Venerdì, 8 luglio 2016
Il teatro Lux in un giovedì sera di fine giugno è una fornace dalle pareti interamente dipinte di nero (e col nero, si sa, ci sta tutto). Stasera lettura di poesia, segue dibattito. Starring Franco Buffoni e Maria Borio, come dire il mentore e la "pupilla" (lei appare nel dodicesimo [2015] dei Quaderni Italiani di Poesia Contemporanea che Buffoni cura per Marcos y Marcos). Pubblico ad occhio e croce vario e competente (ed è per questo che - dopo - non farà alcuna domanda, tranne i due coraggiosi ragazzi che fanno da padroni di casa, che chiedono dell'io in poesia, che fanno domande sul macrotesto, ecc., insomma roba di una certa sostanza).
Con la mano plasticamente posata sull'asta del microfono Buffoni interpreta bene sé stesso, il poeta che realizza un'epifania elargendo agli astanti con voce pacata ma decisa un florilegio delle sue poesie, da "Jucci" per esempio, e altro, e poi "O Germania" che ha sempre un suo valore "politico" che in questi tempi europei piuttosto astiosi si fa apprezzare. E comunque sia, lo stile, che piaccia o no, si mostra e si dimostra, come pure la capacità di articolarlo su vari registri e tonalità, con l'io e senza l'io e via discorrendo, e con la voce ben modulata in alti e bassi e accenti
Fin qui tutto bene. Il tutto scorre. Ti arriva dalla poesia quel che - date le circostanze - dalla poesia letta in pubblico ti aspetti, ovvero un affrancamento dall'occhio, dalla pagina, dalla prosodia "stampata", a favore della liberazione di una mente percettiva e liberamente critica, sull'onda di un ritmo, pause, silenzi, accelerazioni che altri sceglie per te. Ma...c'è sempre un ma:
Le poesie di Maria Borio lette da lei medesima sono una delle cose più monotone che mi sia mai capitato di ascoltare, qualcosa che ti sprofonda nel nero surriscaldato del Lux, e questo mi pone un problema: non sono monotone ma lei le legge in maniera monotona? e se è così perché lo fa? è una scelta, una posa? oppure sono monotone perché "nascono" monotone, sono ontologicamente monotone e non possono esser che tali, perché nel loro dna hanno la monotonia e non c'è niente da fare, soprattutto se le leggi con una voce monotona?
"Monotono" in fondo non è che un termine tecnico, qualcosa che è opposto alla modulazione tra toni, in musica almeno, al salto di quinta, agli intervalli. Un po' di quella "musicalità" a cui allude Buffoni in una delle sue risposte.
Non lo so, difficile darsi delle risposte. Forse per prima cosa bisognerebbe mettere da parte la convinzione (che tutti hanno e nessuno ammette) che l'autore legga le sue poesie come le ha pensate, e quindi in maniera "veritiera", quella che in termini contrattuali si chiama "interpretazione autentica". In realtà non è così, almeno per me, perché la poesia ha un alone (o un'aura, come diceva Benjamin), una pluralità di significati su cui l'autore non ha un controllo totale, o lo perde nel momento stesso in cui decide l'imprimatur. Che forse nella lettura l'autore tenta di riprendere, magari con quel consapevole pizzico di retorica oratoria (o attoriale, se preferite) che spunta stasera nella voce di Buffoni. Ma è per così dire un recupero della scrittura, del testo. All'estremo opposto, noto incidentalmente, c'è la slam poetry, in cui quel che conta è la performance, lo spettacolo, e dove infatti non di rado il valore testuale è risibile. Leggere, anzi leggersi, è in definitiva fare i conti con la propria scrittura.
Se così è, allora che conti fa Maria Borio quando legge i suoi testi? Che forse corrisponda a un tema, all'idea che la vita, magari anche quella amorosa, sia monotonale esattamente come - nella concezione corrente - monodirezionale è il tempo? Non lo so, personalmente (forse complice l'afa) non riesco a respingere la sensazione di un ron ron metafisico, di un cicaleccio estivo, di un rumore di fondo.
Ma forse dipende dal fatto che non ho mai letto nulla della Borio. Così tornato a casa do un'occhiata in giro (è un po' poco, lo so), cerco qualche poesia per leggermela da solo, leggo qualche commento, come ad esempio QUI, uno dei siti più seri. A non pochi piace, ad altri le poesie "non piacciono granché", qualcuno vi rintraccia "un passato temporale che ha nulla a che fare con l’esistenza e non può fare a meno di essere “presente" " (e il presente, per lo più eterno, è ricorrenza assidua nella poesia per intenderci "giovane"); altri (e incidentalmente si tratta di un critico che stimo) parla di "quieta riflessione, attenzione alle “cose” - ma non è che le “cose” sono innalzate, sono oggi quello che una volta era la Musa? - , passo narrativo e intimo, lirismo non invasivo, ma anche una certa – voluta – piattezza di tono e nessun tremore sintattico, nessuna spezzatura, come se spezzare il discorso, sporcarlo a tratti, fosse peccato" (ah, certo, le cose, come dimenticarle - v. QUI), e di poesia scritte molto bene ma che "osano poco"; altri ancora richiamano Sereni, cosa in sé giusta ma forse un poco fuori luogo, o Montale, ma ne siamo lontani, forse per fortuna, anche da un punto di vista formale, e certamente come totale assenza di uno sguardo criticamente ironico. Vabbè, non mi resta che leggerne un paio.
Il giornale piegato dove segni e cancelli
affonda il passato.
È fosforescente, è l’ispettore di metalli
all’aeroporto, il radio
che ti può attraversare.
L’esperienza è quella data:
stai qui, aspetti, ti vendi?
Le nuvole si sono buttate fuori dal mondo,
le finestre correvano dietro
e questa tua voce trattenuta.
Una parte di te va con loro
lontano, veloce –
e ci fanno credere che i bisogni
sono veloci come te
che per un momento hai corso
laggiù.
Ma oggi questa vita come il radio
ci ha fatto trasparenti, essenziali.
I ragazzi del secolo esposto conoscono ragioni
più forti, verità più evidenti.
***
Quale dizione trattengono
le cose, quale semplice
pretesa? Il bisogno
di uscita, l’intercapedine
che non ci isola.
La mia protezione è lontana
e solo umana, come il corpo
di una mente o una voce.
E lo spazio dove tutti valgono
il peso del giorno e nemmeno
si inanella di occhi. Di scatto
alcuni riconoscono che
è possibile anche il vuoto,
altri si riprendono
dopo averlo colmato.
Ma il tuo nome è arrivato
sopra a un nulla, ha lasciato
con la luce la via.
Poi lo spazio si è preso
tutte le cose come mie e tue,
come le stringevi, allora,
in un balzo, nell’aria.
Forse è poco per esprimere un giudizio, lo ammetto, ma...No. Credo proprio che sia "monotonal inside", ineludibilmente generazionale, l'orizzonte di un universo ristretto, come ho avuto occasione di scrivere altre volte. E il mono-tono nella lettura è un calco del testo, è il rumore di fondo di questo universo limitato. (g. cerrai)
Sabato, 29 novembre 2014
I commenti sono bloccati, causa ennesimo attacco di spam. E può darsi che, buon ultimo, li lasci così. Mi sono un po' rotto di cancellare "women long sleeved chiffon shirt New" o "cheap air jordan 3 retro 2013" oppure "canada goose logo t shirts apparel" o "women casual dress Bandage" (però a qualche cultore del cut 'n' paste SMBD potrebbero fare comodo). Siccome l'alternativa è qualche raro saluto da amici o qualche rarissimo commento con vaghe sfumature critiche ogni tot mesi, non so se ne vale la pena. Si potrebbe dire "il commento è morto, viva il commento", o anche "morto il commento se ne fa un altro", ma non funziona. Mi pare che una attonita afasia, seguita dallo sproloquio - politico o no - delegato ad altri pochi, abbia colpito la gente in molti campi e sia uno dei segni del nostro tempo. Figuriamoci poi gli sparuti lettori di versi, a meno che non si tratti, spessissimo, di esprimere il proprio entusiasmo su Facebook (yesss, I like, I like, I like, I LIKE IT!, uhmmm.., che sembra tanto una cosa post-porn ma non fatevi illusioni, non siete così ganzi).Vabbe', diciamolo, alla fine non è che i commenti mi angustino più di tanto. Hanno smesso da tempo di essere una forma di comunicazione. Chi vuole ringraziarmi o mandarmi affanculo per qualcosa che ho scritto (nessuna delle due cose è obbligatoria) lo fa privatamente, chi vuole farmi sapere qualcosa di serio il modo lo trova.P.S. Riflettevo anche su un'altra cosa, anch'essa non proprio una novità ma tant'è, mi piace arrivare ultimo. Sul fatto che gran parte della poesia è autoprodotta (usiamo un eufemismo) passando attraverso piccoli editori. I quali, insieme ai loro responsabili di collana (anche nomi di un certo rilievo) dovrebbero avere la responsabilità, lo scrupolo, di fare con qualche criterio una selezione di ciò che pubblicano. Cioè di fare il loro lavoro. Una cosa rara quanto i commenti. Ed il perché è ovvio. E' una delle poche attività commerciali che sorride al "produttore" girando il culo al consumatore. Ne deriva che gran parte della roba che circola è illeggibile (ma volevo usare un'altra scatologica parola che col culo è correlata) compreso un po' di quella che ho in questo momento sulla scrivania.E questa è una delle ragioni per cui invece di fare la solita recensione ho messo un po' di parole in fila. Buona domenica. (g.c.)
Martedì, 8 aprile 2014
Bene, dirò qualcosa di antipatico, per una volta, e forse inusuale. Ma lasciatemi divertire. Si è conclusa l'edizione 2014 di Opera Prima organizzato da Poesia 2.0 insieme a CiErre Grafica di Flavio Ermini. Hanno vinto Tiziana Gabrielli con L’ora senza nome e Fausto Urru con Angle mort. Sono contento per loro, sinceramente. Ma il fatto mi pone qualche problema. Facevo parte del comitato di lettura, o giuria, e ora capita la cosa che mi perplime - direbbe Rokko Smitherson (*) -, che cioè i vincitori sono due tra coloro che a mio modesto avviso valevano di meno (intendendosi questo "di meno" in senso relativo). Ora, deve esserci qualcosa che non va in me, è evidente, è successo altre volte. Devo capire, lo dico sinceramente, magari andando per esclusione, senza polemiche con il resto della giuria, che stimo e di cui rispetto le valutazioni, tanto più che, come dice Grillo, uno vale uno. Spero che nessuno dei "colleghi" che hanno votato per i vincitori (è ovvio che ce ne sono) se la prenda. La prima eventualità è che io faccia parte, a mia insaputa, di una minoranza del gusto e/o dell'estetica. Può essere, anche se non ho una vocazione minoritaria come la sinistra italiana. Ma questo ridurrebbe il problema a una mera questione di "democrazia letteraria", ovvero si vota e vince chi ne prende di più, punto e basta. Tuttavia è un'ipotesi che avrebbe un effetto nefasto, di rimbalzo (pensateci), proprio sul valore delle opere premiate (e ancor più su quelle non premiate), spostando il problema sul "quantum" piuttosto che (in funzione disgiuntiva, mi raccomando!) sul "quid". Ma tant'è. Non scarto l'ipotesi nemmeno di essere un pessimo lettore. Non mi giustifica certo il fatto di aver letto in tutti questi anni milioni di versi, spesso scadenti, a volte ottimi, in rare occasioni memorabili. Ho cercato sempre di farmene una ragione (del fatto che per me fossero memorabili), ma l'ipotesi deve comunque essere presa in considerazione perchè quella "ragione" (che per sua natura ho cercato di razionalizzare) non mi dà ragione, perché potrebbe essere invece del tutto irrazionale, una specie di "campo della passione" lacaniano o una metafisica. Può darsi, in alternativa o in aggiunta, che io abbia dei pessimi strumenti critici (ma "strumenti critici" sono parole grosse, diciamocelo). Il fatto è che se qualcuno mi chiedesse "quali sono i tuoi strumenti critici?" io non saprei che rispondere. Ma vi rendete conto? Comunque, con quelli che ho (probabilmente un coacervo di cose che ho studiato, che ho letto, che mi hanno insegnato e qualche altra eco culturale) mi sembrava di aver capito, sia detto senza arroganza, che nella novantina di opere lette la stragrande maggioranza fosse scadente o menasse il can per l'aia, alcune fossero buone, altre interessanti e innovative, qualcuna acerba come una susina primaticcia e quattro o cinque certo migliori delle due che hanno vinto. Ma può darsi che abbia preso una cantonata, non lo nego. La critica, lo sappiamo, ammesso che esista non è una scienza esatta. Ma se lo fosse dovrebbe a mio avviso avere una funzione di svelamento, o meglio, di smascheramento. C'è poi l'eventualità che io persegua una mia idea di poesia, una linea, una direttrice, una magnifica ossessione. Ci sta pure questo, che abbia cioè uno schema in testa come quei giochi da bambini dove devi mettere i pezzi sagomati nei buchi con la forma giusta corrispondente (ma conosco dei bambini che ce li infilano lo stesso usando il batticarne della mamma). Se ci pensate quei giochi sono dei pre-giudizi e il bambino con il batticarne in pugno ha certamente del genio, non lo nego. Ma io non me la sento di usare il mazzuolo, né di trovare a certi lavori delle giustificazioni che probabilmente gli stessi autori non accetterebbero. Dunque, sarà questa l'ipotesi giusta? Tenderei ad escluderlo, dato che, come è facile constatare, mi interessano stili e poetiche anche molto diversi tra loro, che però, ne sono sicuro, qualche qualità in comune ce l'hanno. La sfuggente qualità della poesia. O quella "ragione" di cui sopra. Non mi viene in mente altro, per ora. Preciso per l'ultima volta che non intendo polemizzare con nessuno né innalzare al cielo un errante lamento alla luna. In effetti non ho di che lamentarmi, anzi ringrazio chi mi ha dato questa opportunità anche quest'anno. Però mi farebbe piacere che qualcuno mi chiarisse le idee. Se volete potete votare le ipotesi di cui sopra. Intanto, se pure vi va, potete leggere le raccolte vincitrici QUI. Poi magari (ma dovrete insistere parecchio) vi spiego cosa non mi è piaciuto nella poesia dei due vincitori. Saluti.
(*) http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/significato-origine-perplimere
Martedì, 7 febbraio 2012
Basta con questi poeti mammoni che vogliono fare poesia senza allontanarsi da casa!! "Noi italiani siamo fermi alla poesia fissa nella stessa città, di fianco a mamma e papà", dice giustamente la critica Cancellieri. Come darle torto? La poesia deve essere flessibile, bisogna abituarsi all'idea di cambiare poesia spesso, chi se lo può permettere vada a fare poesia all'estero!, come qualche tempo fa suggeriva acutamente il critico Celli. Era ora che qualcuno lo dicesse! Finalmente la critica militante e di rottura si sta risvegliando da un annoso torpore e punta il dito al vero nocciolo della questione, la "poesia bambocciona". Basta con questi poeti fannulloni che una volta trovato un verso, una "stanza" o una quartina anche part- time ci si adagiano sopra per tutta la vita! Essi sono incuranti di quel male oscuro che il critico Monti lucidamente diagnostica nella poesia fissa, e cioè la monotonia che, per quanto ci faccia rima, con la poesia non può andare d'accordo! Non solo: non è azzardato ipotizzare, in parziale discordanza con il critico Brunetta, che la monotonia della poesia fissa sia una delle cause del noto e diffuso "assenteismo poetico". Per quanto deprecabile, come non capire chi si dà malato per starsene a letto a leggere l'ultimo Fabio Volo o abbandona per una mezz'ora la poesia fissa pe annà a comprà un par de cicorie? Insomma i tempi cambiano, come ricorda la critica Fornero, non possiamo "prométtere" ai nostri giovani una poesia fissa, figuriamoci poi gli ormai obsoleti ammortizzatori poetici, come certi concorsi o quell'inutile Canto 18 che parla di ruffiani e adulatori, ormai del tutto scomparsi dal settore poetico. Insomma, è la crisi in cui versa il nostro PD (Poetic Debt, debito poetico) ad obbligarci ad affrontare la sfida della flessibilità. Chi ha studiato da poeta lirico non è detto che possa esercitarsi con nuvole e mal d'amore e foglie morte fino alla pensione, sai che palle! E del pari chi fa il poeta di ricerca non potrà continuare a fare il ricercatore a vita, per quanto precario. Dovrà cambiare, delocalizzarsi, ristrutturarsi, magari decostruirsi. In altre parole dovrà diventare competitivo, puntare sulla qualità. E' la globalizzazione, ragazzi, vi attende la sfida con i paesi in via di sviluppo poetico.
Mercoledì, 9 novembre 2011
C'è chi mi dice ma che roba leggi?, c'è chi mi dice ma non potresti
pubblicare più roba di questo tipo invece che di quest'altro? Parlo di
Imperfetta Ellisse, naturalmente. Ora, partendo dalla premessa che è un
blogghetto e che cosa gliene frega alla gente di cosa pubblico,
bisognerebbe intanto capire che spessissimo parlo di libri che mi
arrivano (gentilmente), che molti di questi scritti hanno un valore che
varia molto, che ecc. ecc.. E bisognerebbe cominciare a leggere un pò
meno superficialmente quello che scrivo. Che non è oro colato, altra
premessa, e non vuole fare opinione. E che a ben vedere non si occupa
nemmeno proprio del libro di cui sta parlando, ma di qualche spunto di
riflessione o problemuccio generale che potrebbe far comodo o essere
interessante. In altre parole (e tanto per fare un esempio): a me non
interessa se il/la poeta/essa X scrive con tutta la Treccani accanto, o
se appiccica le parole credendo di essere inglese, o se pensa che la sua
crisi sia emblematica di tutte le crisi, o che ami le foglie al vento
più di ogni altra cosa. No, a me interessa partire da lì per dire:
guardate che a mio modesto avviso se continuate a scrivere così (o di
queste cose) non andate da nessuna parte, o forse voi ci andate ma la
poesia no ecc. Non lo dico proprio così però, e questa è un'altra
questione. Perchè se si andasse a leggere con un pò meno di fretta
digitale, forse si coglierebbe qualcosa tra le righe. Già, tra le righe,
ed è lì che sbaglio. Perchè non mi piace dare bastonate a nessuno. Sono
un non violento della recensione, che confida nell'intelligenza degli
altri, nel suggerimento, per quel che può valere. Insomma, sforzatevi,
cercate di capire al volo. Cercate di capire che non si parla tanto di
voi quanto della poesia (con la p minuscola, certo) e di dove a mio
avviso la poesia (la vostra, la mia, quella di tanti epigoni di sé) va a
parare.
Continua a leggere "Maalox 4 - A me mi frega l'educazione"
Sabato, 6 agosto 2011
Lo so, mi farò dei nemici. Ma pensavo: aprire un gruppo su Facebook ha
lo stesso valore sociale delle sputacchiere nei saloon del Far West.
Uno apre una pagina, un gruppo, un profilo, esattamente come fanno
alcune altre migliaia di persone e in meno di un minuto le stesse
migliaia di persone cominciano a vomitarci dentro i loro affanni, i loro
pensieri per lo più marginali, i loro mal di pancia o la notizia che il
loro gatto finalmente ha vomitato (a sua volta?) una palla di pelo. Che
c'è di sociale in questo, se non la condivisione di un fallimento,
quello dell'incapacità di usare uno strumento (seppure nei limiti che ti
impongono i capitalisti possessori del mezzo) per fini che siano meno
che futili (a meno che ovviamente non si debba organizzare una
rivoluzione in un paese di merda tipo....l'Italia?)? Finchè il giochetto
è puro entertainement e avete tempo da perdere, la cosa può anche
andare, insieme a tutte le altre menate delle foto, dei giochini, delle
applicazioni, dei baci, dei mazzi di fiori, degli auguri, delle torte
virtuali e compagnia cantante. Ma per favore, non mi venite fuori con la
storia dell'interesse comune, della comunità,
specialmente se si tratta della poesia. Che c'entra la poesia con tutto
questo? Che tipo di conforto (esatto, conforto) cerchiamo con il
pubblicare la nostra poesiola in uno spazio aperto che attraversiamo con
la velocità di chi ha fretta di trovare il gabinetto? Il saluto degli
astanti? Il "mi piace" che per comodità (un click contro otto caratteri
spazio compreso, vuoi mettere) è stato trasformato in un bottone? Le
cento porte aperte in cui entri, depositi il tuo frutto, per poi passare
la giornata a spulciare le settecento notifiche "anche X ha
commentato..." alla ricerca di qualcuno che parli bene di te? Che poi ti
tocca rigraziare Sara, Mara, Clara e anche Manrico, Enrico e Lodovico?
Vogliamo renderci conto che tutto, in questo ambiente, è stato
depotenziato, per diverse ragioni? In parte semplicemente perchè "non
c'è tempo per". Non c'è tempo per leggere tutto, ovviamente, ma non c'è
tempo nemmeno per scrivere qualche parola a giustificazione di quel "mi
piace" (ma è interessante notare l'assenza di un bottone che dice "non
mi piace", a suo modo un'altra bella comodità), non c'è tempo per
pensare, per farsi venire un'idea, per esempio su come usare Facebook
come un'installazione artistica o in modo un po' debordiano,
situazionista, più dirompente. L'altra ragione di depotenziamento è che
su Facebook non c'è spazio che non sia frantumato, parcellizzato,
ridotto alle dimensioni di un cracker in bocca a un criceto. Mettere
insieme un mosaico attendibile è impossibile, se non forse costringendo
gli amici a convergere sul tuo "prodotto" taggandoli spietatamente.
Purtroppo gli altri fanno altrettanto, e siamo da capo. Facebook è
depotenziato semplicemente perchè è distraente, non c'è nessuno strumento che sia davvero condivisibile.
E come insieme di individualismi, paradossalmente si adatta alla
perfezione alla "poesia" (sì, mettiamola per un momento tra virgolette).
Del resto Facebook è una rappresentazione reticolare della poesia così
come la intendono troppe persone. E cioè un qualcosa che viene dal
profondo, sale sale sale spinto da una certa "urgenza" (quante volte
l'avete sentita questa parola?) finchè finalmente esce alla luce, viene
partorito (se lo si guarda benevolmente) o viene vomitato (se lo si
guarda, nella gran parte dei casi, realisticamente). Estroflettendo il
"prodotto" si spera sempre che a contatto con l'aria subisca un processo
chimico che lo migliora, come avviene con il vino. Ognuno ha diritto di
sperare quel che vuole, certo. Inoltre Facebook non solo è democratico,
è anche gratis, non tanto perchè non costa niente in soldi ma perchè non costa niente in fatica, al contrario ad esempio di un blog. Non costa niente iscriversi ad un gruppo e scaricare in bacheca il proprio parto acriticamente,
senza ripensamenti perchè Facebook è veloce e non c'è tempo di farsi
venire qualche dubbio autocritico. Si sposta la responsabilità sugli
"amici", ma gli amici come abbiamo visto non hanno tempo nemmeno per
essere sinceri perchè bisognerebbe superare il doppio scoglio del
pensiero e dell'onestà intellettuale, e quindi non c'è riscontro vero,
non c'è discernimento. E siamo da capo.
Intendiamoci, non ho niente di personale contro questa poesia
"liquida", che deborda e come l'acqua occupa tutti gli interstizi e gli
spazi che trova, tutti gli anfratti che non siano minimamente moderati.
Se non fosse che Facebook ha fatto da accelerante di una entropia che
era già presente in internet, aumentando in maniera esponenziale la
velocità degli "interventi" e diminuendo in modo direttamente
proporzionale il tempo di permanenza sulla "notizia". Siamo tutti
diventati campioni della lettura veloce, quando va bene. Ci siamo sempre
lamentati che ci sono troppi scrittori e quasi nessun lettore, di
poesia in particolare. Ma se c'è qualcosa che farà fuori definitivamente
la lettura infilandola giù per il nostro bel vomitatoio, state sicuri
che quello è Facebook (e il suo fratellino, ancora più subatomico,
Twitter). Non si tratta nemmeno più di quel sovraccarico informativo,
quel "information overload" di cui ho parlato in altre occasioni.
Quello, se lo conosci lo eviti. Qui si tratta di assuefazione (quasi in
senso farmacologico) e temo che sia assuefazione al fast food poetico,
al frammento che specie nei gruppi aperti altre decine di frammenti
spingono inesorabilmente fuori scena nel giro (provare per credere) di
qualche minuto. Almeno in un blog se non leggi un post oggi te lo puoi
leggere domani. Te lo puoi addirittura rileggere!!. Siamo alla junk poetry. Siamo - temo - all'assuefazione al brutto. Va bene, basta non diventarne dipendenti.
Lunedì, 8 novembre 2010
Dovevo fare un post per ieri. Avevo deciso di scegliere un/una
autore/autrice che tempo fa mi aveva mandato qualcosa di suo. Non so ora
che impressione ne avessi avuto, inizialmente, forse mi era sembrato/a
interessante, sotto qualche aspetto. Ma qualcosa è andato storto. Non è
andato a fuoco il computer, non mi è saltato lo scanner, nè il mio blog è
stato oggetto di un attacco virale. Niente di tutto questo.
Semplicemente mi si è inceppata una certa disposizione d'animo, che ho
sempre avuta e che è una via di mezzo tra un certo ottimismo (quello del
bicchiere mezzo pieno, che è volontaristico) e la buona educazione. Mi
sono messo a riflettere se un simile atteggiamento avesse ancora diritto
di cittadinanza in un mondo (impoetico) come questo. Ah, la buona
educazione, che fregatura! In altre parole, mi sono (metaforicamente)
guardato allo specchio e mi sono chiesto: ma questa roba ti piace
davvero? Domanda cruciale, se si pensa che come diceva un noto filosofo,
si parla sempre di poetica ma molto raramente di estetica, qualcosa
che in fondo prende le distanze dall'etica, cioè dal comportamento. Si
potrebbe quindi dire, semplificando brutalmente e azzardando parecchio,
che l'estetica è maleducata, anzi deve essere maleducata. Almeno nel senso che - proprio come la buona poesia - non educa ma indica, se la vuoi vedere, una possibilità di bellezza. Tutto torna.
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