Come si fa ad esprimere un dolore di vivere che si sente immenso e ingiusto? Come si fa a dire l'indicibile, - eterno dilemma del poeta - ?
Si scava il mezzo artistico di cui si dispone, in questo caso la lingua, lo si sfibra, lo si porta ai suoi stessi confini, lo si spoglia ed espropria del suo senso volgare, lo si accusa di essere inetto e incapace a dire, per poi rivestirlo con un significato nuovo e a tratti alieno come se fosse stato tradotto in una lingua ai più sconosciuta. Per dire vedete, la realtà delle cose è così..così....che non ci sono parole comuni per descriverla.
In questo agire artistico di Marina Pizzi non c'è niente di "ricercato" (sebbene col tempo anche lei abbia acquisito una sua speciale "maniera"). Nel senso che non c'è "experimentum", avanguardia o comunque la si voglia chiamare. Se piace a chi piace la poesia "di ricerca" (qualsiasi cosa ciò voglia dire) è per un fatto puramente circostanziale, di superficiale affiliazione. Il fare poetico di Marina ha radici molto più profonde della mera ricerca intellettuale, è mosso piuttosto da una condizione esistenziale - se non vogliamo dire psicologica - che trova nel linguaggio un limite, una insufficienza e, per quanto possibile, una salvezza, qualcosa che non è solo strumento espressivo, ma anche parte integrante del sé, identità, estensione del corpo e dell'anima sofferenti. In ragione di questo è chiaro come sia preminente, per dirla con Jakobson, la funzione emotiva, anche rispetto a quella poetica (da non confordersi, come sappiamo, con la poeticità di questi versi, indiscutibile). E' in questa funzione che Marina rinviene (e, certo, anche seleziona, lima, ecc.) le "sue" parole, i suoi personali nessi metaforici, scardina il rapporto naturale tra parole e cose, mette in crisi la relazione dei segni, recupera quella dei suoni. Impone il suo codice. E' per queste ragioni che, in altra sede, parlavo di una certa "prevaricazione nei confronti del lettore, a cui il poeta non lascia spazi di manovra (o di interpretazione, in senso attoriale del termine)". Il lettore deve, in altre parole, farsi parte diligente, imparare la lingua, come se sbarcasse sui moli di Ellis Island. Ma del resto è quello che faceva, se posso azzardare, anche Amelia Rosselli.
Tuttavia qui, forse più che altrove, il disegno di fondo, la filigrana, sono chiari. L'assenza, o anche la manchevolezza, di qualcuno, qualcuno che era "Michelangelo del corpo", che si innamorava di fragili peculiarità "ai bordi del mondo intero", "predone" e evanescente come un Puck shakespeariano per colei che si sente "mela da morso senza alcun fato", colei che "in nome di dio" lo chiama, per quanto "con la bestemmia in regola". Ma, di certo, questo non è un canzoniere d'amore, per quanto esso possa essere dolorosamente complicato, perchè l'amore, o la relazione interpersonale o con il mondo, le sue dinamiche invariabilmente diventano parametri della realtà circostante, elementi di misura della efficacia del linguaggio, della sua capacità di significare, di rendere, come dicevo all'inizio, appena più dicibile l'indicibile. Forse questo è il tratto originale del lavoro di Marina Pizzi.
Mi sembra in ogni modo importante rimandare, per un'idea più complessiva sul lavoro di Marina Pizzi, a quanto ho già scritto su di lei, nell'ordine qui, qui e qui
Marina Pizzi, L'inchino del predone, Ed. Blu di Prussia, 2009
4.
quale dolore regio ti piega la nuca
verso le ginocchia tremule?
emulo di emuli i muri protettissimi
calcano le impronte di passi
i passi che non vengono alla via
i passi che godono vicoli ciechi.
piove la venia dentro il faldone
incomprensibile di donne senza
le doglie bambinesche e belle.
le convenute aureole del bosco
scontentano le nuche degli atleti
abituati a tentare in solitario.
tu non vieni al perno del tuo bello
stai zitto nei morti novellini
così bambini da parere vivi.
in pena le lucertole del bivio
sanno penombre brevi brevi
di salvezza.
8.
non voglio altro pensiero che di te
offenda il senza, la malinconia costrutta
dal colera della legge.
genia del boia sopravvivere al patibolo, stare infetti
senza la pietà più bella. la sindone
della finestra stramazza e stazza
resistenza. in palio le eclissi senza
senso né sostegno di remoto.
tu dove sei Michelangelo del corpo?
dove finirono l'ala della rondine con la combriccola
solare? dove la venia per il restauro al sorriso?
26.
è scesa l'ecatombe a mo' di collezione
e nessuno piange. è stare fermi davanti
al computer pensando o non pensando
cosa fare. di te ricordo un soffio di festa
e la strana viandanza di trovare
le strade tutte alla faccia dell'ecumene
che spiega e non sa dare la rotta
0 almeno dotta la finanza dell'attesa.
corre il motore nei rottami avvinto
tutte setacciate le aiuole e le feste
del sottobanco contro la lezione
così lesiva ed ebete. t'innamoravi
di more e crisantemi ai bordi
della tema del mondo intero. ma poi
finì l'aureola del dado sotto un lucernaio
di ragni appisolati e perfidi.
38.
è che mi fletto viso di maree
girandola malata dolo di resina
il tetto ossuto della casupola
che non ha pietà. tu che mi chiami
con viso di sorriso detieni un apice
di primavere con vere lontananze
senza dolore. dai la pace dell'arco
senza frecce per cervelli in pace
con se stessi. in moto con la ronda
di sprecarsi, perdere è un caso senza
venia, la flessuosa arancia pari all'orizzonte.
68.
affranta in un giogo di catene
frana la sera. in mano all'orco
del comignolo freme la gola.
nella contumacia della fronte
nessun sole ma la diga gigante
che non ammette gomitoli
da sciogliere. la parete è liscia
irraggiunta da tane e frodi.
in un capanno a valle
vale la legge del panico
la nomea della frotta degli spini.
in nome di dio ti chiamo
con la bestemmia in regola.
73.
non oso il pallore delle steppe
né l'anfiteatro del Colosseo
ma una stanzina dopo un cortile
ammalati dal timbro della povertà.
con l'aria arcigna della portineria
il cimelio del bavero è trofeo
di far ritorno, nome al costato
della buca delle lettere.
in un tristo attaccapanni di guardiola
dio è morto senza la croce
col semplice misfatto d'inedia
senza aquiloni. le stirpi dei loggioni
civettano ancora chissà quale
innamoramento di fatto in atto.
108.
ieri ho ripreso a lavorare.
da tempo sfumavo
in una rotta di cenere.
con il foglio di presenza ho detto addio
al discolo proverbio del pane rotto
senza fatica con il fraseggio
d'archi alla cometa vanitosa
dove più piccolo è l'inguine
del tempo. appena sotto frana
la vertigine del faro di vederti
amore mio a corto di possesso.
oggi ho ripreso a mugugnare
la serva che mi appanna. non
ho provviste per sterminare il vuoto
o il torto di starmene presaga
mela da morso senza alcun fato.