Giovedì, 20 settembre 2018
Danilo Mandolini - Anamorfiche - Arcipelago Itaca, 2018
Di Danilo Mandolini avevo già detto qualcosa circa tre anni fa, per una
raccolta antologica della sua produzione tra il 2010 e il 1985, che si
intitolava per l'appunto A ritroso (v.
QUI
). In questa nuova raccolta si ritrovano i tratti essenziali della sua
scrittura che avevo allora rilevato, a cominciare dagli elementi per così
dire strutturali del suo lavoro, che peraltro si riflettono sul modus,
sulla lingua, sull'espressione e in ultima analisi sulla costruzione del
suo mondo poetico: una certa dose di astrattezza riflessiva, che però non
preclude il senso né diventa linguaggio autoriferito, ma spinge semmai
verso più profonde considerazioni; un arretramento o decentramento del
soggetto (cosa diversa dall'io poetante) che corrisponde ad un allontanarsi
dal mondo per osservarlo nel suo manifestarsi, anche metaforico, da una
giusta distanza, come da un eremitaggio; un conseguente riferirsi alla
realtà come poco oggettuale, poco popolata di "cose" e più di parole che
tentano di descriverla, e men che mai di presenze umane, una realtà per
così dire metafisica (e citavo a mo' di esempio De Chirico - ma rimando
comunque a quella nota).
Certo, in questo nuovo libro mi pare ci si ritrovino quegli elementi. Ma ci
si rinviene anche un diverso approccio alle cose da dire, qualcosa di più
concettuale, in un certo senso di più sperimentale (prendendo il termine
con cautela). Questo dipende forse dal fatto che in A ritroso
c'era anche ancora presente il bagaglio delle poesie più giovani, ora non
disconosciuto ma diciamo acquisito agli atti, introiettato.
Anamorfiche, dice il titolo. Ovvero il restringimento dello sguardo, del
punto di prospettiva, del luogo e del modo, quelli e non altri, in cui
porsi per avere una visione "giusta" delle cose. Anamorfismo è questo, il
punto di disvelamento di qualcosa di recondito ma significativo, una
epifania, una metafora assoluta, che può anche rovesciare l'illusione,
l'idillio. Suggerisco, per capirci meglio, di dare un'occhiata all'esempio
più noto: "Gli ambasciatori" di Hans Holbein il Giovane (v.
QUI
).
Questo restringimento dello sguardo, questo punto eletto di osservazione
pongono già qualche questione (o sfida, per il lettore). Una riguarda mi
pare la concentrazione dell'attenzione poetica - così come avviene nelle
belle immagini scattate dall'autore che corredano il libro - sul dettaglio,
sulla parcella di realtà, intesi però come significanti o almeno come
indizi o sintomi di altro, di una porzione più ampia della realtà stessa,
sia essa interna e quindi intima del poeta, sia essa una parte di ciò che
il poeta percepisce del mondo all'intorno (e di cui inevitabilmente fa
parte).
L'altra concerne il fatto che questo restringimento dello sguardo o della
prospettiva (che paradossalmente moltiplica il particolare, offrendo al
poeta un repertorio sterminato di frammenti) accentua il focus personale
dell'autore sulle cose, che si riversa sulla scrittura e la forma, e la
sfida per il lettore, peraltro affascinante, è di ricostruire o reinventare
quella immagine o una radiazione il cui spettro può non essere percepibile
a tutti. Quella immagine cioè che è innesco di quella medesima scrittura.
E' evidentemente da parte del poeta un approccio per così dire sineddotico
(la parte per il tutto), di cui come lettori occorre prendere atto,
facendoci condurre. Ma è - in ultima analisi e in relazione a quello - una
interessante visione metonimica della realtà, almeno di quella che
interessa Mandolini. Ovvero una scelta coraggiosa e rischiosa, perché
l'autore (Danilo o chiunque altro) scrivendo deve costantemente chiedersi
se l'immagine che va formando lascia un sufficiente margine di suggestione
- interpretativa o emotiva - a chi legge. E chiedersi - contemporaneamente
- se la contemplazione del particolare non nasconda un sotterranea fuga dal
tutto, dalla complessità ingovernabile della vita (che è invariabilmente il
tema centrale di questa poesia). Una scelta, torno a dire, in qualche
misura eremitica, una posizione da dove "è cogliendo e osservando / questa
minima dinamica / che si può vedere il tempo / nel lampo breve...",
qualcosa di infinitesimo e ineffabile che sta "tra ciò che ascolterò / e
ciò che scorgerò sopravvivendo / nelle pieghe immateriali, / nelle
increspature che non vedo - / ora, qui - / degli attimi a venire". E'
questo l'anamorfismo. Come in Holbein, è solo accogliendo l'invito
dell'artista a porci in quel luogo/tempo poetico (e accettandone anche
l'indeterminatezza) che è possibile forse intuire l'ammonimento, il senso
di ciò che in primo acchito è indistinto come una macchia. Il tentativo -
morfico, prospettico - è quello di uscire, almeno per il momento in cui si
realizza, dalla visione canonica. Un buon esempio è la sezione Crocivia (quindici blasfemie in loop), una delle migliori, dove
alla messa in scena di "un ipotetico dialogo degli uomini con il divino"
concorrono linguaggio e sguardo, in una interrogazione eterodossa e
impellente (e quindi, se volete, anamorfica, o - forse - "blasfema"), molto
umana ("[mio dio noi / ci pentiamo e ci dogliamo con tutto il cuore / dei
nostri peccati perché...Perché abbiamo peccato ma / tu...Tu dichiarati,
manifestati, pronunciati, / rivelati, almeno, come si rivelerebbe una bava
di vento...").
