz'altro ragione quando scrive che il corpo "è
il luogo dei soli avvenimenti che possiamo comprendere - gli altri ci
circondano e ci accerchiano come conseguenze di ragioni a noi oscure –",
tuttavia Luigi è troppo abile con la parole per non mettere in conto
che, nella sua poetica, il "rovescio" ha quanto meno altre letture: una,
che come un abito il corpo ha un "interno" meno visibile che a volte ci
trascende e ci domina, come nella pulsione erotica ("La trama del corpo
si mostra / al rovescio e l’unica maglia / intreccia il reciproco
assedio: / il mio desiderio verso le tue mura / e il tuo esserci al mio
desiderare") e come ci rammenta anche l'esergo della sezione in cui
Nietzsche afferma che la grande ragione del corpo è che "essa non dice
'io' ma agisce da 'io' "; e poi, certo, il rovescio inteso come
decadimento - e qui si ritorna al comune destino -, come sentimento,
ancora, della perdita che rimane sullo sfondo di tutto il libro e che è,
in questo caso, legata essenzialmente al tempo ("il tempo lente
rovesciata" e altrove "dobbiamo scrutare il traguardo / il cuore
rovesciato del futuro"). Poi, certamente, c'è uno spazio, come
nell'ultima sezione "Berliner", per inventari diversi dal cordoglio, per
momenti in cui l'esperienza si è coagulata anche in maniera correlata,
luoghi cari all'autore e alla sua cultura nei quali il tempo è passato
ma è stato vissuto in ogni suo frammento. Anche qui c'è una perdita,
perdita di luoghi significativi, una specie di nostalgia inversa, un nostos anch'esso
rovesciato. Ma poi tutto si fa poesia, scrittura, anzi corpo-scrittura.
Come raccomanda Luigi in uno dei suoi testi, "cerca il mio corpo sulla
carta / come se il tempo veramente / si fermasse sull’arco delle
righe".
Alcune ultime considerazioni. Se prima ho parlato di elaborazione non è
un caso. La "lentezza" dimostra, credo, la necessità estrema di
Cannillo di disciplinare la propria materia poetica, di pensarla e
ripensarla, di passarla attraverso il crivello della selezione
linguistica, che è accurata, senza ridondanze, e che comunque tenta di
raggiungere quella "verità che giace al fondo" di sabiana memoria. La
lingua per l'autore non è un totem né un obbiettivo, è un medium in
senso pieno, un veicolo da tenere nella massima attenzione e sotto
controllo. Io credo, sia detto per inciso, che in fondo Cannillo esprima
una sua personale lirica degli oggetti, con molti significativi agganci
- se ancora può avere un senso fare riferimenti del genere - ad alcune
modalità e sfumature che furono della storica seconda linea lombarda.
E tuttavia questo lavoro di lima, questo ripensamento, questo
controllo, non raffreddano il testo, non lo intellettualizzano, non
depotenziano la carica sentimentale e affettiva. Non sono solo l'ottimo
mestiere e la cultura di Luigi a conseguire questo equilibrio, è senza
ombra di dubbio "quell'alleanza tra etica ed estetica" che Roland
Barthes - nell'esergo della prima sezione - attribuisce alla propria
madre e che Cannillo fa sua. Ed è inoltre la capacità dell'autore di
porsi alla giusta distanza, che non è solo quella che separa i vivi dai
morti (cosa che sottolinea anche Sebastiano Aglieco nella prefazione)
ma anche quella dalle sue fonti di ispirazione, una qualità essenziale
del buon poetare. (g.c.)
Continua a leggere "Luigi Cannillo - Galleria del vento" Lunedì, 3 novembre 2014Francesco Lorusso - L'ufficio del personale
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