Domenica, 2 settembre 2018Charles Baudelaire, poesie tradotte da Emilio CapaccioL’immaginazione domina il regno del vero e, all’interno di questo regno, il possibile è solo una regione.
C. B. Le vin des amantes Aujourd’hui l’espace est splendide! Sans mors, sans éperons, sans bride, Partons à cheval sur le vin Pour un ciel féèrique et divin! Comme deux anges que torture Une implacable calenture, Dans le bleu cristal du matin Suivons le mirage lointain! Mollement balancés sur l’aile Du tourbillon intelligent, Dans un délire parallèle, Ma soeur, côte à côte nageant, Nous fuirons sans repos ni trêves
Vers le paradis de mes rêves!
Il vino degli amanti Quest’oggi lo spazio è terso! Senza briglie, né speroni, né morso, partiamo a cavallo del vino per un cielo fiabesco e divino. Come due angeli che flagella un’implacabile febbre gialla, nel cristallo cerulo del mattino seguiamo il miraggio da vicino! Mollemente bilanciati sull’ala del turbinio intelligente, dentro una follia parallela, sorella mia, a fianco a me natante, fuggiremo senza tregua, né ritegni,
verso il paradiso dei miei sogni!
La fin de la journée
Sous une lumière blafarde Court, danse et se tord sans raison La Vie, impudente et criarde. Aussi, sitôt qu’à l’horizon La nuit voluptueuse monte, Apaisant tout, même la faim, Effaçant tout, même la honte, Le Poète se dit: «Enfin! Mon esprit, comme mes vertèbres, Invoque ardemment le repos; Le coeur plein de songes funèbres, Je vais me coucher sur le dos Et me rouler dans vos rideaux, Ô rafraîchissantes ténèbres!» La fine della giornata Sotto una luce morente corre, danza e si torce senza ragione la Vita, chiassosa e impudente, tal che appena il ciglione della notte voluttuosa monta, riposando tutto, anche la mente, appagando tutto, anche l’onta, il Poeta dice: «Finalmente! lo spirito e le mie vertebre, ardentemente implorano soccorso; il cuore colmo di sogno funebre, vado a stendermi sul dorso e m’avvolgo nelle vostre latebre,
oh, rinfrescanti tenebre!»
Les aveugles Contemple-les, mon âme; ils sont vraiment affreux! Pareils aux mannequins; vaguement ridicules; Terribles, singuliers comme les somnambules; Dardant on ne sait où leurs globes ténébreux. Leurs yeux, d’où la divine étincelle est partie, Comme s’ils regardaient au loin, restent levés Au ciel; on ne les voit jamais vers les pavés Pencher rêveusement leur tête appesantie. Ils traversent ainsi le noir illimité, Ce frère du silence éternel. Ô cité! Pendant qu’autour de nous tu chantes, ris et beugles, Eprise du plaisir jusqu’à l’atrocité, Vois! je me traîne aussi! mais, plus qu’eux hébété, Je dis: Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles? I ciechi Contemplali, anima mia, sono davvero mostruosi! Simili a manichini; vagamente ridicoli; terribili, singolari, come sonnamboli; dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi. I loro occhi, dove la divina scintilla è partita, come se guardassero lontano, restano a planare per il cielo, non li si vede mai inclinare al suolo assortamente la loro testa appesantita. Attraversano così il nero dell’infinità, questo fratello del silenzio eternale. O città! mentre intorno strilli, ridi e canticchi, presa dal piacere fin all’atrocità, vedi! anch’io mi trascino, ma più ebete di loro, chissà!
dico: che cercano al Cielo tutti questi ciechi?
La vie antérieure J’ai longtemps habité sous de vastes portiques Que les soleils marins teignaient de mille feux, Et que leurs grands piliers, droits et majestueux, Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques. Les houles, en roulant les images des cieux, Mêlaient d’une façon solennelle et mystique Les tout-puissants accords de leur riche musique Aux couleurs du couchant reflété par mes yeux. C’est là que j’ai vécu dans les voluptés calmes, Au milieu de l’azur, des vagues, des splendeurs Et des esclaves nus, tout imprégnés d’odeurs, Qui me rafraîchissaient le front avec des palmes, Et dont l’unique soin était d’approfondir Le secret douloureux qui me faisait languir. La vita anteriore Molto tempo ho abitato sotto vasti portici che i soli marini tingevano di mille fuochi e che i loro grandi pilastri, dritti e ciechi, rendevano simili, la sera, a vicoli basaltici. Le onde, arrotolando immagini del cielo, mischiavano in modo mistico e solenne gli onnipotenti accordi delle loro ninne nanne ai colori di ponente distesi sopra un velo. E là che ho vissuto nelle voluttuose calme, in seno all’azzurro, alle onde, agli splendori, e con schiavi nudi tutt’impregnati d’odori, che mi rinfrescavano la fronte con le palme e dove l’unica premura era d’approfondire
il segreto doloroso che mi faceva languire.
Élévation Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées, Des montagnes, des bois, des nuages, des mers, Par delà le soleil, par delà les éthers, Par delà les confins des sphères étoilées, Mon esprit, tu te meus avec agilité, Et, comme un bon nageur qui se pâme dans l’onde, Tu sillonnes gayement l’immensité profonde Avec une indicible et mâle volupté. Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides; Va te purifier dans l’air supérieur, Et bois, comme une pure et divine liqueur, Le feu clair qui remplit les espaces limpides. Derrière les ennuis et les vastes chagrins Qui chargent de leur poids l’existence brumeuse, Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse S’élancer vers les champs lumineux et sereins; Celui dont les pensers, comme des alouettes, Vers les cieux le matin prennent un libre essor, — Qui plane sur la vie, et comprend sans effort Le langage des fleurs et des choses muettes! Elevazione Al di sopra degli stagni e delle vallate, di monti, di boschi, di nubi e di mari, al di là dell’etere e di luci solari, al di là dei confini delle sfere stellate, spirito mio, tu ti muovi con agilità, come nuotatore che s’inebria dell’onda solchi felice l’immensità profonda con indicibile e maschia voluttà. Innàlzati da questi miasmi putridi per purificarti nell’aria superiore, e bevi come puro e divino liquore, il fuoco chiaro degli spazi limpidi. Dietro le noie e i vasti dispiaceri che gravano l’esistenza brumosa, felice è colui che da un’ala vigorosa si lancia in campi luminosi e sinceri, di cui i pensieri, come allodole venute, prendono per i cieli un libero volo, — chi plana sulla vita e comprende solo il linguaggio dei fiori e delle cose mute. Continua a leggere "Charles Baudelaire, poesie tradotte da Emilio Capaccio" Sabato, 21 luglio 2018Alfonsina Storni - da Poemas de amorChi è Alfonsina Storni? Può essere solo qualcuno che incontri per caso, in una biblioteca, come è successo a me. Una (per me) sconosciuta poetessa argentina, nata però nel Canton Ticino nel 1892, morta suicida a Buenos Aires nel 1938 perché ammalata di cancro, ragazza madre, donna sempre indipendente in quei non facili primi anni del Novecento. In realtà Alfonsina Storni è una figura centrale nella poesia latino americana non solo femminile, dove è in compagnia di nomi come Gabriela Mistral e Juana de Ibarbourou. E contemporaneamente è figura esemplare della lotta delle donne per la propria emancipazione, non solo nella chiusa e tradizionalista società argentina dell'epoca. In quegli anni venti e trenta bonaerensi pieni di fermenti artistici (si pensi a Borges, a Victoria Ocampo, alla rivista Sur) Alfonsina Storni ebbe anche un notevole successo, soprattutto in virtù di uno stile diretto, forse anche un po' datato e comunque lontano dal modernismo che si stava affermando, ma capace di trasmettere emozioni vive, e di tematiche che potremmo definire prefemministe e orgogliosamente libertarie, in cui hanno spazio rilevante amore e eros, connotati però da una visione di essi non subalterna, non viziata da una collocazione tradizionale e secondaria della donna, non segnata da lirismi o romanticismi superflui, ma densamente emozionale e insieme consapevole. Una poesia a testa alta, vissuta, che per diversi aspetti mi ricorda la poesia confessionale americana di Sexton e Plath, ma percorsa da un sentimento di orgogliosa solitudine, in cui gli uomini non entrano a loro piacimento ma di volta in volta vengono accolti o respinti senza rimpianti o deliqui. Poemas de amor è una raccolta abbastanza singolare per l'epoca in cui fu pubblicata, siamo nel 1926, composta unicamente di prose poetiche, di testi brevi e intensi nei quali l'amore viene cantato come da una certa distanza, con la malinconia che l'argomento richiede, con il contrasto piacere/dolore che rimanda alle espressioni più alte del tango porteño, ma senza lamentazioni, anzi con un certo senso di superiorità morale, di indipendenza nelle relazioni, di conscia maturità dei sentimenti (esemplare da questo punto di vista è la poesia che aggiungo in calce, Inganno, tratta dalla raccolta Ocra, del 1925) rispetto all'uomo.
