Mario Fresa - Alfabeto Baudelaire - EDB Edizioni, 2017
Come ho detto altre volte, d'estate per rinfrescarsi conviene tornare ai
classici. Hanno l'innegabile vantaggio di segnare una distanza da una
contemporaneità spesso deludente, se non indicativa di una drammatica
mancanza di prospettiva. Distanza che offre un largo orizzonte, un
orizzonte di cui almeno sappiamo che cosa c'è oltre. Baudelaire è uno di
questi classici, che Mario Fresa affronta in una sua versione in questo
interessante libro edito da EDB di Milano, arricchito, come avvenne per
Apollinaire, dai bei disegni di Massimo Dagnino, i quali, come nota in
postfazione Davide Cortese, "si rapportano al proprio testo di riferimento
per via concettuale, (...) i versi funzionano come materia prima da
modificare; un elemento, una tematica laterale che si mostra nei versi
viene isolata e sviluppata in maniera autonoma". Ne esce quindi, in primis,
qualcosa di più e diverso rispetto ad una tradizionale pubblicazione
d'arte, nella quale la parte iconica è come suol dirsi "di corredo":
un'opera culturale in cui si misurano in maniera sinestesica - più che due
media - due sensibilità artistiche (vale ricordare che Dagnino è anch'egli
scrittore e poeta), una corrispondenza sensuale favorita pure dal grande
formato del libro (quasi un "in quarto").
Mario Fresa estrae dai Fiori del male dodici testi esemplari con
cui compone il suo alfabeto: si va dalla "benedizione" al "vino degli
amanti", passando per il gatto, il morto lieto, lo spleen. Momenti, luoghi,
presenze topici della poetica baudelairiana, poi diventati passaggi quasi
obbligati per la poesia successiva, per l'enorme influenza che hanno avuto,
per la mutazione del paesaggio che hanno determinato (si pensi soltanto
all'irruzione della città e di tutto l'ambiente urbano nell'immaginario
poetico, "luogo perfetto - dice Fresa in una nota - per accogliere, in sé
stesso, il delirio e il rapimento dell'ubriacatura e dello sperdimento").
Credo che sia questo il senso principale della selezione di Mario, che
costituisce anche un indirizzo critico ed estetico, non tanto e non solo
nei riguardi dello stesso Baudelaire, quanto, come accennavo prima, nella
direzione di una eredità successiva di cui è necessario tenere conto
leggendo e scrivendo anche della poesia italiana contemporanea, in cui è
difficile trovare un flaneur che non sia rattratto in sé, né una
città che non sia un non luogo, un mero arredo esistenziale. Fresa, anche
quando traduce, è uno che non dimentica mai il suo bagaglio né i suoi
debiti culturali. Ne sono parziale dimostrazione i suoi lavori su Marziale
o su Apollinaire (v.
QUI
) e diversi altri autori, ma anche i suoi svariati interventi critici sulla
produzione letteraria attuale. Ma Mario è soprattutto un poeta, ed è
poeticamente che ogni volta affronta una sfida traduttiva, non limitandosi
mai ad una trasposizione, per quanto sempre autorevole e correttissima, da
una lingua all'altra. Il suo lavoro è sempre di sintonizzazione
con l'autore "ospite" e nel contempo di sfida espressiva nei suoi
confronti, forse qui meno di quanto ebbi a dire a proposito del suo
approccio a Apollinaire, quando parlai di "traduttore inventore o
ri-creatore, sempre alla ricerca di un giusto mezzo (ma sempre con
l'azzardo dell'invenzione) tra metro e senso, tra rima e lima, tra barocco
e dodecafonia, ma sempre mosso da una specie di innamoramento di partenza
verso l'autore che traduce". Amore e rispetto, come è facile verificare in
traduzioni come ad esempio quella de L'albatro, nella quale Fresa
consegue un eccellente equilibrio, tra segno e senso, tra lettura e
interpretazione, tra sostituzione e conservazione di significati, ritmi,
resa poetica, registri lirici. È, ovviamente con le dovute proporzioni, uno
scambio proficuo tra poeti, in cui in sintesi Mario riesce a trasmettere,
anche ad un lettore come me che abbia presenti altre versioni dei Fiori, l'espritsempre nuovo e fresco di questa opera
fondamentale. (g. cerrai)
(illustrazione in calce: Baudelaire visto da M. Dagnino, 2017 - riproduzione vietata)
Su "Trasversale", il blog/rivista di Rosa Pierno, alcuni miei inediti tratti da una raccolta dal titolo provvisorio di "Luoghi scarsamente popolati", con una acuta e articolata nota critica di Mario Fresa. Ringrazio di cuore Mario e Rosa Pierno per l'attenzione e l'ospitalità.
Ritrarsi e narrare di Mario Fresa
C’è il senso di un’obliqua alterità e la sensibile eco di una lucida, raffinata sprezzatura in questi nuovi testi poetici di Giacomo Cerrai: essi appaiono immersi in un’atmosfera tutta brumosa e anfibia, nella quale gareggiano, alternandosi o convivendo, un’attitudine alla descrizione pura degli eventi e una prospettiva divagante ed enimmatica, tesa al nascondimento e all’elusione del soggetto che pazientemente registra lo schiudersi della realtà osservata. La narrazione-descrizione si fa essa stessa, allora, straniante e sospesa, nel segno di una continua trasfigurazione, misteriosa e mercuriale, di colui che guarda e di ciò che è guardato: una trasfigurazione nella quale, tuttavia, l’epicentro dell’osservazione digrada a poco a poco, e poi sfugge e si ritrae, infine moltiplicandosi e disperdendosi in una dimensione plurima, fitta di specchi e di rifrangenze che spingono l’occhio ad avanzare con movimenti liquidi e ingannevoli. (continua a leggere QUI)
Alcune versioni di Mario Fresa da Apollinaire, contenute in un libriccino edito con cura da L'Arca Felice (Salerno, 2016) con disegni di Massimo Dagnino. Qui come in altre occasioni Mario è traduttore inventore o ri-creatore, sempre alla ricerca di un giusto mezzo (ma sempre con l'azzardo dell'invenzione) tra metro e senso, tra rima e lima, tra barocco e dodecafonia, ma sempre mosso da una specie di innamoramento di partenza verso l'autore che traduce. L'ironia divertita (che è quella un po' beffarda ma critica del lettore smaliziato) è indispensabile per Mario, basta leggere le sue versioni di Marziale, belle ed esilaranti (v. QUI), per rendersene conto, come pure le sue "imitazioni" di/da Catullo (ma più che di imitazioni si tratta, come ha scritto Giorgio Linguaglossa, di "un lavoro intenso di attraversamento dei testi del passato" - v. QUI). Forse i puristi della traduzione, soprattutto i sostenitori della "fedeltà", potranno non condividere le sue scelte, ma a me sembra evidente in queste versioni l'adesione allo spirito sia del testo sia dell'autore, che ben traspare senza che vi sia, in questo senso, alcuna vera "loss in translation", nemmeno quando si tratta di passare dal calligramma al verso lineare, come in Piove. In altre parole e per quanto possa apparire pleonastico, in italiano Apollinaire qui è proprio Apollinaire, così come lo sono stati Marziale e sotto altri aspetti Catullo, soprattutto perchè Fresa vi immette (e ammette) una "simpatia" (sympatheia) nei loro confronti. Non credo viceversa che, come qualche commento ha asserito, si tratti di attualizzazione o rammodernamento in senso stretto. Mi pare, e per me questo è importante, che sia un atto creativo (postmodernista o no qui non ci interessa) che fa appello a una cultura assimilata e la rimette in un gioco consapevole, divertito o serio che sia, che finisce per amplificarne il senso. (g.c.)
Mario Fresa - Uno stupore quieto - Ed. Stampa2009, 2012, "La collana", a cura di M. Cucchi
Un senso di insopprimibile inquietudine è il sentimento predominante
nella lettura di questo ultimo libro di Mario Fresa. Dietro la copertina
innocente e il titolo insospettabile ci aspetta un mondo incerto,
mobile e perfino poco sicuro, visto che si parla (anche) di metamorfosi
kafkiane, di sicari, di morte. Si incomincia la lettura di ciò che non
ha importanza definire prosa poetica o poesia in prosa, e ci si ritrova in un terrain vague in cui i tradizionali punti di riferimento
che ci conducono per mano verso un confortevole traguardo del senso
vengono a mancare progressivamente. Siamo lettori precari, in balìa
dell'immaginazione dell'autore, del suo onirismo ragionato con cui
rovescia il consueto complesso di inferiorità di chi scrive ("oddio, mi
si capirà?") nei confronti di chi legge e instaura - e sospetto con
molto divertimento di Mario - una sua personalissima dittatura. E
tuttavia è in questa precarietà che il lettore accorto cerca e trova il
suo equilibrio, la sua "colmatura" dei vuoti, incastra il "suo" senso.
