Lunedì, 28 settembre 2015Marina Pizzi - Plettro di compietaMarina Pizzi - Plettro di compieta - Lietocolle 2015 Compièta, nella Liturgia delle Ore della Chiesa
cattolica, è l'ultimo atto di una giornata di preghiera, dopo i Vespri.
Si recitano salmi e si cantano inni prima di andare a dormire. Domani è
un altro giorno, e si ricomincia da capo. Ma se per caso il domani non
dovesse arrivare, l'anima sarà salva. E' dunque una metafora del
compimento di una vita ammodo, almeno dal punto di vista dell'anima,
cominciata con il mattutino, all'alba, una specie di ri-nascita. Non so se Marina Pizzi avesse in mente qualcosa
del genere quando ha raccolto questo libro, pensasse di "suonare" a modo
suo, col suo plettro, una parabola che si avviasse a qualche
compimento. Ho qualche motivo per dubitarne, come pure del fatto che in
questa poesia lei intenda trasfondere una serenità benedettina. Non
escluderei invece una vaga allusione a qualcosa d'altro, una pietas di substrato che dovrebbe essere di ogni poesia. In fondo le speculazioni sui titoli espongono a qualche pericolo di misunderstanding,
proprio come avviene in finanza. Mi sembra invece più significativo il
sottotitolo, "Novantanove poesie 2008-2014", che credo racchiuda un paio
di indicazioni, una sul carattere di "raccolta" o canzoniere,
abbastanza insolita per Marina, che a sua volta stabilisce dei confini
temporali, un prima e un dopo; l'altra sul costante fascino che i numeri
hanno su di lei (quel "novantanove" ammetto mi ha fatto sorridere), con
la loro infinita serialità (e infatti non vale dividerli in quattro
sezioni come in questo libro) e - infine - l'eternità che racchiudono in
sé. Spessissimo infatti i suoi libri sono un insieme di testi
numerati secondo la serie cardinale che lasciano sempre una sensazione
di work in progress, di qualcosa che termina solo
momentaneamente. Del suo stile, della sua scrittura, del suo sistema
metaforico e immaginativo ho scritto in diverse occasioni (è possibile
recuperare quegli interventi, che vi invito a leggere, tramite questo TAG), e qui aggiungerei solo alcune cose. di rinterzo. Per quanto possa apparire strano, per me e per chi
conosce Marina, la prima cosa che risalta è la vena lirica che
attraversa tutta la raccolta,e mi pare che le poesie che ho scelto lo
dimostrino. E' apparentemente qualcosa di inedito, che tuttavia
tornerebbe con quello che si diceva del titolo, cioè come un modo di
ripensare le cose sul far della sera (e a ben vedere questa vena, molto
ben mimetizzata, è riscontrabile in tutto il suo lavoro). Mi pare nel
complesso che la nota agra e "arrabbiata" che persisteva nella poesia di
Marina, la sua diuturna lotta con il mondo, con il malessere del
vivere, con le delusioni e le perdite, in questo libro si siano
variamente mitigati, non per rassegnazione ma forse per una diversa
coscienza di un limite intrinseco alle cose, alla vita stessa contro cui
alla fine è inutile continuare a sbattere, per il riconoscimento di una
qualche sensatezza nelle cose che accadono, di una loro leggibilità.