Come scrive Beatriz Sarlo, l'autrice "pur ricorrendo alla
retorica tardo-romantica, in definitiva ne contraddice l'ideologia
esplicita. Alfonsina lavora con gli espedienti poetici che conosce, ma
deformandone i contenuti ideologici". E aggiunge: "Alfonsina: una donna
sola/una poetessa di successo. Questa combinazione, difficile nella Buenos
Aires del secondo decennio del Novecento, si fa largo nel mondo letterario
e nel pubblico. Ciò che si riconosce e si legge nella poesia di Alfonsina è
la volontà di contraddire i destini sociali, esercitata in decisioni
fondamentali della sua propria vita: essere una donna libera che a diciotto
anni inizia una relazione con un uomo sposato, senza tramutarla in
un'intollerabile situazione di licenziosità che avrebbe segnato per sempre
la sua vita; decidere di avere un figlio senza padre, lavorare per
mantenerlo in una grande città che non conosce, lottando per avvicinarsi a
forme professionali del mestiere letterario; brandire questa serie di
decisioni come un valore che la singolarizza ma che, al tempo stesso, può
esemplarmente funzionare per altre donne; imporsi, con tutti questi
obblighi morali e materiali, in uno spazio intellettuale dominato da
uomini; farsi amica di costoro senza rinunciare alla propria indipendenza e
alla libertà delle proprie scelte morali; scrivere una poesia chiaramente
autobiografica e, di conseguenza, render pubbliche vicissitudini, gioie e
sconfitte di relazioni considerate irregolari.
Alfonsina realizza tutto questo. Il suo impulso fondamentale è il rifiuto
dell'ipocrisia e del discorso doppio come forma di relazione fra uomo e
donna, con speciale attenzione alle questioni morali essenziali. Nella
forma della sua poesia non riesce a rompere con le convenzioni letterarie,
nemmeno con quelle più arcaiche rispetto al momento in cui scrive. Tuttavia
Alfonsina rompe quando sceglie i suoi temi poetici e vi imprime una
direzione apertamente autobiografica che non dissimula nemmeno ai suoi
inizi. In questa costosa rottura ideologica si spiegano tutte le forze che
investe nella sua poesia, per lo meno fino a metà degli anni trenta.
Alfonsina si procura un enorme consenso e, senza chinarsi a una morale
convenzionale, schiude la possibilità sociale a diverse identità femminili.
Contemporaneamente, lavorando con una retorica facile e conosciuta, fa in
modo che questa morale diversa sia letta da un pubblico molto più ampio di
quello dedito alle innovazioni avanguardistiche, da un pubblico che, in
verità, oltrepassa i confini dell'ambito intellettuale. Non opera una
duplice rottura, formale e ideologica, bensì una rottura semplice ma
immediatamente comunicabile, esemplare e piena di successo".
Continua a leggere "Alfonsina Storni - da Poemas de amor" Mercoledì, 20 giugno 2018Jean-Pierre Duprey - PoesieAlcune poesie di Jean-Pierre Duprey, cometa del surrealismo che è bruciata in fretta (suicida a 29 anni nel 1959), di cui avevo già presentato qualche testo QUI (allo stesso indirizzo trovate una nota biografica ed altre indicazioni). Altre poesie da me tradotte troveranno collocazione in una prossima pubblicazione collettiva.
Verità è falso
Le stelle hanno sorelle gemelle negli occhi delle lupe
Io, non ne ho di stelle
Il cielo è immobile nel mare
Io, non ne ho di mare
Io, io non ho un corpo ma cerco un velo
Per velare la mia apparenza di corpo
Cerco un velo impermeabile
Agli sguardi della verità
Perché non so mentire e temo troppo uno di questi giorni
Che la verità m'insegni che io soffro
Perché allora non avrei la faccia
Per dirmi che è tutta una bugia
(settembre 1946)
Canzone nel vento
Ho scoperto un gran sogno di ricordi
I fiori mi chiamano, i fiori hanno odor di donne
Gli occhi dei fiori si colorano di lacrime
Le viole1 vanno e vengono all'intorno
Il vento a tratti cambia di canzone
Il tempo a tratti cambia di mantello
Ancora i fiori parlano
E io ho casa in un angolo di cielo
Caduto malato proprio in mezzo ai fiori
In quella sera, così come la vita è infinita
Io faccio una passeggiata sulla luna
(1946.)
Amara
Al sorgere del sole piscia una bruma blu
Lui spelacchia un sole
E si taglia un cantuccio di giorno
Vuole accomodarsi in poltrona
Ma prima si suicida
Disperato di non avere quello che non ha
il poeta
il poeta
Mescola i suoi singhiozzi e chewing-gum
Si agita davanti ai grani di sangue
Che abitano il suo sparato
Volle rubare i perduti amori
E fumarli come mozziconi senza gusto
(1946.)
Corpo a corpo
La storia del mondo risale il vuoto
- Mentre qui tutto è segreto - al cielo più leggero
La sera cadeva melmosa come mescolata a piogge,
Ceppi di rumori mortali, campi di blu dormivano
Grigi di gelo e come se la vita
Si fosse coricata troppo pesante da sopportare
L'animale passò, diafano e senza appello.
Le nuvole forgiavano la battaglia del cielo,
Troppe croci, il freddo crepava il mare,
Nessuno sapeva per dove trapassare il ferro,
I corpi colpiti all'urto di corazze
La fine passava tra loro come una fitta,
Campane di sogno, campane di Dio attraversavano serrature,
Tutto si schiantò, il mare e la lotta insieme
Scivolarono attraverso la carne, troppo duro
Il vento lanciava frantumi di frasi mozze
La terrà s'apri essendo il male troppo grande
E sotto il fuoco crepò l'albero finale.
(novembre 1946)
da
Premiers poèmes publiés et inédits (1945-1947)
(traduzione G. Cerrai - 2018)
1 Les pensées
ovviamente sono anche i pensieri, ma per un testo con molti fiori ho fatto
una scelta un po' più surreale (ndt) Continua a leggere "Jean-Pierre Duprey - Poesie" Lunedì, 9 aprile 2018John Taylor - L'oscuro splendore John Taylor - L'oscuro splendore - Mimesis Edizioni, collana
Hebenon
Secondo libro di poesie, questo di John Taylor, tradotto
in italiano dopo Gli Arazzi dell'Apocalisse, a parte il libro di
prose brevi Se cade la notte (Joker Edizioni), tutti nella
versione di Marco Morello. Bisogna ricordare brevemente, per chi non lo
conoscesse, che John pur essendo nato negli States è uno scrittore molto
europeo, non solo perché vive in Francia dal 1977 ma soprattutto perché ha
con la cultura europea un rapporto strettissimo e profondo, che non è
azzardato definire di vero amore. Traduttore di autori francesi o
francofoni come Jaccottet, Dupin, Perros, Jourdan, Calaferte e altri,
Taylor ha anche un forte interesse per la poesia italiana, che negli ultimi
anni si è concretizzato in due eccellenti volumi antologici in inglese
dedicati a Alfredo de Palchi ( Paradigm: New and selected poems, 2013 - v. anche
QUI
) e Lorenzo Calogero ( An Orchid shining in the Hand: Selected poems 1932-1960, 2015),
entrambi Chelsea Editions. Da ricordare anche nella bibliografia di Taylor,
sempre in riferimento al suo legame con la cultura europea, i suoi
importanti lavori Paths to Contemporary French Literature, in tre
volumi, e Into the Heart of European Poetry, tutti pubblicati da
Transaction, oltre al più recente A Little Tour through European Poetry (2015).