Lo "stupore" del titolo, parola che interviene più volte nel testo, non
ha niente di romantico, né è quieto, ma assomiglia più ad un
avvertimento a stare viceversa all'erta, a non farsi cogliere
impreparati o in uno stato ipnotico, a cui la realtà - anche di tutti i
giorni, anche di cronaca - rischia di ridurci. Può essere lo stupore
della morte, oppure di inusitati sbocchi di eventi, o di svolte
inopinate nell'andamento naturale delle cose. Ci sono vari personaggi,
personalità forse multiple, maschere in commedia, insospettabili,
malati, assassini. C'è l'autore stesso, ovviamente, di fronte al mondo,
alla vita, ai suoi dolori e alle sue ridicolaggini, alle sue perdite e
alle sue ingiustizie, a cui cerca di porre qualche risarcimento, qualche ricucitura, con la scrittura.
Direi che non si può parlare di versificazione, qui, o forse è inutile.
Richiamare il verso lungo, come fa M. Cucchi nella breve prefazione,
non indica molto. Il riferimento in tal senso a esponenti del 900 è
ammissibile direi più in termini morfosintattici, di utilizzo delle
catene semantiche in un certo modo, dei traslati, del linguaggio comune ecc. Chi
indicare? l'andamento prosastico e "parlato" di Raboni, ad esempio del
suo "Cadenza d'inganno"? un Pagliarani più decostruito? Vai a sapere...(e del resto, già in "Alluminio" (v. QUI) erano presenti molti elementi del Fresa odierno). A
me, che mi piace l'azzardo, è venuto in mente Gadda, non tanto nel
senso del pasticcio linguistico, della geniale enumerazione
dell'ingegnere, quanto dell'ironia (che anche Cucchi segnala) sempre
sottesa a questa "disarmonia prestabilita" di Fresa, ma anche - e non a
caso, direi - l'andamento un po' improbabile del melodramma in agguato.
Comunque sia, Fresa è uno che ci sa fare con il linguaggio, da una parte
aborre la retorica, dall'altra la conosce tanto bene (e conosce bene i
meccanismi che innesca nella nostra mente) da architettare tranelli
tanto simili a quelle buche coperte da innocenti ramoscelli in cui casca
la tigre. Avviene così di ritrovarsi in un ambiente, in una storia (?),
in un sogno che non è il nostro, in un dialogo che ci appare
decontestualizzato, in una frase che non termina e ci lascia seccamente
di fronte, per dirla con Borges, a sentieri che si biforcano. Si cade,
sotto molti aspetti, in un abile tranello narrativo, con la nostra
stessa complicità, dato che vengono frustrati certi esiti che la nostra
mente di lettori ingenuamente si aspetta.
Non credo che sia del tutto fuori luogo, nel caso di questo libro,
accennare da una parte ad una presenza dell'onirico come mimesi del
reale e valorizzazione e nobilitazione dell'ordinario e dei suoi sbocchi
anche inaspettati; dall'altra ad un linguaggio finzione, quasi campionato
da segmenti di nastro magnetico (ecco, ora mi viene in mente Beckett),
o da citazioni di citazioni, e messo in teatro in testi anche complessi,
anche vertiginosi; dall'altra ancora a ciò che vorrei definire una
narrativa "a iati", per sottrazioni o atti mancati, come in cerca di
autore, ma - per le ragioni che dicevamo - niente affatto reticente,
anzi fortemente suggestiva, nel senso etimologico del termine. Per
questo mi pare che sia una piccola sottovalutazione parlare, come fa il
prefatore, di "uso regolare del parlato, per quanto senza eccessi"
(corsivo mio). Viceversa l'insieme degli elementi a cui accennavo
costituisce un "eccesso" felicemente "sregolato", il fascino maggiore di questo libro ed
anche la sua carica "sperimentale", a cui corrisponde la richiesta di
una forte e consapevole partecipazione da parte del lettore. (g.c.)
Su Farapoesia un mio "ritrattino" scritto da Mario Fresa, che ringrazio molto:
Si sarebbe tentati di parlare, a proposito della poesia di Giacomo Cerrai, di una costante calma inquietudine; o anche, meglio, di un sofferto rigore: perché la guerra interna che muove le dense e tese immagini della sua scrittura ondeggia, senza sosta alcuna, tra il desiderio
di un abbandono inconsapevole, «fanciullesco», alla selva dei misteri quotidiani e la pervicace volontà di sfuggire alla febbre dell’interrogazione e
dell’analisi di quei segreti, consegnandosi a una vigile e scientifica impassibilità emotiva, il cui proposito è il raggiungimento di un’assoluta,
liberatoria atarassia. In ogni caso, il pensiero dominante che invade con insistente ossessione (...)