Certo, il linguaggio continua a richiedere al lettore la dovuta
attenzione, continua la lotta di Marina con le parole per estrarne con
certa violenza l'indicibile, anzi per addossare ad esse una ulteriore
significanza, una responsabilità, forse una colpa; continua il
coagularsi dei testi intorno a parole feticcio (animula, ascia, gerundio, cipressi, meringa ecc. che non di rado
rimbalzano da un testo all'altro, e a volte deragliano) e in brevi ma intense immagini in cui
l'occasione (l'ispirazione) si contorce in visioni spesso di un
surrealismo inquietante alla Max Ernst, ma sostenute da un
sottofondo musicale segnato da non rari endecasillabi o almeno dalla
scelta di sonore parole piane in chiusa del verso. Dal punto di vista
della lingua poetica Marina non è mai stata una autrice "facile", come
certo non lo era quella che ritengo il suo nume tutelare, Amelia
Rosselli. E' sempre necessario, leggendola, cercare di individuare un
nucleo, una associazione per quanto astratta, una metafora in genere più
concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica ("mia madre è
stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di vita"), il
suo linguaggio è - mutuando il concetto dall'informatica - di basso livello,
cioè molto vicino alla "sorgente" del pensiero, umano o di macchina che
sia, ma anche ad una percezione quasi nervosa del dolore e della
"privazione" (intendendo questo termine in senso ampio). Certo questo non significa che quella di Marina sia "solo" una scrittura effusiva, sorgiva o "automatica". Credo che ci sia dietro anche un intenso lavorio, spesso ansioso e insoddisfatto, ma che questo lavorio consista appunto (e qui forse sta il suo valore di ricerca) nel mantenere un equilibrio, in bilico sul fulcro di quel livello espressivo di cui dicevamo, tra "sorgente" e comunicazione, un equilibrio che sembra per lei vitalmente necessario, al di là di eventuali compromessi con chi legge. Se c'è un punto critico, come ho scritto altre volte, è quello di una serialità stilistica, di una "maniera" o modulo replicabile, una specie di labirinto borgesiano di cui i compatti testi di Marina costituiscono le pareti. Ma forse anche quello è a sua volta significativo di una impossibilità, di una mono-tonia del tempo, di una invariabilità, di una "meccanica" dell'esistenza. O forse è solo un modo di vivere (e di vivere la poesia) a cui è difficile sfuggire. (g.c.) Continua a leggere "Marina Pizzi - Plettro di compieta" Martedì, 30 dicembre 2014
Leggo con molta simpatia la prefazione che a questo libro ha fatto Gianmario Lucini, recentemente scomparso. Ho sottolineato alcuni
passaggi, dei quali due o tre combaciano con cose che ho scritto in passato riguardo al lavoro di Marina, altri mi trovano in disaccordo. Ma a parte questo
la prima cosa che mi sento di rimarcare è la aperta disposizione a capire e a condividere, a interpretare e ad accogliere che Lucini aveva nei confronti di
tutta la poesia, anche quella che con ogni evidenza è lontanissima dalle sue corde, di chi - annota - "è abituato a leggere (e a scrivere, come il
sottoscritto) la poesia in modo diverso, più vicino alla tradizione". Una cosa che va tutta a suo onore.
L'approccio di Lucini potrebbe apparire disarmato, di fronte alle asperità che presenta il lavoro (questo e tutti i precedenti) di Marina. Tanto che in più
punti sembra invitare il lettore a non voler "capire", a non tentare di afferrare il "senso" delle parole dell'autrice. Tuttavia relativizza, giustamente,
il problema del "senso" ed è lettore troppo acuto per arrendersi, individuando alcuni punti essenziali. Vediamoli.
Mi pare indubbio, come Lucini nota per prima cosa, che Pizzi segua una sua maniera di versificare tutto sommato tradizionale, quasi un verso libero in cui
non è infrequente trovare dei perfetti endecasillabi o assonanze o perlomeno una quantità enorme di parole parossitone che degli endecasillabi sono il
fulcro, la cui finalità però non è tanto quella di stabilire un ritmo o una piacevolezza quanto quella di creare un "ordito di suoni, un contrappunto sul
quale innestare il materiale linguistico", secondo le parole di Lucini, che aggiunge che se così non fosse quello del poeta "potrebbe essere scambiato per
un linguaggio schizofrenico" (e c'è molto di assolutorio, della buona disposizione di Lucini, in questa affermazione). L'obbiettivo quindi sarebbe quello
di creare un "ambiente sonoro", una specie di camera acustica in cui il lettore riceve le suggestioni dell'autore, appunto soprattutto sonore, come
principale "significato" dei suoi versi. Tuttavia questo ci porta ad una certa passività di chi legge o almeno a quanto Lucini sottolinea più
avanti.