Dunque come si vede John è davvero, sotto molti aspetti, uno scrittore
europeo. E non solo per i suoi studi, ovviamente, o perché vive in Europa
da lungo tempo, ma anche perchè quella cultura e quelle frequentazioni
letterarie le ha accolte, quegli stimoli li ha fatti permeare nella sua
scrittura creativa. Questa raccolta ne è una buona testimonianza, poiché mi
pare vi si possa rilevare per prima cosa, almeno ad una prima lettura, una
distanza dalla poesia contemporanea americana (per quanto essa sia una
categoria troppo generica) non minore di quella che c'è tra le due sponde
dell'Atlantico. Naturalmente questa affermazione va presa con una certa
cautela, poiché John, al di là delle suggestioni culturali, elabora in
questi versi una sua personale idea di poesia, una sua visione delle cose
che certo trasmettono nei versi anche le sue origini ("frammenti di patria
sbiadita") e i suoi studi, ma indubbiamente accoglie in pieno (poiché la
ama) la lezione soprattutto dei suoi prediletti autori francesi. Una
influenza che è sostanzialmente lirica e forse, sullo sfondo, simbolista,
orientata a gettare sul suo personale mondo uno sguardo attento ma
sufficientemente disilluso, che non guarda tanto gli "oggetti" quanto
l'atmosfera, anche interiore, nella quale essi e l'autore sono immersi e si
trovano ad esistere. Manca qui, tornando a quanto appena detto, quella
"concretezza" anche un po' pragmatica che si ritrova in tanta poesia
americana, quel confronto dell'uomo con la natura e l'ambiente, sia esso
quello dei vasti spazi o quello urbano delle strade di New York (e tuttavia
nelle "cose" - things - che qui troviamo c'è un pizzico di imagismo
statunitense). L'uomo europeo, e con lui Taylor, guarda soprattutto dentro
sé stesso, anche per tradizione filosofica e, per tradizione letteraria,
almeno fin da Baudelaire e dai suoi eredi. In Taylor ci sono certo queste
suggestioni e potremmo ritrovare anche molta della leggerezza malinconica e
venata di ombre di Paul Verlaine, trasfusa in un linguaggio trasparente e
aereo (talvolta un "verso scarno", come lo chiama Marco Morello) che ben
trasmette inquietudini e interrogativi sospesi, alla ricerca di qualcosa
che penetri l' "oscuro splendore". In questo ossimoro si cela il mistero
stesso dell'esistenza di ciascuno, sempre esposta ad un imperscrutabile
destino o al caso, al calare di una notte anche in pieno giorno, di una
"luce striata di nero", che tuttavia, portando appunto in sé un arcano, non
può che essere splendida per la mente del'uomo, e ineludibile per
l'artista. Una dimensione crepuscolare (ma non nel senso letterario del
termine, o non solo) in cui è presente la coscienza "che questo crepuscolo
sarà oscurità / alla fine // un'assenza di luce // non questa mezza luce
consolante / sopra la neve". C'è spesso nella poesia di John uno sguardo
che tenta di penetrare l'incerto, trapassare una foschia reale o
metaforica, andare oltre una marea che svela e nasconde fondali o scogli
anch'essi simbolici, giungere fino a decifrare "iscrizioni / sul fondo del
lago deserto" (Il fondo del lago è la sezione principale del
libro) che ha sommerso "qualcosa che era prezioso // i suoi bordi incerti
smussati / dall'acqua". Come in un cerchio creativo, quell' "incerto"
nebuloso (che è in ultima istanza ricerca di senso) che John cerca di
diradare con i suoi versi, è lui stesso che lo tratteggia per mezzo di una
scelta appropriata di termini "blurred", sfumati, deittici "vaghi"
(qualcosa, talvolta, forse, tutto questo, come se solo allora) o interi
versi ("eppure le onde // sono questo / e quello // e nessuno dei due // e
uniche // anche se / vengono / e vanno"; "o semplice ombra // o miraggio // cosa si trova oltre // ma è difficile da guardare") che concorrono a dipingere questo
"incerto" (vago, indefinito) e che, soprattutto a un lettore italiano,
richiamano inevitabilmente certi stilemi, questi sì, del decadentismo, che
tuttavia devono essere ricompresi in una matrice simbolista a cui tutta la
poesia francese e europea attinge. C'è da dire che nella traduzione
italiana questo senso di indeterminatezza viene in qualche minima misura
accentuato, sia per una naturale scelta di termini legati alla cultura di
chi traduce, sia - per fare un piccolissimo esempio - per l'eliminazione di
elementi determinativi come gli articoli o i pronomi soggetto, in inglese
sempre presenti. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, la cosa
importante è che il verso tayloriano derivante da tutto ciò è assai
suggestivo, limpido, efficace nell'espressione e tutt'altro che incerto sui
suoi obbiettivi, anzi perfettamente consapevole riguardo a ciò che intende
dire a chi legge. Qualità che da un certo punto di vista risultano ancora
più evidenti nei testi in prosa poetica, come John aveva già dimostrato ne Gli Arazzi dell'Apocalisse dove erano una gran parte, o nei
frammenti (qui presenti nelle sezioni Il boschetto e Il recinto), brevi aforistici lampi illuminanti nei quali con
grande piacere ho ritrovato echi e suggestioni di Pierre-Albert Jourdan, un
grande autore a cui Taylor ha dedicato molto del suo lavoro ( The Straw Sandals: Selected Prose and Poetry - Chelsea Editions,
2011). Testi nei quali, potremmo dire per concludere, John trova una intensa rarefazione. (g. cerrai) Continua a leggere "John Taylor - L'oscuro splendore" Martedì, 20 febbraio 2018Yone Noguchi - Poesie, a cura di Emilio CapaccioIo, falena senza senso del giorno, non oso volare, per non incrinare il silenzio. Y. N. YONE NOGUCHI (Tsushima, 8 dicembre 1875 – Tokyo, 13 giugno 1947) At night the Universe grows lean, sober faced, of intoxication, The shadow of the half-sphere curtains down closely against my world, like a doorless cage, and the stillness chained by wrinkled darkness strains throughout the Universe to be free. Listen, frogs in the pond, (the world is a pond itself) cry out for the light, for the truth! The curtains rattle ghostlily along, bloodily biting my soul, the winds knocking on my cabin door
with their shadowy hands.
Di notte Di notte l’universo cresce magro, sobrio-brillo, di intossicazione, l’ombra della mezza sfera cala il sipario serratamente contro il mio mondo, come una gabbia senza uscita e l’immobilità incatenata da rugose tenebre forza in tutto l’universo per essere libera. Ascolta, rane nello stagno, (il mondo anch’esso uno stagno)
grida di luce, di verità!
la mia anima, i venti bussano alla mia cabina
con le loro mani ombrose.
The Poet Out of the deep and the dark, A sparkling mystery, a shape, Something perfect, Comes like the stir of the day: One whose breath is an odor, Whose eyes show the road to stars, The breeze in his face, The glory of heaven on his back. He steps like a vision hung in air, Diffusing the passion of eternity; His abode is the sunlight of morn, The music of eve his speech: In his sight, One shall turn from the dust of the grave,
And move upward to the woodland.
Il poeta Fuori dagli abissi e dall’oscurità, un enigma di luce, una figura, qualcosa di perfetto viene come viene l’impulso del giorno: qualcosa il cui alito è un’essenza, i cui occhi mostrano la strada per le stelle, brezza sul suo viso, gloria dei cieli sulle spalle. Avanza come una visione sospesa nell’aria, spargendo passione d’eternità; la dimora che abita è la luce del mattino, il brano della sera il suo parlare: dove porge lo sguardo si viene dalla polvere della tomba, si sale alla terra dei boschi. Continua a leggere "Yone Noguchi - Poesie, a cura di Emilio Capaccio" Lunedì, 20 novembre 2017Henry Bataille - poesie, a cura di Emilio CapaccioHenry Bataille , ovvero Henry Felix Achille Bataille, nasce a Nîmes, nella regione dell’Occitania a sud della Francia, il 4 aprile del 1872.
Il padre, Léopold Bataille, e la madre, Alice Mestre-Huc, erano di famiglie
borghesi e originari del dipartimento dell’Aude. All’età di 11 anni, mentre studia a Parigi, perde prematuramente il padre,
che in quel periodo ha un incarico di magistrato presso la corte di appello
di Parigi, e 2 anni più tardi perde anche la madre. Il giovane Bataille viene allevato dalla sorella, Marguerite e dal marito,
Ernest Blagé, direttore di una delle più antiche compagnie ferroviarie
francesi. Dimostra fin da bambino un talento per il disegno e la pittura. Con l’aiuto dei suoi tutori intraprende a Parigi gli studi artistici,
presso l’‘École nationale supérieure des beaux-arts’ e l’ ‘Académie
Julian’, ma al contempo si appassiona anche di letteratura e di poesia.
Pubblica nel 1895, su incitamento dell’amico Marcel Schwob, la sua prima
raccolta di poesie dal titolo: La Chambre Blanche, caratterizzata
da uno stile che oscilla tra decadentismo e simbolismo, tra malinconia e
disillusione del soggetto poetico. La vera svolta avviene nell’ambito teatrale, in particolare con opere
contraddistinte da grandi drammi passionali e conflitti morali, come:Maman Colibri (1904), La Marche Nuptiale (1905),La Femme Nue (1908), Le Scandale (1909), La Vierge Folle (1910), L’Enfant de l’Amour (1911), che
gli valsero una grande popolarità, la rappresentazione nei teatri più
prestigiosi di Parigi e a Broadway, oltreché molte trasposizioni
cinematrografiche.
Si lega sentimentalmente a grandi attrici di teatro dell’epoca. Spesso
furono proprio queste donne a interpretare le sue opere, come nel caso di
Berthe Bady e soprattutto di Yvonne de Bray che gli resterà accanto fino
alla morte. Molti intellettuali della Belle Époque ammirano il suo teatro, primo fra
tutti Louis Aragon, che si ispira a lui per il personaggio del suo romanzo: Les Cloches de Bâle (“Le Campane di Basilea”), pubblicato nel
1934.
Tra le raccolte poetiche di Bataille, si ricordano,
oltre La Chambre Blanche (1895), Le Beau Voyage (1904), La Divine Tragédie (1907), La Quadrature de l’Amour
(1920).
