Martedì, 27 novembre 2018Documento: Lucio Saffaro - Est elladico, con un saggio di Adelia NoferiL'opera di Lucio Saffaro (triestino, vivente a Bologna, laureato in fisica pura) si svolge parallelamente, e con stretti rapporti di interrelazione, nell'area delle arti figurative (ricordiamo le metafìsiche geometrie delle tavole del Tractatus Logicus Prospecticus, quelle per il Polifilo del Colonna, le recenti mostre, del 77, a Bologna e a Milano), ed in quella delle arti del linguaggio, collocandosi in una singolare posizione nel panorama culturale contemporaneo: una posizione, cioè, insieme eccentrica e centrale, dal momento che il suo lavoro, mentre appare isolato e distaccato rispetto alle sperimentazioni ed alle prove delle più recenti avanguardie, risulta tuttavia motivato e strutturato dalle tensioni intellettuali che più profondamente percorrono e sommuovono, specie sul versante scientifico, la cultura novecentesca. La singolarità della scrittura di Saffaro è anzitutto riconoscibile nel suo porsi all'intersezione del modello-progetto scientifico con il modello-progetto letterario: luogo critico per eccellenza, dal momento che lì si scontrano e si confrontano due sistemi di funzioni diverse (opposte?) all'interno delle strutture concettuali e operative del linguaggio, del simbolo e della forma. È noto che nel modello-progetto scientifico: 1) il linguaggio tende a ridurre al massimo l'ambiguità e la polisemia per consentire un rapporto univoco del significante con il significato, esaltando la funzione referenziale; 2) il simbolo, di tipo logico-matematico, è un segnale altamente convenzionale che garantisce il massimo di concentrazione e di formalità; 3) la forma è una metastruttura che consente l'analisi razionale e logica nella operazione cognitiva. Nel modello-progetto letterario (poetico) invece: 1) il linguaggio è il luogo di produzione di sensi multipli, l'equilibrio del segno si sposta dalla parte del significante in una moltiplicazione e complessa articolazione di «significanti supplementari» (Agosti), esaltandosi quella «funzione poetica» (definita da Jakobson) che trattiene il messaggio su se stesso, essenzialmente autoreferenziale, nello spazio di « assenza » del referente esterno; 2) il simbolo (pur nelle diverse accezioni che determinano la sua storia) è fondamentalmente « motivato », si fonda su una « eccedenza » volta a volta del significato o del significante, si statuisce per lo più come sovradeterminato; 3) la forma infine è l'insieme delle relazioni e dei livelli che costituiscono la struttura dell'oggetto. Nella diversità (e/o opposizione) dei due modelli, la cultura contemporanea, specie nell'ambito delle scienze del linguaggio, sta elaborando possibilità sempre più articolate di convergenza, e ciò nella direzione precipua offerta dal metalinguaggio. I princìpi, cioè, del metalinguaggio logico-matematico, altamente formalizzato, vengono applicati alle strutture del linguaggio in genere ed a quelle testuali (Ietterario-poetiche) in particolare (si pensi alla linguistica formale o alla teoria logico-semantica di Tarski o Petöfi), tentando proprio di formalizzare ciò che nel linguaggio poetico si presenta come non-formale (allo stesso modo come la tradizione esegetica aveva da sempre tentato di controllare ed arginare, attraverso l'interpretazione, la irriducibile sovra-produzione di senso « non-razionalizzabile » [ancora Agosti], propria del testo poetico). Ma questo progetto, che si affida al metalinguaggio, trova anche in esso il suo punto critico: « non esiste metalinguaggio » afferma Lacan e la psicanalisi post-freudiana, in stretto contatto con le poetiche novecentesche: non si esce dal linguaggio, e i poeti l'hanno sempre saputo. Ponendosi, dunque, come dicevamo, nel luogo di intersezione di quei modelli-progetti, Saffaro viene ad operare non sopra, ma dentro al linguaggio poetico, riconduce il metalinguaggio all'interno del linguaggio e precisamente come linguaggio che si autoriflette, linguaggio che si pensa, si figura, si rispecchia, duplicazione e moltiplicazione del linguaggio in se stesso (nella figura della mise en abime): infine come autologia. Il testo saffariano che qui viene presentato, Est Elladico, risale agli anni '67-'68, in stretto contatto con altri testi: Trattato del modulo (Firenze 1967), Diario autologico (Bologna 1968) e Teoria dell'Est (Roma 1969), nei quali appunto si precisa, si mette in opera e si teorizza il principio dell' autologia. Nelle « Osservazioni sulla Teoria dell'Est» (in «Idee», aprile 1970) Saffaro scriveva: « L'autologia potrebbe sembrare una limitazione del pensiero, come quella circolarità della meditazione che medita la propria meditabilità; ma se per circostanze autologiche si intendono quei fenomeni che [...] attengono a se stessi, apparirà in tutta la sua evidenza l'intensità esistenziale che si concentra nell'evento autologico ». Nella Teoria dell'Est (libro costruito secondo un rigoroso canone matematico, componendo una « cartesiana