Del secondo punto che annota Lucini, cioè che la lingua di Pizzi appaia progettata, non sono del tutto convinto, non credo insomma che, per quanto
Marina operi una sua evidente selezione delle parole come tutti, ci sia in lei una strategia, un artificio, a parte la scelta frequente, come
accennavo prima, di parole piane. Per la verità quando parla di progettazione Lucini si riferisce appunto alla ricerca di musicalità, ma anche delle
potenzialità associative, di calembour, di gioco di certi accostamenti anche quando "cozzano" producendo, aggiungo, come un attrito sconcertante. Il fatto
è, a mio avviso, che, come ho detto altrove, l'approccio di Pizzi alla lingua, la "sua" lingua, non è solo ludico-strumentale (e di ludico c'è poco
davvero), ma è fortemente emotivo, al di là delle apparenze, tanto che - scrivevo - è in questa funzione emotiva che Marina "rinviene (e, certo, anche
seleziona, lima, ecc.) le sue parole, i suoi personali nessi metaforici, scardina il rapporto naturale tra parole e cose, mette in crisi la
relazione dei segni, recupera quella dei suoni" (un testo esemplare può essere ad es. il 64, vedi più oltre). E certamente - altra cosa che annota Lucini -
è importante qui il ruolo dell'inconscio "generatore di simboli" che l'autrice sfrutta per ridurre il ruolo della coscienza quale "censore" che tende a far
passare solo il prodotto della "riflessione". Ruolo che non deve essere sottovalutato, certo come fonte, ma che entra in qualche contraddizione con quel
tanto di progettazione di cui si diceva prima. Potremmo dire allora, in sintesi, che in Pizzi il controllo non è assoluto, né può esserlo, e che i
testi migliori vengono illuminati, anche di senso, dall'equlibrio di questi due elementi principali. E credo che proprio il raggiungimento di questo
equilibrio sia la vera faticosa ricerca di senso di Pizzi ("leggiucchio le voragini del senso / l'arbitrio di commettere adulterio / con le frattaglie del
non senso", brano 33), del suo tentativo di leggere la sua realtà.
Da queste caratteristiche, dall'accostamento insolito di significato, dall'ambiente sonoro generato da questa poesia, secondo Lucini deriva una ristrutturazione del ruolo del lettore "il quale non è più colui che deve capire il messaggio, ma colui che deve creare un senso
lasciandosi trasportare dalle suggestioni", ruolo in cui diventa fondamentale l' "ambiente sonoro" e la "musica" che lo stesso Lucini aveva già
sottolineato. In altre parole il lettore deve "lasciarsi sedurre dal senso che quelle espressioni provocano in lui", non ha altra possibilità, è anzi
"inutile soffermarsi (a nostro avviso) cercando il pensiero dell'autrice che, ne siamo convinti, fa di tutto per non seminare significati certi e
definitivi nei suoi lavori". Con questo giudizio abbastanza netto ecco che si torna al concetto di passività del lettore accennato qualche
paragrafo fa, Giudizio che non è contestabile in sé, ma che implica almeno un paio di osservazioni. La prima è che la lettura appare insieme passiva (la
seduzione) e soggettiva (il senso provocato in lui, magari diverso da quello provocato in altri), cosa che peraltro corrisponde molto a
una delle possibili funzioni evocative della poesia. L'altra e conseguente è che il lavoro del poeta, dell'autore, diventa improvvisamente aleatorio, cosa che non nego abbia il suo fascino ma che espone l'autore ad un arbitrio al di là delle sue intenzioni creative, di quel che voleva
dire. In altre parole, per dirla con U. Eco, se il lettore ha l'iniziativa interpretativa il testo vuole essere interpretato con un margine sufficiente di
univocità, ovvero appunto non arbitrariamente. Per parte mia in passato avevo scritto che "la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore,
la sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita') cosi' come lo vede l'autrice" e che "da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore,
una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E' una specie di viaggio