Muore in seguito a un’embolia, a Rueil-Malmaison, nel dipartimento dell’Hauts-de-Seine, nella regione settentrionale della Francia, presso la sua tenuta: “Vieux Phare”, il 2 marzo del 1922. Viene sepolto nella cripta di famiglia a Moux nel dipartimento dell’Aude. Presentazione e traduzione a cura di Emilio Capaccio
Continua a leggere "Henry Bataille - poesie, a cura di Emilio Capaccio" Mercoledì, 25 ottobre 2017Anne Sexton, poesie tradotte da Chiara SeraniAnnoverata tra quei confessional poets che negli anni Cinquanta e Sessanta rivoluzionarono la scrittura poetica coeva con la messa in scena di drammi personali ed esplorazioni sfrontate di interiorità ora realmente patologiche, ora performativamente isteriche, Anne Sexton è stata di certo una poetessa originale e innovativa. In parte, anche più di Sylvia Plath, di cui fu amica e alla quale viene sempre accostata (anche qui, invero) in un confronto che in genere la vede perdente. In realtà, la Sexton fu sì meno colta e meno raffinata dell’altra ma, a rileggerla oggi, ben più modernamente ambigua, soprattutto nei confronti della cruciale rappresentazione, per entrambe, del rapporto uomo-donna. Se infatti la Plath declina il suo immaginario di ribellione al maschile soprattutto nella diade “padre”-“marito”, la Sexton si confronta con una quaterna composta da “padre”, “marito”, “amante” e “Dio” e la investe di un’ambivalenza in cui, per esempio, le figure dell’amante e del divino si sdoppiano e si moltiplicano di ruolo. Se l’amante può, semplicemente, essere donna (come fu anche, talora, nella vita della Sexton) o farsi, da un punto di vista simbolico, figura edipico-paterna, Dio rappresenta sia l’ipostasi suprema di un patriarcato puritano e repressivo sia un accogliente rifugio materno verso cui anelare (e del resto la Sexton dirà che “Dio è donna”). Al di là di questo precoce e antesignano tentativo di andare oltre il genere, la Sexton scompagina le carte dell’imperante femminismo ideologico dell’epoca (che invece della Plath fece, notoriamente, il santino) proprio per la sua feconda irresolutezza nei confronti del desiderio per l’uomo-amante. La relazione adulterina e i suoi oggetti libidici rimangono difatti sempre in bilico tra volontà di fusione e rifiuto doloroso, erotismo estatico e rabbia rivendicativa, liberazione fisica e intimo senso di colpa, gioia e angoscia. Propongo dunque qui alcune nuove traduzioni di testi della poetessa incentrati proprio sul ruolo dell’amato-amante. I primi tre provengono da una delle raccolte più note e fortunate della Sexton, Love Poems (1969), dedicata al rapporto extraconiugale da lei intrattenuto con il suo psicoanalista dell’epoca, Ollie Zweizung, mentre il quarto proviene dall’opera postuma 45 Mercy Street (1976). Si legge, in queste poesie della sua maturità, tutta la capacità dell’autrice di trasfigurare il confessionalismo autobiografico in scenari filtrati da una spiccata, talora melodrammatica, performatività (non per nulla la Sexton non apprezzò mai l’etichetta “confessional”, preferendo definirsi una “storyteller”), come nel caso della famosa The Ballad of the Lonely Masturbator, audace e ironico canto di riappropriazione del corpo e del piacere femminile in una società perbenista come quella americana dell’epoca, agli albori della rivoluzione sessuale. Ma tale riappropriazione, più che politicamente rivendicativa, discende dalla perdita dell’amante, ed è quindi frutto di un dolore che in realtà inscena la debolezza e insicurezza della donna, la quale si sdilinquisce rievocando gli incontri perduti con il suo uomo e meditando sulle menzogne dell’amore. Anche la splendida Us è percorsa da una forte drammatizzazione poetica, in cui l’amplesso diviene una sorta di unio mystica dalla quale far scaturire un oro che è quasi un simbolo alchemico di rinascita corporea e spirituale. Se l’esaltante esperienza erotica funziona qui da grimaldello emancipatorio, persino in questo caso la donna risulta volontariamente agita dall’uomo, da lui liberata dagli orpelli della sua vita borghese e incoronata principessa. Mentre in Us l’amante è il tramite per l’estasi, in December 11th – che fa parte di una serie di testi intitolata Eighteen Days Without You, esito della rottura della relazione con Zweizung – la sua assenza sprofonda la donna in una solitaria rêverie mnestica improntata, ancora, a un’appassionata nostalgia per il corpo maschile e i passati incontri amorosi. Infine, la traboccante sessualità di The Fierceness of the Female si confronta con un Dio-amante al quale offrire un orgasmo che è insieme grata affermazione vitalistica per l’eros e proclamazione di una “fierezza femminile” che va oltre il maschile e sfida persino il divino disincarnato. Perfetta bussola per la ricchezza e reversibilità dei ruoli amorosi nella poesia della Sexton è, in fondo, l’epigrafe che, da un saggio di W.B. Yeats, introduce proprio Love Poems: «One should say before sleeping, “I have lived many lives. I have been a slave and a prince. Many a beloved has sat upon my knees e I have sat upon the knees of many a beloved. Everything that has been shall be again.”»[1]. (chiara serani) [1] «Ci si dovrebbe dire, prima del sonno: “Ho vissuto molte vite. Sono stato uno schiavo e un principe. Molti amori ho tenuto sulle ginocchia e sulle ginocchia mi hanno tenuto molti amori. Tutto ciò che è stato, di nuovo sarà”» (traduzione C. Serani). Continua a leggere "Anne Sexton, poesie tradotte da Chiara Serani" Venerdì, 15 settembre 2017Georges Bataille - L'ano solare (completo) Dopo l'assaggio di tre giorni fa, ecco il testo completo de
L'ano solare
, nella mia traduzione. Un testo visionario, aggettivo spesso usato a
sproposito, anche per altri autori, ma qui quanto mai appropriato.
E' chiaro che il mondo è puramente parodistico, nel senso che ogni cosa che
si osserva è la parodia di un'altra, o ancora la stessa cosa sotto una
forma deludente.
Da quando le frasi circolano nei cervelli occupati a riflettere,
si è proceduto ad una identificazione totale, poiché con l'aiuto di una copula ogni frase lega una cosa all'altra; e tutto sarebbe
visibilmente legato se si scoprisse a colpo d'occhio nella sua totalità il
tracciato lasciato da un filo d'Arianna, che conduce il pensiero nel suo
stesso labirinto.
Ma la copula dei termini non è meno irritante di quella dei corpi.
E quando io esclamo: IO SONO IL SOLE, ne risulta una completa erezione,
perché il verbo essere è il veicolo della frenesia amorosa.
Tutti hanno coscienza che la vita è parodistica e che manca un'interpretazione.
Così il piombo è la parodia dell'oro.
L'aria è la parodia dell'acqua.
Il cervello è la parodia dell'equatore.
Il coito è la parodia del delitto.
L'oro, l'acqua, l'equatore o il delitto possono indifferentemente essere
formulati come il principio delle cose.
E se l'origine non rassomiglia al suolo del pianeta che appare esserne la
base, ma un movimento circolare che il pianeta descrive intorno a un centro
mobile, un'auto, un orologio o una macchina da cucire possono ugualmente
essere accettati come principio generatore.
I due principali movimenti sono il movimento rotatorio e il movimento
sessuale, la cui combinazione si esprime con una locomotiva composta di
ruote e pistoni.
Questi due movimenti si trasformano l'uno nell'altro reciprocamente.
E' così che ci si avvede che la terra girando fa accoppiare gli animali e
gli uomini e (siccome ciò che risulta è anche la causa che lo provoca) che
gli animali e gli uomini fanno girare la terra accoppiandosi.
E' la combinazione o la trasformazione meccanica di questi movimenti che
gli alchimisti ricercavano sotto il nome di pietra filosofale.
E' per l'uso di questa combinazione di valore magico che la situazione
attuale dell'uomo è stabilita in mezzo agli elementi.
Una scarpa abbandonata, un dente guasto, un naso troppo corto, il cuoco che
sputa nel cibo dei suoi padroni stanno all'amore come la bandiera sta alla
nazionalità.
Un ombrello, una sessantenne, un seminarista, l'odore di uova marce, gli
occhi accecati dei giudici sono le radici da cui l'amore si nutre.
Un cane che divora le viscere di un'oca, una donna ubriaca che vomita, un
ragioniere che singhiozza, un vaso di mostarda rappresentano la confusione
che serve da veicolo all'amore.
Un uomo messo in mezzo agli altri è irritato di sapere perché non è uno
degli altri.
Sdraiato in un letto accanto a una ragazza che ama, dimentica di non sapere
perché è lui invece di essere il corpo che tocca.
Senza saperne niente, soffre a causa dell'oscurità dell'intelligenza che
gli impedisce di gridare che è lui stesso la ragazza che dimentica la sua
presenza mentre s'agita tra le sue braccia.
O l'amore, o la collera infantile, o la vanità di una vecchia borghese di
provincia, o la pornografia clericale, o il canto solitario di una cantante
smarriscono dei personaggi dimenticati dentro appartamenti polverosi.
Avranno un bel cercarsi gli uni con gli altri avidamente: non troveranno
altro che immagini parodistiche e si addormenteranno vuoti come degli
specchi.
La ragazza assente e inerte che è appesa alle mie braccia senza sognare non
mi è più estranea della porta o della finestra attraverso cui posso
guardare o passare.
Ritrovo l'indifferenza (che le permette di lasciarmi) quando mi addormento
per incapacità di amare quel che accade.
E' impossibile per lei sapere chi ritrova quando la stringo perché realizza
ostinatamente un intero oblio.
I sistemi planetari che girano nello spazio come rapidi dischi e di cui il
centro si sposta del pari descrivendo un cerchio infinitamente più grande
non si allontanano di continuo dalla loro posizione che per ritornare ad
essa alla fine della loro rotazione.
Il movimento è la figura dell'amore incapace di fermarsi su di un essere in
particolare, passando rapidamente da uno all'altro.
Ma l'oblio che così lo condiziona non è che un sotterfugio della memoria.
Un uomo si alza bruscamente come uno spettro su una bara e si accascia
nello stesso modo.
Si rialza qualche ora dopo poi si accascia di nuovo e così di seguito ogni
giorno: questo grande coito con l'atmosfera celeste è regolato dalla
rotazione terrestre di fronte al sole.