Un tentativo, quello operato da Danilo in questo libro, a cui la scrittura
concorre come può, con i suoi limiti oggettivi, facendo leva soprattutto
sulla capacità della lingua di astrazione, di simbolizzazione, di
"smaterializzazione" del concreto e viceversa di concretizzazione di quelle
"pieghe immateriali" in parole. Un approccio creativo che ha una sua
indubbia forza, perché non ha niente di crepuscolare o remissivo, è
piuttosto dettato - mi pare - dalla personale convinzione di Danilo che il
poetico, come un pneuma, risieda in insospettate insenature, il cui
rinvenimento è sostanzialmente un "dono"; e che quello che si riesce ad
afferrare della realtà è quel che si è, o almeno è quello che si è
come uomini/artisti. Il risultato è insieme rarefatto e affilato, con
l'eccezione forse di una sezione che sento in qualche misura "diversa"
dalla natura generale della raccolta. Alludo a Offertorio speciale (nove bizzarrie impoetiche) nella quale
Mandolini più che lo sguardo appunta il dito contro certi fenomeni
consumistici, fa una critica socio/politica del contemporaneo e di certe
sue bizzarrie, temi difficili da trasferire (come spesso in una poesia
"civile") dalla loro (dichiarata) impoeticità ai piani più alti che la
scrittura di Danilo frequenta. Un aspetto tuttavia marginale rispetto al
livello qualitativo ed estetico complessivo di questa raccolta. (g. cerrai)
da Psichedelie dei rumori, delle voci, dei suoni - uno
backstage #1
Alla fine, giocando spesso con noi, anche lui cominciò a credere che tutti i pomeriggi avevano una corteccia (scura, sempre la stessa) che di sé viveva, che al sole cambiava colore e che pronta si attivava (un lieve ronzio la frenesia) per intercettare e inseguire le ombre tutt' intorno che impreviste arrivavano e ritornavano.
È così! È cogliendo e osservando questa minima dinamica che si può vedere il tempo nel lampo breve in cui atteso giunge e oltre, poi, di nuovo, svanisce.
(del resto, è proprio avvistando ombre sconosciute che ripassano davanti alla stessa stella che gli astronomi moderni individuano altri discosti mondi e universi)
***
So che ciò che adesso ascolterò avrà il suono freddo del parlare solerte.
«Chiamami, quando sentirai questo messaggio».
Insieme alla frase un possibile, flebile sottofondo: ( . . . ) auto che vanno con un fruscio netto, più corto di quelle che vengono.
***
Una voce metallica di donna precisa dice: «Fra cinquecento metri svoltare a sinistra».
Improvvisa la città si schiude allo sguardo, si fa osservare nel buio e con timore mostra (sfavillanti, scoscese) le sue insegne.
Sono ferme quelle luci ma il mio avanzare le sposta, le avvicina, le disloca, a tratti le nasconde mentre la voce metallica di donna, ora, precisa dice: ( . . . ) «Ma tutto ciò che si vede è forse vero?»
da Psichedelie dei silenzi
Il cielo è reciso e basso davanti allo sguardo.
Due palazzi vicini quasi si toccano coi tetti; d'improvviso aprono un varco senza voce.
Un gruppo di bambini passa.
Mi sfiorano correndo. Con i volti sospesi ridono senza ridere.
Conducono la brezza.
***
L'orizzonte porta un vento largo che fa il mare alto e la risacca lunga, bianca e luce che trafigge (anch'essa bianca) ha con sé quel vento... Luce che si fa strato, specchio; che altro barlume diventa, che nelle tasche - mulinellando un po', mischiandosi con dell'aria esigua - inquieta si palesa come viva nell'istante incerto che senza annullarsi resta e senza un sibilo, poi, scappa.
da Crocivia - (quindici blasfemie in loop)
8. [se non puoi rispondere, se non sai rispondere lasciaci, lasciaci immersi, lasciaci persi in quest'eco rovesciata che solo dentro si propaga, che è fatta di poche parole a te mai rivolte e rimaste lì, nella mente; parole poche che tra loro disegnano una varietà di confini alti e bassi, variabili (finitudini come di pareti), trasparenti appena e pure opachi per poterci guardare, però, anche attraverso... E confusi paiono, quindi, questi confini (disciolti, irrisolti), sparsi fino alla vigilia ammutolita d'una fine incombente, d'una qualsiasi fine che nel fato si perpetua - qui, proprio qui - sotto lo sguardo incantato dei bambini e nel vociare ineluttabile di tutti i presenti]
9. [tu lo sai, lo sai e non lo ammetti; sai bene che vivere è una bizzarra utopia, che vivere altro non è che tollerare l'annientamento graduale e inesorabile d'un sogno che si sogna, daccapo, precipitando, tutte le notti-, Spesso, poi - ed è questa la sciagura -, alla fine di ogni notte non riusciamo nemmeno a ricordarlo quell'inusitato finale del nostro (di ognuno) sogno esclusivo.
(sognare... Sognare è persino vedere, forse, ad occhi chiusi?)]
da Dell'esistere della luce (o della luce dell'esistere)
La linea dell'orizzonte è il mare.
Ripido e agitato, qui; piatto e immobile, laggiù.
Poco più sotto si staglia, anch'essa ferma, la linea vicina e bassa tracciata da un muretto.
«Girati!» fa una voce di donna alle mie spalle.
«Guarda oltre quel tetto chiaro».
Mi volto. Già lei mi si offre di schiena, il braccio destro teso, l'indice alzato.
«Lo vedi? Lo vedi l'ulivo solitario in cima a quel dosso? Un po' più a sinistra, segui la mano; ecco... Lo sai che è proprio lì, in quel punto preciso, che stasera il sole, lento, cadrà?»
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