esoterico, di riconquista di codici". Personalmente sono ancora convinto di questo, del fatto che la seduzione, che comunque c'è, non basti, che lo sforzo
riguardi soprattutto il riconoscimento del profondo sistema metaforico della poesia di Marina, riconoscimento in cui certo l'esperienza personale del
lettore, la sua "soggettiva" ha un'importanza fondamentale (ma invito a leggere quelle mie note). E' comprensibile in
ultima analisi, e in parte fondato, che Lucini da una parte, come si è visto, inviti a non ricercare a tutti i costi il "pensiero" dell'autrice e
dall'altra, più avanti, affermi che forse quel "pensiero" non esiste: "non esiste, quindi, un definibile e/o oggettivabile pensiero poetico
dell'autrice, anche se, a lettura ultimata, risulta chiaro anche se non esplicitabile, che l'autrice segue un suo pensiero, una sua teoresi". Un pensiero
che, seppur marcando uno iato tra pensiero stesso ed espressione, "si può intuire da molte spie, una delle quali potrebbe essere ad esempio la frequenza di
determinate parole nei testi". E' questa la giusta e centrata intuizione di Lucini, su cui sono davvero d'accordo, e cioè che, facendo un passo ulteriore,
si possa ricostruire ciò che altrove ho chiamato il sistema mefatorico di Pizzi, ovvero il vero senso della sua scrittura. E' questo il
lavoro da fare.
Qualche altra osservazione, per chiudere. Avevo già segnalato in una delle note precedenti su Marina una sua certa "maniera", qualcosa di più di uno stile
consolidato. E cioè la scoperta, anzi la costruzione, di un meccanismo poetico funzionante e collaudato. Anche Lucini nota qualcosa in questo senso quando
parla di via percorribile, parla del libro come di "una proposta che regge, è di buona qualità ed è aperta (corsivo mio), alla portata di tutti,
passibile di ibridazioni e di innesti, soprattutto con la musica". Le parole di Lucini prefigurano una specie di format accessibile da un lettore
che decida di farsi poeta. E in effetti si potrebbe avere l'idea, brutale e del tutto ingiustificata, della sostituibilità all'interno dei testi di Pizzi
di elementi lessicali o parti strutturali che li compongono. Un modello formale che però, come tutte le forme, è una scatola vuota che andrebbe riempita
con il talento dell'autore. E tuttavia la modalità è potenzialmente inesauribile. In questo senso si pone in contraddizione col concetto stesso di
"ricerca", almeno di ricerca di forma. E in questo senso va anche interpretata sia la prolificità di Marina sia la sua pressoché costante caratteristica di
numerare i testi in lunghe filze (99 in questo caso, oltre 100 in diverse altre occasioni). Tanto che a volte ci si domanda se Marina non sia (e non
sarebbe la sola) l'autrice di un solo Libro suddiviso in tomi arbitrariamente e che i testi stessi, che appaiono finiti, siano davvero "finiti".
Eppure, al di là dell'eventuale automanierismo, mi pare che in molti testi, tra cui quelli della mia selezione, il registro di Pizzi, la sua capacità
evocativa ed espressiva si sia ulteriormente affinata, forse anche grazie ad un lieve ma percettibile riavvicinamento ad una significatività. Ad
esempio dove il dato è più "concreto" la poesia è più "leggibile", intendendo entrambi gli aggettivi in senso lato (si veda a titolo esemplificativo il
brano 28). Analogamente, per fare un diverso esempio, l'uso del "tu" assume un'importanza sostanziale, da personaggio. Il tu, se dovessimo disegnarlo o
esprimerlo con il linguaggio dei segni, sarebbe un dito puntato. Contro chi? Quello di Marina è un tu bifronte, come un giano, un tu in cui è possibile
riconoscere abbastanza agevolmente quello che mimetizza l'io dell'autrice e quello "titolato", dell' "altro", di chi sta (o stava) di fronte. Entrambi
colpevoli, in qualche misura, e perciò oggetto dell'invettiva linguistica, del frangersi di ondate verbali, per quanto misurate (a volte in perfetti
endecasillabi) e musicali, come aveva visto Lucini.