Così, benché il movimento della vita terrestre sia ritmato da questa
rotazione, l'immagine di questo movimento non è la terra che gira ma la
verga che penetra la femmina e ne esce quasi del tutto per rientrarvi.
L'amore e la vita appaiono singoli sulla terra solo perché tutto vi è
frantumato da vibrazioni di ampiezza e durata diverse.
Tuttavia non c'è vibrazione che non sia congiunta con un continuo movimento
circolare, come sulla locomotiva che viaggia sulla superficie della terra,
immagine della continua metamorfosi.
Gli esseri non muoiono che per nascere alla maniera di falli che escono dal
corpo per entrarvi.
Le piante si innalzano in direzione del sole e si accasciano in direzione
del suolo.
Gli alberi innalzano sul suolo terrestre una quantità innumerevole di
verghe fiorite drizzate verso il cielo.
Gli alberi che si slanciano con forza finiscono inceneriti dalla folgore o
abbattuti, o sradicati. Tornati al suolo, essi si rialzano di nuovo con
un'altra forma.
Ma il loro coito polimorfo è funzione della rotazione terrestre uniforme.
L'immagine più semplice della vita organica unita alla rotazione è la
marea.
Dal movimento del mare, coito uniforme della terra con la luna, deriva il
coito polimorfo e organico della terra con il sole.
Ma la prima forma dell'amore solare è una nuvola che si innalza sopra
l'elemento liquido.
La nuvola erotica talvolta diventa uragano e ricade sulla terra sotto forma
di pioggia mentre la folgore lacera gli strati dell'atmosfera.
La pioggia risorge subito sotto forma di pianta immobile.
La vita animale proviene interamente dal movimento dei mari e, all'interno
dei corpi, la vita continua a tirar fuori acqua salata.
Il mare ha così svolto il ruolo dell'organo femminile che diventa liquido
sotto l'eccitazione della verga.
Il mare si masturba continuamente.
Gli elementi solidi contenuti e mescolati dall'acqua animata da un
movimento erotico ne schizzano fuori sotto forma di pesci volanti.
L'erezione e il sole scandalizzano quanto il cadavere e l'oscurità delle
cantine.
I vegetali si volgono tutti verso il sole e, al contrario, gli esseri
umani, benché siano falloidi, come gli alberi, in contrasto con gli altri
animali, ne distolgono necessariamente gli occhi.
Gli occhi umani non sopportano né il sole, né il coito, né il cadavere, né
l'oscurità, ma con differenti reazioni.
Quando ho il viso iniettato di sangue, diventa rosso e osceno.
Tradisce allo stesso tempo, con i suoi riflessi morbosi, l'erezione
sanguinante e una sete impellente d'impudicizia e di dissolutezza
criminale.
Così io non temo di affermare che il mio viso è uno scandalo e che le mie
passioni non sono espresse che dal JÉSUVE (1).
Il globo terrestre è ricoperto di vulcani che gli servono da ano.
Benché questo globo non mangi niente, esso tuttavia rigetta fuori il
contenuto delle sue viscere.
Questo contenuto scaturisce con fracasso e ricade scorrendo lungo le
pendici del Jésuve, spargendo dappertutto la morte e il terrore.
In effetti, i movimenti erotici del suolo non sono fecondi come quelli
delle acque ma molto più rapidi.
A volte la terra si masturba freneticamente e tutto sulla sua superficie
crolla.
Jésuve è così l'immagine del movimento erotico che per rottura da alle idee
contenute nello spirito la forza di un'eruzione scandalosa.
Quelli in cui si accumula la forza eruttiva sono necessariamente situati in
basso.
Gli operai comunisti appaiono ai borghesi così laidi e sporchi quanto le
parti sessuali e pelose o parti basse: presto o tardi ne seguirà una
eruzione scandalosa durante la quale le teste asessuate e nobili dei
borghesi saranno tagliate.
Disastri, le rivoluzioni e i vulcani non fanno l'amore con gli astri.
Le deflagrazioni erotiche rivoluzionarie e vulcaniche sono in antagonismo
col cielo.
Così come gli amori violenti, si metteranno in rotta di collisione con la
fecondità.
Alla fecondità celeste si oppongono i disastri terrestri, immagine
dell'amore senza condizioni, erezione senza sfogo e senza regole, scandalo
e terrore.
E' così che l'amore esclama nella mia gola: io sono il Jésuve,
immonda parodia del sole torrido e accecante.
Io desidero essere sgozzato mentre stupro la ragazza a cui avrò potuto
dire: tu sei la notte.
Il Sole ama esclusivamente la Notte e indirizza alla terra la sua violenza
luminosa, verga ignobile, ma si trova nell'incapacità di raggiungere lo
sguardo o la notte benché le distese terrestri notturne si orientino di
continuo verso l'immondizia del raggio solare.
L' anello solare è l'ano intatto del suo corpo diciottenne a cui
niente di così accecante può essere paragonato ad eccezione del sole,
sebbene l'ano sia la notte.
(trad. G. Cerrai - 2017)
Si hanno sempre dei dubbi, traducendo Bataille, come altri. Chi è, oggi, che usa la
parola ano, tanto per dirne uno? Certo, con l'uso quotidiano e
contemporaneo del linguaggio verrebbe da tradurre culo, o buco del culo, il
buco del culo del sole. Ma Bataille non scrive cul, come avrebbe
potuto fare. Lo stesso per coitare, accoppiarsi, verga ecc. La scelta,
quindi, è conservativa, con buona pace di quelli che amano fornire il paté
ai borghesi.
(1) Ho scelto di non tradurre Jésuve. Non è una parola, né un semplice neologismo. E' un concetto, assai sfaccettato, e innanzitutto il titolo di uno scritto di Bataille del 1930, pubblicato postumo. Probabile fusione di je (io) e Vésuve (Vesuvio) secondo alcuni commentatori, o di Jésus e Vésuve secondo altri, tende a sincretizzare e a farsi simbolo di "un soggetto reale, vulcanico, esplosivo, sempre in eccesso in rapporto a sé stesso" (Juliette Feyel), interpretazione che per la verità a me pare riduttiva. Altri (es. Camille Dumoulié) invece rimandano a concetti nietzschiani, che certo il Bataille filosofo rielabora, di soggetti dionisiaci o "furiosi" o "vulcanici" che proprio Bataille o Artaud incarnano. Altri ancora, specie di formazione lacaniana, vedono nel termine una dialettica Eros/Thanatos (èrotos), pianto e riso, crocifissione (dolore) e effusione lavica, orgasmica del godimento erotico e sessuale, anche scatologico. E se tuttavia pensiamo a quanto possa apparire apollinea l'esclamazione di Bataille "IO SONO IL SOLE", mi pare che al centro della sua poetica rimanga una dionisiaca vulcanica eruzione dell'io. Martedì, 12 settembre 2017Georges Bataille - L'ano solare E' chiaro che il mondo è puramente parodistico, nel senso che ogni cosa che
si osserva è la parodia di un'altra, o ancora la stessa cosa sotto una
forma deludente.
Da quando le frasi circolano nei cervelli occupati a riflettere,
si è proceduto ad una identificazione totale, poiché con l'aiuto di una copula ogni frase lega una cosa all'altra; e tutto sarebbe
visibilmente legato se si scoprisse a colpo d'occhio nella sua totalità il
tracciato lasciato da un filo d'Arianna, che conduce il pensiero nel suo
stesso labirinto.
Ma la copula dei termini non è meno irritante di quella dei corpi.
E quando io esclamo: IO SONO IL SOLE, ne risulta una completa erezione,
perché il verbo essere è il veicolo della frenesia amorosa.
Tutti hanno coscienza che la vita è parodistica e che manca un'interpretazione.
Così il piombo è la parodia dell'oro.
L'aria è la parodia dell'acqua.
Il cervello è la parodia dell'equatore.
Il coito è la parodia del delitto.
L'oro, l'acqua, l'equatore o il delitto possono indifferentemente essere
formulati come il principio delle cose.
[...]
Martedì, 22 agosto 2017Mario Fresa - Alfabeto Baudelaire Mario Fresa - Alfabeto Baudelaire - EDB Edizioni, 2017
Come ho detto altre volte, d'estate per rinfrescarsi conviene tornare ai
classici. Hanno l'innegabile vantaggio di segnare una distanza da una
contemporaneità spesso deludente, se non indicativa di una drammatica
mancanza di prospettiva. Distanza che offre un largo orizzonte, un
orizzonte di cui almeno sappiamo che cosa c'è oltre. Baudelaire è uno di
questi classici, che Mario Fresa affronta in una sua versione in questo
interessante libro edito da EDB di Milano, arricchito, come avvenne per
Apollinaire, dai bei disegni di Massimo Dagnino, i quali, come nota in
postfazione Davide Cortese, "si rapportano al proprio testo di riferimento
per via concettuale, (...) i versi funzionano come materia prima da
modificare; un elemento, una tematica laterale che si mostra nei versi
viene isolata e sviluppata in maniera autonoma". Ne esce quindi, in primis,
qualcosa di più e diverso rispetto ad una tradizionale pubblicazione
d'arte, nella quale la parte iconica è come suol dirsi "di corredo":
un'opera culturale in cui si misurano in maniera sinestesica - più che due
media - due sensibilità artistiche (vale ricordare che Dagnino è anch'egli
scrittore e poeta), una corrispondenza sensuale favorita pure dal grande
formato del libro (quasi un "in quarto").