Che nella poesia di Monia Gaita il ritmo musicale, la
fonìa di insieme sia nello stesso tempo strumento e obbiettivo, elemento
fàtico e misura per il fruitore, appare subito evidente, non solo fin
dalla prima lettura in cui subito l'occhio si impiglia in accenti, ma
anche dalla cura quasi maniacale (acribìa) delle note al testo, (un
esempio: mòngolo: s.m. e agg., individuo appartenente ai
Mongoli, popolazione dell'Asia centrale che ecc.). Per la verità
sospetto che la cosa faccia parte del gioco, se non proprio come
elemento straniante che riporta - in senso lato - alla sperimentazione,
almeno nel senso che come ogni "musicista" Gaita aspira a dare
indicazioni nette e autoriali al proprio "esecutore" (lettore), in modo
che non si prenda troppe libertà (ecco perchè accennavo prima al
fàtico). Perciò mi torna ciò che Gaita afferma in fondo al libro in una
piccola intervista con Mario Fresa, suo prefatore: "Per me la poesia
largheggia e si incrementa anche nell'impasto sinfonico di una partitura
musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l'apposizione degli
accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva
ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore
echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa
coerentemente si combina sotto l'egida del gioco elementare
significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise,
bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale."
Ecco quindi l'accentazione "ostinata" (tanto per rimanere nel campo
semantico musicale), artificio (sia detto in senso classico) che tra le
mie conoscenze mi rimanda a Silvia Comoglio (v. QUI),
che però lo usa in maniera un pò meno affollata e contestualmente ad
altri "segni". Ed ecco anche quella saturazione semantica a cui accennava la
stessa Gaita più sopra. Infatti (e si torna alla puntualità
delle note) le parole si fanno astratte e "distanti" l'una dall'altra,
spesso varcando "i limiti della pura ineffabilità", dice Fresa nella
prefazione, e sono d'accordo, con una selezione lessicale spesso ricercata, astratta e "rara". Che poi tutto ciò perda un pò in potenza
connotativa, mi pare inevitabile. Acquistandone magari un' altra, di
altro tipo.
E fin qui ci siamo. Bisogna aggiungere che il ritmo in musica non è
tutto, e Gaita lo sa benissimo. Ecco perchè gli accenti poi a loro volta
diventano chiodi che fissano le parole a un supporto (sia detto - qui -
in senso plastico, pittorico), ne fanno installazione, le portano alla
rilevanza iconica che mi ricorda, tra l'altro e tra gli altri, qualcosa
di Joseph Kosuth (e scusate l'azzardo)
Credo che Gaita abbia ben presente questo concetto, almeno a giudicare
dalla sua dichiarazione di poetica, in cui mi pare si faccia accenno
non tanto alle "cose", ai temi, alla narrazione ("la mia poesia non è
facilmente comunicativa perchè per me la poesia non ha da comunicare...
resta pur sempre Arte Assoluta"), quanto alle modalità manipolatorie,
consce e inconsce ("...parto sempre da ricordi, esperienze in
svolgimento, passate o immaginate possibili...Ma poiché ritengo che nel
pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra
oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a
fette fate, brume e mondi")
Perciò ecco perchè in definitiva il lavoro di Monia Gaita mi sembra che
debba essere considerato un interessante esempio di poesia
"concettuale" pura, parecchio vicina alla nota definizione di Sol
LeWitt ("Nell'arte concettuale l'idea o concetto è l'aspetto più
importante dell'opera... L'idea diventa una macchina che crea l'arte."),
poesia attraverso cui però Gaita, riservandosi un ampio margine di fede
nella possibilità di "sgretolare il caos", dipinge a larghe campiture barocche una sua vicenda e insieme un'idea
personale della crisi moderna, che viaggia velocemente verso una Babele
comunicativa di cui il linguaggio è il primo protagonista e la prima vittima.
Monia Gaita - Moniaspina - Edizioni L'Arca Felice, 2010
Questo libro di Marco Furia (Pentagrammi, Ed. L'Arca Felice, 2009) si presenta compatto, senza divisioni in sezioni o capitoli, come una silloge
serrata, di una musicalità percussiva, di canone (in senso musicale) o di bolero (ma nella prefazione si cita giustamente Debussy). Linguaggio depurato dai suoi connettivi e anche, cosa molto importante, dai verbi. Cioè dalle azioni, dalla temporalità che il verbo è chiamato ad
esprimere, sia esso un passato più o meno recente, o il presente ininterrotto che caratterizza tanta poesia contemporanea. Quello che c'è è una
martellante presenza di participi passati in funzione aggettivante o di infiniti, cioè quanto di più spersonalizzato nella funzione verbale. E' una
scelta, di un prosciugamento del linguaggio in segni, questi sì, effettivamente, adatti a inscriversi in pentagrammi, in partiture di lettura ed
esecuzione. Va da sè che se ci fosse un io in questi testi, esso sarebbe pietrificato nel corpo del testo, come in un blocco di marna asciugato dal
sole. Non è un caso quindi che Mario Fresa, nella prefazione, parli di "istante infinito della parola" e di "coordinate spaziali e temporali (..)
radicalmente azzerate e ricostruite secondo immagini coraggiosamente libere dalla gabbia del nome e dell'identità".
La costruzione è quindi massiccia, come si diceva, perfino squadrata, con i suoi venti testi di trenta linee ciascuno. Se un rischio c'è in questa scrittura è l'effetto eco o l'ipnosi, il sogno, il déjà lu, la ripetizione di un modus trovato e riconosciuto soddisfacente al sé, e quindi una auto maniera, ma forse, anzi sicuramente, c'è un
modus in rebus, una modalità insita nella cosa linguaggio, nel tipo di linguaggio selezionato, che (cito ancora Fresa) è "felicemente dimentico di quel rapporto
basso,
utilitaristico, secondo il quale la parole deve coincidere col senso e il senso deve identificarsi con ciò che si mostra". Da qui una sua particolare efficacia, di
onda piuttosto consistente che si frange sul lettore e, viceversa, lo scuote.
Quattro poesie tratte da "Come una nave", plaquette pubblicata dalle Edizioni L'Arca Felice (2008), nella collana "Coincidenze" a cura di Mario Fresa, con illustrazioni di Prisco De Vivo. Le pubblicazioni de L'Arca Felice sono infatti sempre corredate da riproduzioni a tiratura limitata di opere di vari artisti.
Informazione viva
Allora ho pensato a te,
che mi chiamavi e alzando
quel poco lo sguardo ho osservato
prima indistinta, come una suggestione,
infine quasi chiara, una forma
avanzare, oscillare. Come una nave,
о dì sicuro una nave
che rompeva l'orizzonte arrivando
in una strana, confusa evanescenza.
Come un messaggio sbucava, come
un'informazione viva
о superstite, integra,
emersa da un nero immenso tutto.
Sangue e famiglia
Ho amato e rimpianto la famiglia,
la famiglia dei vìncoli di sangue,
degli affetti assoluti, dei dolci ricatti.
Ma quella stanza, adesso, è sempre più
stanza di sbranamenti.
Ma è in se, dentro di sé, che crolla
о è il mondo che se la mangia, la famiglia?
E poi, l'orrore che era intimo, segreto, vero,
erompe e vomita a colori
sulle nostre pietanze,
sui piatti delle nostre cene.
Oltre la pagina
La poesia ha parole pesanti
che in queste strane pagine
sembrano mobili e leggere.
Viaggiano quasi imprendibili,
cangianti, e disorientano
la nostra vecchia mente di carta.
Chissà se in questa luccicante
casa in affitto
troveranno dimora stabile,
amica, e dunque vita
che si rinnova autentica.
Credo di sì, perché la poesia
chiede di spargersi e andare
lieve e piana nel mondo,
che forse non lo sa
però la sta aspettando.
Tenerezza bambina
La tenerezza bambina della donna
si realizza nell'incontro sognato
e chi arriva a inverarlo,
quell'incontro,
non è angelo del cielo, sublime creatura,
ma un tipo qualsiasi come me,
che trova per sempre un beneficio
e dice grazie.
Maurizio Cucchi è nato a Milano, dove vive, nel 1945. Consulente letterario, pubblicista, traduttore (da Stendhal, Lamartine, Flaubert, Villiers de l’Isle-Adam, Prévert), ha pubblicato questi libri di poesia: II disperso (Mondadori, 1976; nuova edizione Guanda, 1994), Le meraviglie dell'acqua (Mondadori, 1980), Glenn (San Marco dei Giustiniani, 1982, Premio Viareggio), II figurante (scelta di versi, 1971-1985, Sansoni, 1985), Donna del gioco (Mondadori, 1987), Poesia della fonte (Mondadori, 1993, Premio Montale), L'ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999), Poesie 1965-2000 (Oscar Mondadori, 2001). È autore del romanzo Il male è nelle cose (Mondadori, 2005) e del libro di prose La traversata di Milano (Mondadori, 2007). Ha curato il Dizionario della poesia italiana (Mondadori 1983 e 1990) e con Stefano Giovanardi l'antologia Poeti italiani del secondo Novecento, 1945-1995 (Mondadori, 1996).