Lunedì, 22 novembre 2010
Le tre o quattro note che nel tempo ho dedicato al lavoro di Marina
Pizzi, sono state raccolte e ripubblicate su Poesia 2.0 qui e qui,
nell'ambito di una più ampia rassegna dell'autrice. Forse alcune delle
cose dette allora andrebbero meglio precisate o addirittura espunte,
in quanto in qualche modo pleonastiche. Nella sostanza, almeno per
quanto riguarda quei testi, rimango della stessa opinione, con
la consapevolezza tuttavia che ce ne sarebbero di cose da aggiungere su
una poetessa che è sempre stata in progress e molto ha puntato sulle potenzialità plastiche della lingua, sulla sua capacità di dire come parole (in senso saussuriano), al di là del senso comune di una langue per quanto così particolare e tipica come quella poetica. In altre parole sulla elasticità creativa
e di invenzione del linguaggio, in modalità che spesso molto
accentuano, allargano, affiancano il senso già noto. E molto ha
puntato anche, a volte con qualche sonora delusione o sconfitta, sulla
poesia come cuneo per spezzare il ceppo coriaceo del dolore. Facendone
partecipe il lettore, anzi costringendolo a diventarne spettatore,
spettatore attivo in quanto necessitato ad impadronirsi per quanto
possibile di un sistema simbolico e metaforico articolato e complesso,
non certo immediato ma che alla distanza restituisce una gamma
espressiva di alto livello artistico.
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