Mario Fresa estrae dai Fiori del male dodici testi esemplari con
cui compone il suo alfabeto: si va dalla "benedizione" al "vino degli
amanti", passando per il gatto, il morto lieto, lo spleen. Momenti, luoghi,
presenze topici della poetica baudelairiana, poi diventati passaggi quasi
obbligati per la poesia successiva, per l'enorme influenza che hanno avuto,
per la mutazione del paesaggio che hanno determinato (si pensi soltanto
all'irruzione della città e di tutto l'ambiente urbano nell'immaginario
poetico, "luogo perfetto - dice Fresa in una nota - per accogliere, in sé
stesso, il delirio e il rapimento dell'ubriacatura e dello sperdimento").
Credo che sia questo il senso principale della selezione di Mario, che
costituisce anche un indirizzo critico ed estetico, non tanto e non solo
nei riguardi dello stesso Baudelaire, quanto, come accennavo prima, nella
direzione di una eredità successiva di cui è necessario tenere conto
leggendo e scrivendo anche della poesia italiana contemporanea, in cui è
difficile trovare un flaneur che non sia rattratto in sé, né una
città che non sia un non luogo, un mero arredo esistenziale. Fresa, anche
quando traduce, è uno che non dimentica mai il suo bagaglio né i suoi
debiti culturali. Ne sono parziale dimostrazione i suoi lavori su Marziale
o su Apollinaire (v.
QUI
) e diversi altri autori, ma anche i suoi svariati interventi critici sulla
produzione letteraria attuale. Ma Mario è soprattutto un poeta, ed è
poeticamente che ogni volta affronta una sfida traduttiva, non limitandosi
mai ad una trasposizione, per quanto sempre autorevole e correttissima, da
una lingua all'altra. Il suo lavoro è sempre di sintonizzazione
con l'autore "ospite" e nel contempo di sfida espressiva nei suoi
confronti, forse qui meno di quanto ebbi a dire a proposito del suo
approccio a Apollinaire, quando parlai di "traduttore inventore o
ri-creatore, sempre alla ricerca di un giusto mezzo (ma sempre con
l'azzardo dell'invenzione) tra metro e senso, tra rima e lima, tra barocco
e dodecafonia, ma sempre mosso da una specie di innamoramento di partenza
verso l'autore che traduce". Amore e rispetto, come è facile verificare in
traduzioni come ad esempio quella de L'albatro, nella quale Fresa
consegue un eccellente equilibrio, tra segno e senso, tra lettura e
interpretazione, tra sostituzione e conservazione di significati, ritmi,
resa poetica, registri lirici. È, ovviamente con le dovute proporzioni, uno
scambio proficuo tra poeti, in cui in sintesi Mario riesce a trasmettere,
anche ad un lettore come me che abbia presenti altre versioni dei Fiori, l'espritsempre nuovo e fresco di questa opera
fondamentale. (g. cerrai)
(illustrazione in calce: Baudelaire visto da M. Dagnino, 2017 - riproduzione vietata) Continua a leggere "Mario Fresa - Alfabeto Baudelaire" Mercoledì, 2 agosto 2017Non c’è estensione più grande della mia ferita,
piango la mia sventura e i suoi congiunti e sento più la tua morte che la mia vita. M. H Miguel Hernández nacque il 30 ottobre del 1910 a Orihuela, nella regione sudorientale della
Spagna che si affaccia sul Mediterraneo. Fu il secondo figlio maschio di un’umile famiglia di pastori di capre. Ricevette i suoi primi insegnamenti
tra il 1915 e il 1916 presso il centro di insegnamento “Nuestra Señora de
Monserrate”. Completò la sua formazione primaria tra il 1918 e il 1923.
L’anno dopo si iscrisse al collegio di “Santo Domingo” di Orihuela, tenuto
dai padri gesuiti, ma molto presto dovette lasciare il corso di studio per
il conseguimento del diploma, a causa del volere del padre, e impegnarsi
esclusivamente nel mestiere di pastore. In questi anni si dedicò alla
lettura di tantissimi autori classici spagnoli e scrisse i suoi primi
componimenti poetici. Partecipò a vari cenacoli letterari di Orihuela,
organizzati dal suo amico Ramón Sijé, in occasione dei quali conobbe
Josefina Manresa, che sposerà qualche anno più tardi e che fu ispiratrice
di molte delle sue poesie. Nel 1934 all’età di ventiquattro anni, pubblicò
la sua prima raccolta poetica dal titolo:
Perito en Lunas. Nello stesso anno si trasferì a Madrid dove conobbe molti illustri poeti,
tra i quali: Vicente Aleixandre e Pablo Neruda, con il quale fondò la
rivista “Caballo Verde para la Poesía”. Le idee marxiste di Neruda ebbero
una grande influenza sul giovane Miguel Hernández che si allontanò
progressivamente dal cattolicesimo per avviare una rapida evoluzione
ideologica che lo portò ad arruolarsi con i repubblicani durante la Guerra
Civile Spagnola, durante gli anni 1936-1939. Nel 1936 pubblicò la seconda
raccolta di poesie, ritenuta da molti critici la sua opera più importante,
intitolata:
El Rayo que nao cesa, nella quale spicca l’elegia dedicata alla morte dell’amico Ramón Sijé. Nello stesso anno sposò Josefina Manresa dalla quale ebbe due figli, il
primo dei quali morì nel 1938. Negli anni della guerra civile continuò a
pubblicare altre raccolte:
Viento del pueblo (1937),
Teatro en la guerra (1937) — raccolta di testi drammatici sulla guerra —,
El hombre acecha (1939). Alla fine della guerra, che vide la sconfitta dei repubblicani e la
nascita del regime franchista, ritornò a Orihuela, dove fu catturato e
condannato a morte. La pena fu commutata in ergastolo. Nel periodo di
detenzione lavorò alla sua ultima raccolta:
Cancionero y romancero de ausencias (1938-1941). Dopo essere stato trasferito in varie prigioni, morì il 24
marzo del 1942, all’età di trentadue anni, nel penitenziario di Alicante a
causa di una grave forma di tubercolosi.
Continua a leggere "" Martedì, 6 giugno 2017Ewa Lipska - Il lettore di impronte digitali, nota di Claudia Mirrione Ewa Lipska
è una delle voci che più spiccano nel panorama contemporaneo della poesia
polacca, europea ed internazionale. Tradotta in oltre venti lingue (tra le
quali inglese, francese, russo, tedesco, spagnolo e italiano), è autrice
anche di opere teatrali, poesie in prosa e prose poetiche per cui ha
ottenuto numerosi riconoscimenti e diversi premi.
Questa raccolta, “Il lettore di impronte digitali” (titolo originale Czytnik linii papilarnych), pubblicata quest’anno in traduzione
italiana da Donzelli Poesia a cura di Marina Ciccarini, indaga un tema caro alla poetessa, come
si deduce dalla poesia introduttiva “Rebus” (ma anche da altre liriche
della raccolta come “Il Big Bang” e “Il mondo”): ovvero il grido di
sofferenza dell’uomo che non riesce a decodificare il rompicapo cifrato ed enigmatico del mondo in cui è immerso
(“Il mondo / in cui vivevamo / si chiamava Rebus / e se ne infischiava
delle nostre domande”). Eppure quello dell’enigmaticità del mondo è solo
uno dei temi toccati da Ewa Lipska che si sofferma anche sul valore
terapeutico della folla e sull’intimo richiamo del ricordo (“Il banchetto”:
“Nella clinica della folla / ci sentiamo più sicuri. / Innocenti inezie di
ricordi. / Ostriche. Vino. Risate. / Per fortuna / c’è sempre più rumore. /
Un chiasso pulsante di vita), per poi puntare dritto sull’individuo, che
viene colto sia in quanto singolo sia nella relazione interindividuale.
L’individuo unico e irripetibile, come le sue personalissime impronte
digitali, e afflitto da una solitudine che “volteggia…come un aereo da
ricognizione” (La solitudine), si trova alla congiunzione tra il reale e il
virtuale. Il web infatti entra prepotentemente nelle liriche di Ewa Lipska:
da un lato, il profilo virtuale del singolo alleggerisce e anestetizza la
vita reale sublimandola in un una convulsa e compulsiva congerie di “nuovi
eventi”, “nuovi mi piace”, “contatti”, “notifiche”; dall’altro lato, ogni
atto condiviso sul web si moltiplica a dismisura negli altri profili degli
utenti dei social network, con l’amplificato risultato finale di “baciarsi
con miliardi di bocche” (“I nostri file virtuali di corpi / in album / blog
/ in taccuini di conoscenti. / Nuovi eventi. / Nuovi mi piace. / Piacciamo
alla Coca-Cola / a Ronaldo e al Papa / Siamo già / nei contatti / e nelle
notifiche. / Il nostro letto nel diario. / Toccami / e tieni premuto / Ci
baciamo con miliardi di bocche”).
Come il web è visto da Ewa Lipska come un’anestetizzazione della vita
reale, così l’ amore avviene sotto “la tenera narcosi del cielo”, che
libera l’anima dal dolore e induce al sonno e al distaccamento dalla realtà
(“Innamoramento”). Tale distaccamento dal reale può essere solo momentaneo
perché l’amore è fragile e friabile come ghiaccio al sole che alle prime
luci di marzo si scioglie e di esso rimane solo un acquoso collirio (Il
collirio), oppure può durare più a lungo, ma a costo di diventare una
guerra di compromesso perenne (“Nozze d’oro”: “Nel loro matrimonio / alcuni
colpi di Stato. / L’esercito / nelle strade del letto. / Arresti di amanti.
/ Esecuzioni. / Ora / anni dopo / dormono con le spalle alla parete. / Con
una paura analgesica”).
Il discorso poetico di Ewa Lipska, che ha in comune con la poetessa Wisława Szymborska (che conobbe quando era ancora in vita) le immagini surreali, il gusto del paradosso e il sapiente uso dell’ironia, si arricchisce inoltre, nella raccolta, di riflessioni metapoetiche sullo status della poesia. La poesia è, nell’immaginario di Ewa Lipska, la preda che si insegue, orma a dopo orma, per tutta la vita (“La caccia”) ma che è e rimane sempre sfuggente e inafferrabile contro cui i versi abbai ano, guaiscono, latrano senza raggiungerla però mai completamente: “Un verso randagio vagabonda / nella materia oscura della carta. / Non ha padroni. L’autore l’ha lasciato / in balìa del destino. Orfano di parole. /A volte / I versi sono come cani abbandonati / che abbaiano alla poesia”. (Claudia Mirrione) Continua a leggere "Ewa Lipska - Il lettore di impronte digitali, nota di Claudia Mirrione" Lunedì, 29 maggio 2017Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant Non ho una particolare predilezione per le antologie, comprese quelle tematiche. Forse perché sono selezioni di selezioni - una cosa che a mio avviso non ha altrettanto pregio dei superlativi assoluti ebraici (tipo il santo dei santi, per intenderci) - tanto più se la selezione è opera dello stesso autore, una autoantologia insomma. Che da una parte può certo aiutare il lettore, fornendo un fil rouge anche filologico o interpretativo (e in questo caso copre oltre venti anni di attività), dall'altra chiude l'opera, come potremmo dire travisando un pochino il pensiero di Eco, Barthes e compagnia bella (cosa a cui mi pare alluda anche Gian Maria Annovi in una delle note al libro). Nel senso almeno che il lavoro passa attraverso la distillazione, in primis, del senso estetico ed autocritico dell'autore. Che fa il punto della situazione e contemporaneamente - soprattutto se il libro è di una particolare compattezza tematica come questo - pone la tesi e l'ipotesi dimostrativa, l'espressione e la dichiarazione di un amor che ha attraversato quasi senza sosta il pensiero, l'atteggiamento etico, la vita dell'autore. E che attraversa questo libro. Un amor che si sostanzia, al livello più evidente, in una manifestazione - anzi una professione - di fede, in un dialogo con una presenza trascendente e ubiqua, latente ed evocata, che permea l'urbe e la natura, e che è il Dio che si può nominare (e si nomina), non quello che si manifesta inannunciato in una qualche epifania di cui la poesia possa registrare la meraviglia, è il Dio che popola le preghiere, quello ricercato con la volontà della parola e con una continuità che richiama alla mente un esicasmo (qualcosa che assomiglia a una novena o a un rosario) però inquieto, non pacificante. Una lunga prece, attraverso le raccolte qui rappresentate, a cui la poesia dà forma e veste, anzi diciamo meglio, dà una forma pubblica e per ciò stesso non intima, poiché pregna sia di una volontà di rappresentazione artistica sia di una testimonianza morale; e insieme privata, non solo per i pensieri che esprime ma anche, in molte occasioni, per la privatezza del linguaggio, l'invenzione e l'uso e riuso delle parole, la selezione operata nel vasto bagaglio culturale dell'autore e la loro dispositio, per dirla in termini ciceroniani. Ed anche per un certo mettersi in discussione, a nudo, ad esempio scegliendo di riflettere su momenti critici della propria vita. Scelta non facile, in questi tempi in cui non si può parlare di vera agnosi e forse nemmeno di vera laicità e il relativismo è alibi ancorché vuoto. Scelta che certo può risultare straniante e forse un tanto escludente, col suo ricorso ad una speculazione (usiamo per un attimo questo termine) poetica di questo tipo e tono, di questa qualità di scrittura che mi pare collocarsi (però altamente sublimandoli) fuori dalla storia e dal tempo (figurarsi poi dal cosiddetto mainstream), tonalità e scrittura che però forse assicurano al lettore una giusta distanza "classica" dalla difficile materia che è chiamato a condividere, risuonando esse a volte come in una chiesa barocca a volte in una cella claustrale. E' naturale che quella dell'autore non sia una mera meditazione sul metafisico o sul trascendentale. C'è innanzitutto in questi versi una forte coscienza della centralità dell'uomo, dell'essere, della sua capacità di articolare qui e ora un verbo autonomo, che non proviene da un Ente, ma che è espressione di una intima umanissima natura, tanto che a volte il dio e l'io si confondono ("orante io superorale", dice Annovi), una aferesi che rimanda direttamente a una "immagine e somiglianza" che, a pensarci bene, è insieme nucleo centrale della fede e pesante lascito e responsabilità per l'uomo. Meditazione sull'evento e la sua offerta a (o corrispondenza con) Dio, rispecchiamento nel divino o viceversa in quanto di divino contiene la vita, anche allorquando l'uomo riscontrasse una sua solitudine, una sua orfanezza da Dio medesimo. Anche allora, anche in quel dolore, mi pare dicano questi versi, rimarrebbe forse dubbiosa o incerta ma intatta la coscienza, l'intelletto (e forse l'orgoglio) dell'uomo di sé, dei suoi limiti ma anche delle proprie forze, anche nella dialettica costante con l'Altro, o con la propria anima, il proprio "servo rosso". Anche la preghiera, se vogliamo, è un'invenzione dell'uomo, la creazione di un medium, di un linguaggio, di un canale di comunicazione (o comunione), di un sollievo. Invenzione non solo nel senso storico evangelico, ricordando che il Cristo ne ha insegnata e lasciata in legato una soltanto - e ricordando anche (tornando sui binomi pubblico/privato, preghiera/poesia) quel che dice Matteo (6.5-8): "quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto" (un discorso, appunto, di privatezza che la poesia non può né deve riconoscere); ma anche come artifizio retorico (sia detto senza nessuna connotazione negativa), esattamente come la poesia stessa, nel suo istituirsi come "voce" o canto che racchiude in sé la sua bellezza o il suo fine. E la preghiera, nella necessità ancestrale dell'uomo, è anche comunicazione univoca, a cui non segue risposta, o ne segue per vie e manifestazioni ellittiche o forse non immediatamente percepibili. Ma Valesio, come tutti i credenti, non ha ragione di porsi il problema, la domanda viene formulata, o solo suggerita, e magari non è nemmeno una vera domanda ma una invocazione gettata in aria, ed è questo il senso della sezione del libro intitolata "Volano in cento (Poesie 1999-2001)", cento "dardi" scagliati verso l'alto, giaculatorie (di cui "dardo" è calco etimologico) con le quali l'invocazione si libra e che in sé esauriscono la loro funzione, si conchiudono come una dossologia, poiché "Se non mi dai risposta questo è il segno / che mi stai ascoltando". E' l'essenza della fede. Nessuna pretesa né sicurezza di riscontro, la preghiera (e anche la poesia, tutto sommato) non è "la formula che mondi possa aprirti": non lo è con certezza, e forse non lo è nemmeno per Valesio. Ma io credo che nel "contrasto" tra poesia e preghiera, nella sospensione del tempo che la preghiera assicura, nella sublimazione e annegamento mistico dentro la poesia e nella riformulazione della preghiera in quella, nel suo fondo, Valesio cerchi una sua personale sintesi. Una sua gnosi. (g.cerrai) Continua a leggere "Paolo Valesio - Il servo rosso / The red servant" Giovedì, 18 maggio 2017Tutti i rumori del mondo formano un grande silenzio.
J. P.
Joaquín Pasos
nacque il 14 maggio del 1914 a Granada, città sulla sponda occidentale del
grande lago che prende il nome dal paese in cui si trova, ovvero il
Nicaragua. Figlio di Luis Pasos e Rosa María Arguello Jiménez, dopo aver
fatto gli studi primari presso il centro scolastico di Carmela Noguera, una
nota maestra di Granada, si diplomò, il 14 marzo del 1932, nel “Colegio
Centroamérica”, amministrato dai gesuiti, nella stessa città di Granada.
Fin da piccolo mostrò una particolare predilezione per la poesia. Fu un
grande ammiratore di José Coronel Urtecho, Pablo Neruda e César Vallejo.