architettura ») il linguaggio « figura » se stesso attraverso il vertiginoso gioco numerico, acrostico, anagrammatico, eidologico, si autodescrive nella propria operatività e potenzialità, e, descrivendo il proprio funzionamento, anche raddoppia sia la distinzione che il nodo inestricabile delle proprie funzioni. Ed è proprio l'operazione del « raddoppio » (divisione, scissione) che si costituisce in Saffaro come preliminare e radicale: quel « raddoppio » scindente che fonda, insieme, tanto il segno quanto l'immagine, per cui l'autologia diviene il segno-immagine di se stesso, compatto ed inscalfibile enigma che nessun Edipo verrà a « ridurre », decifrandolo, e che indica e marca in se stesso la differenza, la barra, che divide e unisce, alla radice di ogni procedimento del Logos. (Ricordiamo quanto, nel suo ripensamento di Derrida, scrive Agamben: « Ogni interpretazione del significare come rapporto di manifestazione o di espressione [o, all'inverso, di cifra e occultamento] si pone necessariamente sotto il segno di Edipo, mentre si pone invece sotto il segno della Sfinge ogni teoria del simbolo che, rifiutando questo modello, porti innanzi tutto la sua attenzione sulla barriera fra significante e significato che costituisce il problema originale di ogni significazione »: cfr. G. Agamben, Stanze, Torino 1977, p. 165.) Saffaro ha recentemente pubblicato un testo che risale al '50: Il principio di sostituzione (Pollenza, Macerata 1977), assai rilevante per la direzione del suo futuro lavoro, dove la « sostituzione » è quella, globale, dell'esistente con l'ente, del concreto con l'astratto, della « cosa » con il simbolo: il fondamento stesso sia del linguaggio che della operazione razionale della logica e della matematica, la grande operazione del Logos occidentale che ha sostenuto tanto la costituzione del soggetto come unità e fondamento del Cogito, quanto la sua destituzione nella scissione (béance) che lo traversa e lo sbarra, mettendo in moto lo slittamento del senso lungo la catena dei significanti (a partire dalla « mancanza » originaria) e costituendo insieme la struttura del desiderio. In quelle pagine leggiamo: « Divido le cose da loro stesse e così raddoppio con un solo atto del pensiero tutto l'universo; speculando poi su questa separazione dell'oggetto da se stesso, trovo che posso formare nell'intervallo privo di misura infinite estensioni immaginarie e una sola reale che è la coincidenza; similmente all'infinità prodigiosa dei logaritmi del numero ». Se la « divisione-raddoppio » iscrive l'operazione del « simbolico » (e il « reale », che in Lacan si definisce come il non-simbolizzabile, è l'impossibile coincidenza), lo spazio dell'immaginario è lo spazio stesso della « separazione », dell’« entre-deux », della barra o piega. Il « modello disgiuntivo » si iscriverà costantemente nella scrittura di Saffaro, sia a livello tematico, sia a quello dei dispositivi testuali. Così si veda, in questo Est Elladico, per il primo livello: « Lo scambio era allora soltanto un trionfo del modulo [...] »; « queste contrapposizioni astratte, erano piuttosto il modello disgiuntivo di figurate preferenze »; « la duplicità dell'esistenza »; « vuota divisibilità »; « Se gli affetti si disgiungono [...] », fino alla pronuncia di quella « angoscia distintiva » che si sottende a tutta la scrittura. A livello testuale la duplicazione prende qui la forma della coppia IO/TU, sia nella sua contrapposizione (« Tu conosci le grandi ruote del mondo [...] io ti porto il significato delle azioni », ecc.) sia nella sua combinazione in un NOI che non neutralizza l'interna scissione. La scissione, anzi, non si apre solo fra la prima e la seconda persona, ma nell'interno stesso del soggetto (nello spazio della «elongazione»: «spenta alterità da me»), come pure all'interno delle percezioni, della memoria, del pensiero, all'interno dello spazio e del tempo. Allora la « distinzione » che si moltiplica, sottraendosi alla riduzione all'unità, sembra offrirsi solo ad una protratta, astratta « numerazione », « catalogo », « raccolta » (« Sull'elenco di tutte le azioni scegliemmo la duecentocinquantacinquesima [...] poi ci accorgemmo di averla già tralasciata. L'intelligenza degli atti trascendeva ogni possibile elenco »; « Alla ricerca del libro dei libri componevamo il segreto catalogo dei concetti: così il dizionario astratto cresceva come un'algebra universale », ed è facile, qui, il richiamo a Borges, del resto proposto da vari critici; ed ancora: « radunammo le immagini del mare »; « Così il continuo simulacro da te aggiunto alla vuota divisibilità, riprende la numerazione della statua sostanziale »). In realtà l'elenco, la numerazione delle scissioni e delle differenze, l'astrazione stessa su di esse operata sotto « la trionfale tenda algebrica », non vale né a ridurle né ad eluderle: ogni operazione formalizzante si scontra con qualcosa di irriducibile all'unità, all'identità e alla presenza: precisamente con l'immagine-simulacro (« