Venerdì, 19 ottobre 2018
Federico Federici - MROGN - Editrice Zona, 2017
Non incrociavo Federico Federici da anni, almeno da quando
circa dieci anni fa avevo pubblicato qualche testo della sua bella
traduzione dal russo di Nika Turbina (Sono pesi queste mie poesie,
v.
QUI
) e soprattutto avevo brevemente annotato la sua raccolta L'opera racchiusa (v.
QUI
), con cui aveva vinto il Montano 2009 (e qualcuno lo ricorderà anche come
autore con l'eteronimo di Antonio Diavoli). Ora, cioè qualche tempo fa, mi
manda il suo Mrogn, uscito per Zona alla fine del
2017, premio Pagliarani 2016 per la raccolta inedita.
Mrogn è un luogo preciso, da qualche parte dell'Appennino Ligure, designato
da un toponimo dialettale di cui sfugge il senso. Mrogn è un luogo
immaginato, ambientazione e set di accadimenti misteriosi e insieme
ineludibili. Mrogn è la coincidenza, anzi la tangenza di presenza umana e
natura, entrambi su un confine invisibile tra dimensioni diverse e tuttavia
intrecciate. Mrogn è una metafora, e quindi un coagulo di senso, non
necessariamente esplicito ma, forse proprio per quello, necessariamente
esplorabile. Mrogn è, probabilmente, un viaggio per il quale la lingua è il
principale passaporto, anzi un viatico, in un'oscurità la cui dissipazione
è una sfida, forse perdente. Infine, e proprio per tutto ciò, Mrogn è un
poema, con quel che ciò significa in termini di spazio e tempo, di respiro
e unità di intenti, di indagine ed epos dell' "evento".
Qualcosa accade o è accaduto, lassù. Sì, forse indagine è la parola giusta,
basta non perdere mai di vista il fatto che non è la soluzione che conta, e
nemmeno la concretezza di qualsiasi fatto. Anzi, è chiaro fin
dall'inizio che è l'incerto, l'indefinito, il probabile non provabile, questi ed altri gli elementi da cui principalmente
è composta questa scrittura. L'accaduto, qualsiasi cosa esso sia, ha un
valore traslato poiché non è che un frammento su cui si esercita un
tentativo di penetrazione della realtà, intesa - in ultima analisi
- in senso astratto. Va notato subito però che, trattandosi di un poema,
qui non c'è, non può esserci niente di frammentario o rapsodico, insomma ho
fatto riferimento a spazio e tempo per qualche ragione. Se i testi sono
brevi o brevissimi è perché hanno, devono avere, l'essenzialità dell' indizio, fissando in esso una porzione di accaduto, e a ciascuno
ne segue un altro, una serie, una sequenza che compone il macrotesto, se
posso usare questo termine improprio. Si arriva alla fine del libro, lo
dico subito, senza soluzioni del "dramma", perché - va detto anche questo -
il dramma, inteso in senso teatrale, è in realtà un presentimento,
forse una leggenda, o una paura, privata o collettiva.
C'è in effetti una dimensione che potremmo definire teatrale, una possibile
interpretazione a più voci, voci indefinite, anch'esse forse metafora di un
indistinto popolo che vive, forse scrive, forse legge, la vicenda poetica.
Sono essenziali qui, in cima ad ogni testo, degli exerga didascalici, delle
indicazioni quasi di scena, di teatro o cinema, che avviano (ma non
conducono, quello è affar suo) il lettore. Facciamo qualche esempio:
(sottovoce – corsivo a verbale); (altri rilievi, anatomie di scena);
(esterno: notte); (primo testimone: un sacrestano)
, e così via. E' chiaro che tutto concorre ad un tono di indefinito
mistero. I "reperti" disseminati come testi apparentemente in sé conclusi
non portano nemmeno a definire che esista un "fatto". Ed è questo, io
credo, uno dei temi del lavoro, se non il principale: una verità
irrealizzabile come vera, perché relativa, intersezione e contaminazione di
parole e punti di osservazione, in un certo senso "privata" di ciascun
osservatore. Esattamente, se vogliamo, come la verità dell'artista, nel
momento stesso in cui si manifesta. Il vero si possiede forse con il suo
"nome" ("l'ha raggiunto il nome, / preso"; "non avrà altro nome / al di
fuori di sé"; "lo scomparso ha nome?"; "Non si può affermare / che sapremo
il nome / dentro cui è morto"; "Lasciateci da soli / a cercare il nome";
"si ripete in bocca della preda / il nome, quasi s'avverasse / in quello";
"lascia perdere / il bersaglio / - è il nome"; "Si sentiva minacciato / nel
suo nome" ecc.). In definitiva, con la parola che identifica e tenta di
organizzare il reale.
Lassù su quel colle, si diceva, qualcosa c'è o c'è stato, esiste o è
esistito. Una scomparsa, o una morte. Come anticipa il risvolto di
copertina: "Chi è morto? Un animale, si direbbe. Chi è scomparso? Un uomo,
si direbbe - se non che anche l'uomo è un animale". Va bene, ma questo è
avvenuto prima, per paradosso possiamo dire prima ancora che il
libro venisse scritto. Il libro viene in un certo qual modo dopo, in
risposta a quelle domande e ad altre che inevitabilmente seguono. Come
quella di cosa sia realmente l'oggetto della caccia/indagine, una caccia metafisica, come sottolinea la motivazione del Premio
Pagliarani, ricordando giustamente la caccia allegorica del caproniano
Conte di Kevenhüller (là alla Bestia, qui all' "altra cosa"). Il luogo è
essenziale, non tanto nella sua dimensione fisica quanto soprattutto nella
sua essenza simbolica. Simbolica è la sua oscurità, simbolico è il suo
intrico. Il luogo è il bosco (e bosco è una di quelle parole - nome, animale, ecc - che ricorrono nel libro, come
segnavia), un luogo senza confini istituiti ("Non esiste il punto / dove il
fiume penetra / nel bosco, né / le vene il corpo" e "sulla carta non esiste
bosco"), nel quale addentrarsi è cedere una parte di sè o paradossalmente
acquistarne, segno che la ricerca (di verità, di risposte) è un valore nel
suo svolgersi, è formazione. E', in altre parole, trasformazione,
forse metamorfosi ("Non si penetra nell'ombra. / Entra in noi l'ombra del
bosco"). Le cose, nella caccia, evolvono. E non è un caso che dei testi
abbiano un carattere sapienziale, che ricorda certe "sentenze" dell' I Qing, il Libro dei Mutamenti: "Lo scomparso ha nome? / L'animale
un'orma, un verso? / Chi cercò nel bosco un varco / è perso". Ma evolvono
come enumerazioni di oggetti o come evidenze di una incapacità di dissipare
per sempre l'oscurità del bosco e l'opacità della verità che si suppone
esso contenga. E forse come metafora della lotta - spesso perdente ma
sempre necessaria - della parola per essere "definitiva" sulle cose e sulla
realtà, specie su una realtà in schegge, sulle tracce di essa ("Che parola
mise sulle tracce, / o che parole erano le tracce? / Chi parlò, / senza
coprirsi di silenzio?"). E' un nobile tentativo, come sempre è la
scrittura, di gettare l'ombra al di fuori di noi.
L'indagine alla fine non ha esito, ma lo sappiamo già, perché un "rapporto"
proprio all'inizio del libro ci informa:
Non è stato possibile giungere oltre l'evidenza dei fatti. I reperti
(pezzi di roccia, cortecce incise, piume, peluria e schegge d'osso), i
rilievi (foto, tracciati, filmati), il sonoro (spifferi d'aria, fischi
di serpi, legna spaccata e parlate in dialetto) sono oggi archiviati al
museo contadino di *. Qualcuno ogni tanto li studia.
La gente del luogo, arrivando l'inverno, ha paura.
L'uomo è sepolto nel bosco. Il bosco nell'uomo.
Mrogn, 7 ottobre 2012
Ma non è nemmeno una sconfitta, è la stessa ricerca il segno e il significato del lavoro, come dicevamo all'inizio, la
compenetrazione di indagine e oggetto indagato, come abbiamo appena letto.
Un libro di fascino, indubbiamente, stilisticamente imperioso e tuttavia
aperto all'immaginazione anche visiva del lettore, nelle ampie radure (del
bosco, del testo) lasciate a chi legge, negli spazi bianchi, come innevati, tra i versi. E il cui principale interesse sta in una ricerca non solo
sulla lingua, peraltro mantenuta a un livello strutturale semplice e
ordinato, anche in funzione della natura volutamente frammentata del testo,
ma comunque sempre serrata ("Taglio per taglio, rima per rima, la caccia
alla lingua è proiettata in cabina di montaggio", ci rammenta Fabio Zinelli
nella motivazione al premio); ma ricerca anche sui temi, sulle cose da
dire, sui livelli espressivi, sulla "storia", su tutto ciò che poi
sostanzia e incarna quella lingua, non lasciandola mai mero strumento privo
di suggestioni. Un linguaggio franto e sincopato, e volutamente antilirico,
non emotivo, che consegue l'ossimoro di una trasparenza
dell'incerta e brumosa oscurità del mistero.
Infine, al di là di ciò che può scrivere il recensore, una cosa che ama
pensare il lettore: che a volere un po' tirare le cose per il bavero, mi
piacerebbe leggere qui anche forse una metafora politica, di quel timore,
di quella paura di un nemico misterioso, di quella incertezza che pervade i
nostri tempi. Insomma mi piace pensare che la poesia, ancora e ancora,
assorba e restituisca il suo tempo. (g. cerrai)
(esterno: notte)
Tramontana fischia sopra i solchi muti, tramutati in scoli dopo i temporali, rastrellati male riesumando tuberi induriti tra le pietre, sulla neve smossa sparge sale, tira per staccare a forza i rami, i nomi, dare fiato ai morti tutti uguali, ai faggi, conficcarne il peso in terra, neri già del nero dentro il bosco, neri più del vero.
(altri rilievi, non prove)
Che parola mise sulle tracce, o che parole erano le tracce? Chi parlò, senza coprirsi di silenzio? Le radici, i fili, i rami, dure dita di insepolti, non trattengono le frane. Non ha ossa il bosco. Non c'è luogo nel paesaggio, strada o varco: solo buchi nella polvere dei gechi, solo fischi dietro ortiche e sterpi: aria o serpi? Ogni tanto a una spari, per vedere se sia viva o ha forma, se esca fuoco o sangue. Mentre salta ancora da quel colpo colta in testa, pensi: siamo tutti serpi?
(quarto testimone: un cacciatore in posta)
«Neanche il soffio, neanche il fiato della corsa, il salto corto a ripararsi fra ginepro e felce. Tante volte uccisa quante vista ritornare nel dolore della vita. Mai fu vera o finta. Mai saputa dire. Fu pensata.»
(sopralluogo dopo un giorno: sospetti)
L'erba secca taglia muso e lingua al cane, terra di memoria dentro la boscaglia. Fiuta tiepida la pietra, la peluria, l'unghia della preda persa intorno all'acqua. Nella morte? Nell'erbosa balza? Era fuoriuscita al bosco? Come? Mai nessuno qui l'aveva vista.
(fuga – in prima persona singolare)
L'ho seguito senza mai vederlo – lui? mi ha visto? lei? Mi scopriva prima. Fiuta con le orecchie il passo, sta dall'altra parte del sipario. Dentro quel fondale entra, esce dietro come da un dipinto.
L'animale ucciso resta sempre solo figurato.
(voce – prima di una battuta)
Non aveva mai udito il fischio l'animale, dentro la sua morte ucciso, ma sapeva d'esser vivo agli occhi che volevano vederlo. Ci braccava lui da dietro, raggirava buche, poste, stava prima dello sparo, del suo nome prima non potevi dirlo.
(lo scomparso – prima persona in terza)
Lo scomparso, col mio nome in bocca, s'apre un varco tra le forme del bosco. Strappa in gridi d'animali la parola per non darmi pace, la ripete dura e nera intorno ai frulli d'ali, filtra ai denti le vocali, per non spaventarli. Sa che non c'è mira, dietro l'ombra non c'è corpo. Fischia. Cerca di fortuna il colpo.
(inveramento – epilogo)
L'animale che ti vide ucciso a un passo, dove non esiste, nei tuoi occhi vive preso dallo sguardo.
L'hai seguito che non c'era. Ti ha raggiunto solo, uscito allo scoperto. Non lo scatto del fucile. Non ha perso sangue.
Si è avverato.
(ultimo testimone – finale inconcludente)
L'ultimo, al ritorno, esasperato: «abituatevi a pensare una cosa sola, umida, notturna massa di radici, irta di stillanti guglie in aria e fili esili di brina e muschi e gusci frantumati, una capovolta cosa abita assodata nel fogliame questa terra rotta.»
La sua morte sempre provvisoria.
Il Blog di Federico Federici: https://leserpent.wordpress.com/
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