Non resta da dire in definitiva che quella di Marina è, in effetti, una scrittura difficile, intorno alla quale è altresì difficile esaurire gli
argomenti. Poichè mi sono occupato della sua scrittura in almeno sei diverse occasioni (il primo post risale al 2006, trovate tutto su Marina Pizzi in
IE QUI) rimando volentieri
chiunque sia interessato a quelle note, con l'avvertenza che alcune delle cose che ho scritto potrebbero essere rivedibili. Buona lettura.(g.c.)
Continua a leggere "" Domenica, 3 giugno 2012Marina Pizzi - inediti da "Cantico di stasi"Cantico di stasi. Canto di una cesura, di un rallentamento, di un flusso emozionale che sbocca in una pozza però non immota perchè il dolore, la morte, la mancanza delle persone amate, la fatica del dire tuttavia non si placano, la lingua ancora si torce (come la trottola spesso presente) in lunghe spirali metaforiche e simboliche che si aprono in bagliori di senso, in vere rivelazioni di insospettati accostamenti. Marina Pizzi conferma il suo personalissimo stile, con tutte le peculiari caratteristiche a cui ho accennato più volte su IE (v. il tag QUI) e con una intatta fiducia nella (o con un accorato appello alla) capacità plastica ed evocativa della lingua, del suo suono, dei significati che ad essa appartengono, perfino quelli "segreti" che lo stesso canone della lingua ad essa non assegna. Eppure, in questa conferma tutt'altro che statica, riconosco - quanto meno nei testi che ho scelto - un movimento, una diversa tensione come di bisogno di riappacificazione, una certa musica, anche metrica, non proprio usuale per Marina, una certa vena lirica. Che non so se l'autrice coltiverà o rigetterà come una "debolezza", se la riterrà o meno funzionale a quel potenziale analitico (o se volete catartico) che Marina credo annetta da sempre alla sua scrittura e che mi auguro trapassi in pieno ad un lettore accorto. 4. così si dice pianga la lucciola quando la manna si fa spazzatura presso la porta dorata del folletto. il bimbo gioca a se stesso da piccolo ma non lo sa e non è felice appieno. si sa che è uno zero lunatico questo tuo perno senza cibo sfinito nella ruggine. nella sabbia che fatica le staffette corre la fiamma a cercar di amare le zuffe di ferrosi amanti. in un duetto di fragole di maggio invento le gole di fratelli golosi così noiosi da sembrar gemelli. l’arena di truppa non fa finir la guerra né la buona cucina invita qualcuno per esorcizzare il rantolo. la pagnottella con il prosciutto è leccornia da altare. tu inventa una steppa che sappia grilli parlanti come le gemme delle favole. dividi con me questo cimitero acquatico di fuoco. io non voglio chiamarmi più marina né in altro modo. Continua a leggere "Marina Pizzi - inediti da "Cantico di stasi"" Lunedì, 3 gennaio 2011Marina Pizzi - DecliniAlcuni testi dei 122 che compongono "Declini" di Marina Pizzi, ebook
edito da Pagina Zero nel 2008 (v. qui), libriccino che consiglio di
leggere se ancora non lo avete fatto. Di Marina Pizzi ho già scritto
qualcosa in passato (v. tag relativo in fondo al post), note che sono
state poi riprese anche da Poesia 2.0., a cui rimando per altri testi
ivi reperibili (oltre che ovviamente in giro per il web) e per la bio-bibliografia. Non so se
questo libretto è poi confluito in altre opere a stampa, ma al momento
non risulta essere compreso nella bibliografia della Pizzi. Come ho già detto altre volte, su Marina Pizzi, che ritengo una delle voci attuali più interessanti, bisognerà quanto prima fare una riflessione complessiva per valutarne a fondo l'innegabile valore poetico. un salottino di primi maghi quando si giocava e il vandalo elevato alla potenza era ben lontano e lo sfasciacarrozze del sangue era ben lontano in un manipolo di cespugli si giocava alla costanza del trenino all’acqua magica, con la penuria del dopo l’avvento di costringere frasette di commiato la stasi darsena seguita dall’attesa in frode d’ascia. 12. avrò vent'anni ma il calice è nero nerissimo l'urlo della specie sottratta nella faccenduola gravida del pianto dove la vena inchioda un sangue nero bravura del commiato mare di scontro da sotto il mento un sì che non ha valore ma sisma di cometa l’erba panica ridotta ad un cimelio di facciata 21. ho il freddo di chi vive modesto impresario del sale in uso all'acqua docile enigma mano sul da farsi incognita comunque dove il velo dell'ora stenda cometa in libera uscita, l’uscio aperto in una mole di luce il fulcro scivola a non dar perimetro. Continua a leggere "Marina Pizzi - Declini" Lunedì, 22 novembre 2010Su Marina PizziLe tre o quattro note che nel tempo ho dedicato al lavoro di Marina
Pizzi, sono state raccolte e ripubblicate su Poesia 2.0 qui e qui,
nell'ambito di una più ampia rassegna dell'autrice. Forse alcune delle
cose dette allora andrebbero meglio precisate o addirittura espunte,
in quanto in qualche modo pleonastiche. Nella sostanza, almeno per
quanto riguarda quei testi, rimango della stessa opinione, con
la consapevolezza tuttavia che ce ne sarebbero di cose da aggiungere su
una poetessa che è sempre stata in progress e molto ha puntato sulle potenzialità plastiche della lingua, sulla sua capacità di dire come parole (in senso saussuriano), al di là del senso comune di una langue per quanto così particolare e tipica come quella poetica. In altre parole sulla elasticità creativa
e di invenzione del linguaggio, in modalità che spesso molto
accentuano, allargano, affiancano il senso già noto. E molto ha
puntato anche, a volte con qualche sonora delusione o sconfitta, sulla
poesia come cuneo per spezzare il ceppo coriaceo del dolore. Facendone
partecipe il lettore, anzi costringendolo a diventarne spettatore,
spettatore attivo in quanto necessitato ad impadronirsi per quanto
possibile di un sistema simbolico e metaforico articolato e complesso,
non certo immediato ma che alla distanza restituisce una gamma
espressiva di alto livello artistico.
Venerdì, 3 luglio 2009Marina Pizzi, L'inchino del predone
Come si fa ad esprimere un dolore di vivere che si sente immenso e ingiusto? Come si fa a dire l'indicibile, - eterno dilemma del poeta - ?
Continua a leggere "Marina Pizzi, L'inchino del predone" Lunedì, 11 dicembre 2006Marina Pizzi, di nuovo...
Torno ancora su Marina Pizzi, che non e' certo una mia scoperta dato che ha un curriculum di tutto rispetto, ma a cui con molto piacere ho dedicato alcune righe su questo blog in due occasioni, quando ho pubblicato estratti dai suoi lavori "La giostra della lingua il suolo d'algebra" e "L'acciuga della sera i fuochi della tara". Proprio quest'ultima raccolta ha trovato ora la sua stesura definitiva e la pubblicazione presso Luca Pensa Editore. Sul libro e' intervenuto Marco Giovenale sul Manifesto del 1 dicembre con una breve recensione. Per quanto mi riguarda in questa occasione non posso che ribadire quanto ho scritto sul blog (v. qui e qui), aggiungendo semmai, sulla scorta di quanto ho gia' letto, alcune mie ulteriori impressioni. La poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore, la sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita') cosi' come lo vede l'autrice. Sul dramma del mondo si innesta e ne e' specchio la scrittura, la rappresentazione verbale di esso, il suo disfacimento e la sua ricostruzione in un diverso significato, una diversa realta'. Ne consegue un differente canone comunicativo e una diversa capacita' di comprendere, come in un linguaggio oracolare. Da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore, una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E' una specie di viaggio esoterico, di riconquista di codici. Ci si domanda, ad esempio, che cosa significhi "triciclo di cielo / da non pregare". E' il tre la chiave, e' per caso una surreale trinita' celeste quella che non dobbiamo piu' pregare? A cosa rimandano le assonanze, le consonanze, gli anagrammi, le paronomasie? Forse a un livello inconscio della lingua, a un sogno, a un gioco linguistico infantile? E l'ambiguita' semantica di parole reiterate (privata = propria; privata = mancante) o collegate da isotopie ("Le santita' delle nuvole cosi' di buona condotta", ove "condotta" puo' avere valore di movimento o di comportamento, se collegato o meno a "santita'")?. Sono solo esempi, naturalmente. Il fatto vero e' che la lettura (o la plurilettura, come dicevo) dei testi di Marina, dopo aver preso atto di una sorta di prevaricazione, che gia' segnalavo, nei confronti del lettore a cui e' lasciata "l'onesta' del libro esploso e speso e disseminato in allegorie, immagini inattese, eco fra verbi" (Giovenale), e' una eccellente esperienza, a volte conflittuale forse, ma densa, suscettibile di riscoperte continue, e come tale di straordinaria persistenza.
Nota: La recensione di M.Giovenale è reperibile qui
Lunedì, 22 maggio 2006Marina Pizzi 2
Devo ricredermi, almeno in parte, rispetto a quanto avevo scritto nel primo post di Marina Pizzi. Avevo parlato di chiusura, di compattezza, di estrema densità. Mi sembrava che ci fosse una lacerazione tra bisogno di espressione e timidezza o gelosia forse un po’ criptica nel farsi capire, anche se è vero che questo a volte appartiene alla natura stessa della poesia, in particolare quella di Marina. Avevo anche riconosciuto in verità che la complessità stilistica e semantica era in sé una rappresentazione della drammaticità del reale. Non so cosa, ma qualcosa deve essere successo, qualcosa è cambiato. Almeno, questa è l’impressione leggendo “La giostra della lingua il suolo d’algebra”, qui pubblicato in un estratto dal n. 71 al 93, secondo un sistema di numerazione a cui Marina è affezionata e che avevo, credo erroneamente, interpretato come un segnale di work in progress. O forse, più semplicemente, è cambiato il mio approccio nei confronti di questi versi, che mi sembra di vedere ora con occhio anche più affettuoso. Anche qui rimane evidente il tentativo di destrutturare e ricomporre in continuazione la realtà, attraverso un anarchismo linguistico che però riesce a creare dal magma forti pennellate, anche qui il non detto svolge una funzione rilevante, anche qui l’invenzione linguistica, il lessico a volte raro, l’accostamento audace. Tuttavia si ha come un’impressione di timida apertura, o un ricollocarsi in un solco ancora fortemente icastico ma di più confidente leggibilità del disagio, della realtà che addirittura si storicizza (79). Versi molto belli come “Ne morirò con il tragitto in gola: / chiamami nei nomi delle preghiere / nel flusso delle stoppie / le quadrerie dei cimiteri / nel peristilio di un bacio di sguincio.