Questo libro di Marco Furia (Pentagrammi, Ed. L'Arca Felice, 2009) si presenta compatto, senza divisioni in sezioni o capitoli, come una silloge
serrata, di una musicalità percussiva, di canone (in senso musicale) o di bolero (ma nella prefazione si cita giustamente Debussy). Linguaggio depurato dai suoi connettivi e anche, cosa molto importante, dai verbi. Cioè dalle azioni, dalla temporalità che il verbo è chiamato ad
esprimere, sia esso un passato più o meno recente, o il presente ininterrotto che caratterizza tanta poesia contemporanea. Quello che c'è è una
martellante presenza di participi passati in funzione aggettivante o di infiniti, cioè quanto di più spersonalizzato nella funzione verbale. E' una
scelta, di un prosciugamento del linguaggio in segni, questi sì, effettivamente, adatti a inscriversi in pentagrammi, in partiture di lettura ed
esecuzione. Va da sè che se ci fosse un io in questi testi, esso sarebbe pietrificato nel corpo del testo, come in un blocco di marna asciugato dal
sole. Non è un caso quindi che Mario Fresa, nella prefazione, parli di "istante infinito della parola" e di "coordinate spaziali e temporali (..)
radicalmente azzerate e ricostruite secondo immagini coraggiosamente libere dalla gabbia del nome e dell'identità".
La costruzione è quindi massiccia, come si diceva, perfino squadrata, con i suoi venti testi di trenta linee ciascuno. Se un rischio c'è in questa scrittura è l'effetto eco o l'ipnosi, il sogno, il déjà lu, la ripetizione di un modus trovato e riconosciuto soddisfacente al sé, e quindi una auto maniera, ma forse, anzi sicuramente, c'è un
modus in rebus, una modalità insita nella cosa linguaggio, nel tipo di linguaggio selezionato, che (cito ancora Fresa) è "felicemente dimentico di quel rapporto
basso,
utilitaristico, secondo il quale la parole deve coincidere col senso e il senso deve identificarsi con ciò che si mostra". Da qui una sua particolare efficacia, di
onda piuttosto consistente che si frange sul lettore e, viceversa, lo scuote.