Visse in una tappa dell’evoluzione culturale del suo paese in cui si
rompevano i dettami stilistici del movimento modernista avviato da Rubén
Darío per promuovere un avanguardismo nazionalista pregno di posizioni
conservatrici. Già all’età di sedici anni, aderì al “Movimiento de
Vanguardia”, al quale aderirono, fra gli altri: José Coronel Urtecho e
Pablo Antonio Quadra. A partire dagli anni ‘30 la sua attività
poetica-letteraria si fece particolarmente intensa e riconosciuta,
collaborando con importanti riviste: “Suplemento”, “La Reacción”, “La Voz
de Oriente”. Nel 1935 si trasferì a Managua per continuare i suoi studi. Si
iscrisse alla facoltà di Diritto, presso l’ ‘Universidad Central’ e terminò
il corso, cinque anni più tardi, senza mai ritirare il titolo. Negli stessi
anni collaborò con altre riviste, quali: “Opera bufa”, “Centro” e la
rivista satirica “Los Lunes de la Nueva Prensa”. Con le sue satire si
scagliò contro il regime di Anastasio Somoza García, che gli valsero varie
volte la reclusione nel carcere de “La Aviación” di Managua. Nel 1939
lavorò a un’opera teatrale insieme a José Coronel Urtecho, intitolata:Chinfonía Burguesa. Nel 1941, scrisse il racconto: El Ángel Pobre. Nel 1946, dopo aver intrapreso un viaggio nel Cile
alla ricerca del libro: “Tutto può succedere” di George & Helen
Papashvily, la sua famiglia gli donò la casa dove sarebbe dovuto andare a
vivere con la donna che avrebbe dovuto sposare, con la quale però non
contrasse mai matrimonio, di contro ebbe un figlio con un’altra donna. Morì
il 20 gennaio del 1947, a Managua, all’età di 33 anni, in seguito a un
arresto cardiaco, provocato probabilmente da un abuso di alcol e da una
febbre tifoidea. Non vide mai la sua opera riunita in forma di libro. Nel
1947, dopo la sua morte fu pubblicata un’antologia della sua opera, secondo
le sue stesse disposizioni, intitolata: Breve Suma. Nel 1962, il
poeta e amico Ernesto Cardenal pubblicò un’antologia più completa dal
titolo: Poemas de un Joven. Oggi Joaquín Pasos è considerato da
molti critici il più importante poeta avanguardista del suo paese e il suo
componimento più rappresentativo, Canto de guerra de las cosas,
una pietra miliare della poesia nicaraguense: «il dolore umano
provocato dal lamento delle cose» come Pasos stesso definì la poesia. Il componimento è una lunga meditazione
metafisica sul tema della morte e della guerra (seconda guerra mondiale) in
un mondo apocalittico che segue il ritmo e la struttura del sermone;
descrive al contempo un vuoto spirituale dettato dalla perdita di
un’identità morale a causa di un ineluttabile abbandono dei valori etici e
religiosi.
Introduzione e traduzione di Emilio Capaccio (*) Poema inmenso
En estas tardes tu perfil no tiene línea precisa pues no hay un límite en tu gesto para el principio de tu sonrisa pero de repente está en tu boca y no se sabe cómo se filtra y cuando se va nunca se puede decir si está allí todavía lo mismo que tu palabra de la cual jamás oímos la primera sílaba y nunca terminamos de escuchar lo que decías porque estás tan cercana en esta lejanía que es inútil preguntar cuándo vino tu venida pues entonces nos parece que has estado aquí toda la vida con esa voz eterna, con esa mirada continua, con ese contorno inmarcable de tu mejilla, sin que podamos decir aquí comienza el aire y aquí la carne viva, sin conocer aún dónde fuiste verdad y no fuiste mentira, ni cuándo principiaste a vivir en estas líneas, detrás de la luz de estas tardes perdidas, detrás de estos versos a los cuales estás tan unida,
que en ellos tu perfume no se sabe ni dónde comienza ni dónde termina.
Poesia immensa
Questa sera il tuo profilo non ha linea precisa perché non c’è limite nel tuo gesto per il principio del tuo sorriso ma d’improvviso questa tua bocca non si sa come traspare e quando svanisce non si può mai dire se è ancora là come la tua parola di cui non sentiamo mai la prima sillaba e non finiamo mai d’ascoltare quello che dice perché è così vicina in questa lontananza che è inutile chiedere quando fu la tua venuta perciò non sembra tu sia stata qui tutta la vita con questa voce eterna, con questo sguardo continuo, con questo contorno indistinto della tua guancia senza poter dire qui comincia l’aria e qui la carne viva, senza conoscere dove ancora fosti verità e non menzogna, né quando cominciasti a vivere in queste righe, dietro la luce di questa sera perduta, dietro questi versi ai quali resti così attaccata, che dentro di essi il tuo profumo non si sa dove comincia né dove finisce.
Invento de un nuevo beso En junio comienza tu estación espiritual con un bostezo hablando de asuntos adecuados a tu olfato pequeño leyendo lindas aventuras de amor y de misterio. Algo hay detrás de ti, cuando tú misma pretendes custodiar la espalda de tus pensamientos
cuando tu propia sombra, al verte primavera, se cree invierno.
Confesar que la lluvia es enemiga del sosiego, decir “estoy bien” y asustarse del acento, estar triste a la hora en que se abren los sueños, esto revela que tratas de desviar tu recuerdo,
de sustraer tu vida a mi secreto.
Simple es la historia universal, como este cuento.
Pero ahora comienzas a gritar en silencio, a encender cigarrillos sin fuego,
a verte sin espejo.
Como si yo no oyera, mujer, a través de tu cuerpo el enorme ruido de tu miedo. Como si no sintiera que nos envuelve el mismo viento ciego! Porque podemos sostener con nuestras maños unidas la cabeza del tiempo que cae con vaivén de péndulo, porque en junio florecen los recuerdos y maduran los sueños, porque lo que hay entre mi fuerza y tu debilidad ya lo sabemos, porque estamos detrás de nuestros propios pensamientos leyendo de nuevo la aventura de amor y de misterio. Invenzione di un bacio In giugno comincia la tua stagione spirituale con uno sbadiglio parlando di temi adeguati al tuo piccolo olfatto leggendo belle avventure d’amore e di mistero. Qualcosa c’è dietro di te, quando tu stessa pretendi di custodire il retro dei tuoi pensieri
quando la tua stessa ombra, vedendoti primavera, si crede inverno.
Confessare che la pioggia è nemica della calma, dire “sto bene” e spaventarsi dell’accento, essere triste nell’ora in cui si aprono i sogni, questo rivela che tenti di deviare il tuo ricordo,
di sottrarre la tua vita al mio segreto.
Semplice è la storia universale, come questo racconto.
Ma ora cominci a gridare in silenzio, ad accendere sigarette senza fuoco,
a vederti senza specchio.
Come se io non sentissi, donna, attraverso il tuo corpo l’enorme frastuono della tua paura. Come se io non sentissi che ci avvolge lo stesso vento cieco! Perché possiamo sostenere con le nostre mani unite la testa del tempo che cade con un andirivieni di pendolo, perché in giugno fioriscono i ricordi e maturano i sogni, perché quello che c’è tra la mia forza e la tua debolezza già lo sappiamo, perché siamo dietro i nostri stessi pensieri leggendo di nuovo l’avventura d’amore e di mistero. Continua a leggere "" Martedì, 2 maggio 2017 Primož Čučnik - Trilogia (variazioni 2004 - 2014), a cura di Michele Obit -
Incertieditori, 2016, note di lettura di Loredana Di Pietro e Giampaolo De
Pietro
Primož Čučnik è nato nel 1971 a Lubiana, dove si è laureato in filosofia e
sociologia della cultura. La sua prima raccolta Dve zimi nel 1999
ha ottenuto il premio come miglior libro esordiente in Slovenia. I suoi
successivi libri sono stati: Ritem v rokah (2002), Oda na manhatanski aveniji (2003, assieme a Gregor Podlogar e Žiga
Kariž), Akordi (2004), Nova okna (2005), Sekira v medu (2006) e Delo in dom (2007). A Cracovia,
presso la casa editrice Zielona sowa, nel 2002 è uscita una sua miscellanea
intitolata Zapach herbaty. Sue poesie sono state pubblicate
nell’antologia A Fine Line: New Poetry from Eastern & Central Europe. Traduce
dal polacco e dall’inglese. Scrive inoltre critiche letterarie e saggi ed è
redattore della rivista Literatura nonché fondatore e redattore
della casa editrice di tascabili Šerpa. (Fonte nota bio: Librobreve).
Della Trilogia, raccolta di componimenti dello sloveno Primož Čučnik degli anni 2004-2014, colpisce subito 'immagine delle nuove finestre, a cui è intitolata la prima sezione della raccolta. Queste alludono certamente ai nuovi scenari, politici e sociali, che si affacciavano nella vita dei cittadini sloveni (nel 2004 la Slovenia entrava a far parte della Comunità Europea) all'indomani della conclusione dei conflitti tra le vicine nazioni dell'ex-Jugoslavia. (…) ciò che Čučnik intende raccontarci, fin dai primissimi versi, è proprio il dissolversi della scena collettiva, osservata come una parata alla finestra, (…) un'identità difficile, non solo naturalmente divisa tra personale e collettivo (…) ma anche frantumata e fluttuante: più che di instabilità, si affronta qui una vera e propria alterità dell'essere, (…) dell'essere uno ed essere molti (si cita qui il nume decostruzionista Derrida), in un movimento che logora i confini del tempo e dello spazio, li sbiadisce attraverso il continuo sovrapporsi delle immagini e delle voci. (…) E dunque la poesia di Čučnik descrive, nella Trilogia,una parabola apparente, in realtà un percorso circolare che si ricongiunge a se stesso trascorrendo sui miti del tempo e della modernità, per ritrovare infine una marca d'autenticità in quanto nel tempo resta immobile: l'accadere spontaneo della natura, il calore di un canto ritrovato, con fatica o forse con inerzia immemore (da una nota di lettura di Loredana Di Pietro). Continua a leggere ""
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