Marina Pizzi è nata a Roma, dove vive, il 5 maggio 1955. Ha pubblicato i libri di poesia: Il giornale dell'esule (Crocetti 1986); Gli angioli patrioti (ivi 1988); Acquerugiole (ivi 1990);Darsene il respiro (Fondazione Corrente 1993); La devozione di stare (Anterem 1994); Le arsure (LietoColle 2004). Raccolte inedite in carta, complete ed incomplete, rintracciabili sul Web: La passione della fine; Intimità delle lontananze; Dissesti per il tramonto; Una camera di conforto; Sconforti di consorte; Brindisi e cipressi: Sorprese del pane nero; L’acciuga della sera i fuochi della tara; Il poemetto L'alba del penitenziario. Il penitenziario dell'alba; le plaquette L'impresario reo (Tam Tam 1985) e Un cartone per la notte (edizione fuori commercio a cura di Fabrizio Mugnaini, 1998); Le giostre del delta (foglio fuori commercio a cura di Elio Grasso nella collezione “Sagittario” 2004). Suoi versi sono presenti in riviste, antologie e in alcuni siti web di poesia e letteratura. Ha vinto due premi di poesia. Si sono interessati al suo lavoro, tra gli altri, Pier Vincenzo Mengaldo, Luca Canali, Giuliano Gramigna. Nel 2004 e nel 2005 la rivista di poesia on line “Vico Acitillo 124 – Poetry Wave” l’ha nominata poeta dell’anno. Marina Pizzi fa parte del comitato di redazione della rivista "Poesia".
I testi qui presenti (dal n. 69 all’83) sono la continuazione inedita della estesa raccolta in progress “L’acciuga della sera i fuochi della tara” reperibile qui: http://www.erodiade.splinder.com/post/7156378#more-7156378
01/07/09 - A distanza di tempo, visto che Marina Pizzi è uno degli autori più presenti su questo blog, trascrivo in prima pagina il commento che avevo associato a questo post successivamente alla sua pubblicazione:
La poesia di Marina Pizzi costringe ad un’arte ormai in disuso, quella della rilettura, poiché la prima cosa da fare è non cedere alla tentazione di restituire una serie di sensazioni di tipo impressionistico, di fronte alla densità dei versi qui pubblicati, che ti travolge. C’è da dire che se c’è un’arte che per sua natura deve essere non solo letta ma anche e soprattutto riletta (e poi detta, recitata, cantata e magari urlata al vento, da soli o in compagnia), quell’arte è la poesia. Ma tutto questo necessita di penetrare nella materia di cui è fatto il testo che stiamo leggendo, nella densità di cui stavamo parlando, che, va detto, somiglia molto a quella che si crea nei buchi neri dello spazio, dove la gravitazione è così forte che neanche la luce riesce a sfuggire. Perché? Ad esempio quella di Marina è una poesia senza armamentari classici del poetare, senza metafore o con metafore irriconoscibili, dove la lingua è così serrata da apparire totalmente nuova, senza i legami grammaticali che permettono quei “vuoti” semantici che danno respiro al verso. Intendiamoci, qui si parla della metafora classica, quella aristotelica, in cui, “quando si confronta A con B, B è tanto diverso da A da sorprenderci...e nello stesso tempo B è comune, familiare almeno quanto A” (J.F.Nims). E’ ovvio che “mandorle nere del fiume cocente” è una metafora, cos’altro potrebbe essere dato che si parla di poesia la cui essenza stessa è il traslato. Ma qui non c’è niente da confrontare perché le cose si sustanziano di ben altre qualità alla sensibilità del poeta, sono letteralmente qualcos’altro. Non ci sono enjambements, spesso il verso è compiuto in sé, e in sé limita e chiude, nella sua cadenza serrata, il suo significato definitivo. Tutto questo (e altro) determina infine una sensazione di estrema compattezza materica e forse anche una prevaricazione nei confronti del lettore, a cui il poeta non lascia spazi di manovra (o di interpretazione, in senso attoriale del termine). E’ come uno spartito drasticamente impuntato, dove persino le pause, se esistono, non sono lasciate all’arbitrio di una scansione diversamente ritmata. Difficile sottrarsi all’impressione che Marina Pizzi tenti, con grande padronanza di mezzi, un vero disfacimento del corpo verbale per ricompattarsi (non solo la poesia, ma anche se stessa) in qualcosa di completamente diverso, che non è una diversa realtà, ma la realtà disvelata, in tutta la sua drammaticità. Da un altro punto di vista una autentica contemplazione della morte, una specie di cornicione (questo sì metaforico), su cui scrittore e lettore sono seduti perigliosamente insieme. E tuttavia la realtà rimane qualcosa di ineffabile, come il nome di Dio…non ci resta che leggere una vera poesia da meditare.
Tracciato: Nov 19, 21:30
Tracciato: Nov 19, 21:31