(..) (86) non dismettono la loro potenza di scavo e di scarto linguistico/semantico, ma non abdicano anzi mi sembra riacquistino una trasparenza comunicativa, che è una mano tesa nei confronti del lettore, come se Marina dicesse: “Io sento, io sono, capiscimi”. Lunedì, 27 febbraio 2006Marina PizziMarina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5 maggio 1955. Ha pubblicato i libri di poesia: Il giornale dell'esule (Crocetti 1986); Gli angioli patrioti (ivi 1988); Acquerugiole (ivi 1990);Darsene il respiro (Fondazione Corrente 1993); La devozione di stare (Anterem 1994); Le arsure (LietoColle 2004). Raccolte inedite in carta, complete ed incomplete, rintracciabili sul Web: La passione della fine; Intimità delle lontananze; Dissesti per il tramonto; Una camera di conforto; Sconforti di consorte; Brindisi e cipressi: Sorprese del pane nero; L’acciuga della sera i fuochi della tara; Il poemetto L'alba del penitenziario. Il penitenziario dell'alba; le plaquette L'impresario reo (Tam Tam 1985) e Un cartone per la notte (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); Le giostre del delta (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Ha vinto due premi di poesia. Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri, Pier Vincenzo Mengaldo, Luca Canali, Giuliano Gramigna. Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno. Marina Pizzi fa parte del comitato di redazione della rivista "Poesia". I testi qui presenti (dal n. 69 all’83) sono la continuazione inedita della estesa raccolta in progress “L’acciuga della sera i fuochi della tara” reperibile qui: http://www.erodiade.splinder.com/post/7156378#more-7156378
01/07/09 - A distanza di tempo, visto che Marina Pizzi è uno degli autori più presenti su questo blog, trascrivo in prima pagina il commento che avevo associato a questo post successivamente alla sua pubblicazione:
La poesia di Marina Pizzi costringe ad un’arte ormai in disuso, quella della rilettura, poiché la prima cosa da fare è non cedere alla tentazione di restituire una serie di sensazioni di tipo impressionistico, di fronte alla densità dei versi qui pubblicati, che ti travolge. C’è da dire che se c’è un’arte che per sua natura deve essere non solo letta ma anche e soprattutto riletta (e poi detta, recitata, cantata e magari urlata al vento, da soli o in compagnia), quell’arte è la poesia. Ma tutto questo necessita di penetrare nella materia di cui è fatto il testo che stiamo leggendo, nella densità di cui stavamo parlando, che, va detto, somiglia molto a quella che si crea nei buchi neri dello spazio, dove la gravitazione è così forte che neanche la luce riesce a sfuggire. Perché? Ad esempio quella di Marina è una poesia senza armamentari classici del poetare, senza metafore o con metafore irriconoscibili, dove la lingua è così serrata da apparire totalmente nuova, senza i legami grammaticali che permettono quei “vuoti” semantici che danno respiro al verso. Intendiamoci, qui si parla della metafora classica, quella aristotelica, in cui, “quando si confronta A con B, B è tanto diverso da A da sorprenderci...e nello stesso tempo B è comune, familiare almeno quanto A” (J.F.Nims). E’ ovvio che “mandorle nere del fiume cocente” è una metafora, cos’altro potrebbe essere dato che si parla di poesia la cui essenza stessa è il traslato. Ma qui non c’è niente da confrontare perché le cose si sustanziano di ben altre qualità alla sensibilità del poeta, sono letteralmente qualcos’altro. Non ci sono enjambements, spesso il verso è compiuto in sé, e in sé limita e chiude, nella sua cadenza serrata, il suo significato definitivo. Tutto questo (e altro) determina infine una sensazione di estrema compattezza materica e forse anche una prevaricazione nei confronti del lettore, a cui il poeta non lascia spazi di manovra (o di interpretazione, in senso attoriale del termine). E’ come uno spartito drasticamente impuntato, dove persino le pause, se esistono, non sono lasciate all’arbitrio di una scansione diversamente ritmata. Difficile sottrarsi all’impressione che Marina Pizzi tenti, con grande padronanza di mezzi, un vero disfacimento del corpo verbale per ricompattarsi (non solo la poesia, ma anche se stessa) in qualcosa di completamente diverso, che non è una diversa realtà, ma la realtà disvelata, in tutta la sua drammaticità. Da un altro punto di vista una autentica contemplazione della morte, una specie di cornicione (questo sì metaforico), su cui scrittore e lettore sono seduti perigliosamente insieme. E tuttavia la realtà rimane qualcosa di ineffabile, come il nome di Dio…non ci resta che leggere una vera poesia da meditare.
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