Mercoledì, 8 giugno 2011
Che nella poesia di Monia Gaita il ritmo musicale, la
fonìa di insieme sia nello stesso tempo strumento e obbiettivo, elemento
fàtico e misura per il fruitore, appare subito evidente, non solo fin
dalla prima lettura in cui subito l'occhio si impiglia in accenti, ma
anche dalla cura quasi maniacale (acribìa) delle note al testo, (un
esempio: mòngolo: s.m. e agg., individuo appartenente ai
Mongoli, popolazione dell'Asia centrale che ecc.). Per la verità
sospetto che la cosa faccia parte del gioco, se non proprio come
elemento straniante che riporta - in senso lato - alla sperimentazione,
almeno nel senso che come ogni "musicista" Gaita aspira a dare
indicazioni nette e autoriali al proprio "esecutore" (lettore), in modo
che non si prenda troppe libertà (ecco perchè accennavo prima al
fàtico). Perciò mi torna ciò che Gaita afferma in fondo al libro in una
piccola intervista con Mario Fresa, suo prefatore: "Per me la poesia
largheggia e si incrementa anche nell'impasto sinfonico di una partitura
musicale invisibile ma presente. Ciò avviene, e con l'apposizione degli
accenti acuti e gravi, e con un’accurata scelta lemmatica che eleva
ogni parola a unità infungibile e necessaria. Il ritmo interiore
echeggia nell’eiezione fonico-espressiva delle strofe e ad essa
coerentemente si combina sotto l'egida del gioco elementare
significante-significato-suono. La parola ha delle note ben precise,
bisogna solo cercarle, dando loro flauti, voce e combustibile vitale."
Ecco quindi l'accentazione "ostinata" (tanto per rimanere nel campo
semantico musicale), artificio (sia detto in senso classico) che tra le
mie conoscenze mi rimanda a Silvia Comoglio (v. QUI),
che però lo usa in maniera un pò meno affollata e contestualmente ad
altri "segni". Ed ecco anche quella saturazione semantica a cui accennava la
stessa Gaita più sopra. Infatti (e si torna alla puntualità
delle note) le parole si fanno astratte e "distanti" l'una dall'altra,
spesso varcando "i limiti della pura ineffabilità", dice Fresa nella
prefazione, e sono d'accordo, con una selezione lessicale spesso ricercata, astratta e "rara". Che poi tutto ciò perda un pò in potenza
connotativa, mi pare inevitabile. Acquistandone magari un' altra, di
altro tipo.
E fin qui ci siamo. Bisogna aggiungere che il ritmo in musica non è
tutto, e Gaita lo sa benissimo. Ecco perchè gli accenti poi a loro volta
diventano chiodi che fissano le parole a un supporto (sia detto - qui -
in senso plastico, pittorico), ne fanno installazione, le portano alla
rilevanza iconica che mi ricorda, tra l'altro e tra gli altri, qualcosa
di Joseph Kosuth (e scusate l'azzardo)
Credo che Gaita abbia ben presente questo concetto, almeno a giudicare
dalla sua dichiarazione di poetica, in cui mi pare si faccia accenno
non tanto alle "cose", ai temi, alla narrazione ("la mia poesia non è
facilmente comunicativa perchè per me la poesia non ha da comunicare...
resta pur sempre Arte Assoluta"), quanto alle modalità manipolatorie,
consce e inconsce ("...parto sempre da ricordi, esperienze in
svolgimento, passate o immaginate possibili...Ma poiché ritengo che nel
pensabile risieda e pulsi verità e sostanza, non distinguo tra
oggettività e soggettività, ne mescolo le carte a piacimento, ne mangio a
fette fate, brume e mondi")
Perciò ecco perchè in definitiva il lavoro di Monia Gaita mi sembra che
debba essere considerato un interessante esempio di poesia
"concettuale" pura, parecchio vicina alla nota definizione di Sol
LeWitt ("Nell'arte concettuale l'idea o concetto è l'aspetto più
importante dell'opera... L'idea diventa una macchina che crea l'arte."),
poesia attraverso cui però Gaita, riservandosi un ampio margine di fede
nella possibilità di "sgretolare il caos", dipinge a larghe campiture barocche una sua vicenda e insieme un'idea
personale della crisi moderna, che viaggia velocemente verso una Babele
comunicativa di cui il linguaggio è il primo protagonista e la prima vittima.
Monia Gaita - Moniaspina - Edizioni L'Arca Felice, 2010
Morònidi
Làcrime d'òppio di solitùdine, su queste strade opprèsse nel respiro.
Orba da tutt'e due gli òcchi la speranza, nella foltézza orsina di péli di rammàrico.
Brùcia com’una fiamma ossìdrica il passato, adèsso che ti ho pèrso per ottacòrdipane, cime di Pinatubo, di monchézza.
Nelle vocali mute del presènte, déntro trincianti in filòni di metallo, ancòra cérco Morònidi di luce
I minimósca
Moltìplico per cinque la speranza nell'àcido perclòrico di dèfluo delle strade.
Si disidràtano più di verdura placche diftériche di "fórse". Con pedalata rotónda córrono desidèri.
Non pattuisce résa alcuna l'illusióne, óra che i minimósca di paura sanno di muffatìccio come stanza.
Su pentagrammi di volére, frìvole di civétta, le pèsche a pasta róssa dei minuti
Vivaci come pòlka
Cercarti déntro i gemèlli monocoriali vóci della séra, quando i moncóni di matita d'annoiato tèngono in mòlle lenticchie inoperanti.
Trovarmi pèrsa nell'intonacatura lìscia dei tuoi òcchi e accarezzarti i guanti in montóne rovesciato, al fóndo di paiòlo, delle labbra.
Dópo le arànce mòre di qualche bàcio dalla saliva a pièghe, con mòrso piccante reagènti di paura
che dalla pluridattilìa dei sógni tu pòssa uscire per àbiti a pois vivaci come pòlka: disvolére
Tra megascale
Ferrata a ghiàccio d’impossìbile la pace, rimangono sól0 pòche gócce di vino di volére.
Umanità, da sempre nei giunti elàstici delle contraddiziòni ad allargare giri di mura alle percòsse, òlio di sansa gréggio, diédri, òssido palladóso, all'acrimònia.
Non mancheranno mai al male scalatóri, il giòco di stantuffi cattivo di pagélla, più crudo di raccónto, delle fròdi, la potestà genitoriale deiscènte di legume, dell'assurdo.
Ancóra tirerà su i màntici la mòrte. Tra megascale di rimónte, con ali stése com'ossìfraga: soprusi
Conflagro
Auméntano i sémi di caiano delle vóci. Con òcchi-camaleònte ruòtano le illusiòni.
Potrei anche morire nella cambusa di speranza di quest’óra e batacchiare ulivi di corallo, pomìferiradianti, al desidèrio.
Si métte alle còstole dei tétti il sóle, sul crepitàcolo avanzante, rìccio di pappardèlla, dei trattóri.
Più d'una réte m'avvìncola l'anta distésa delle cose. Conflagro in entusiasmo di larghe damigiane
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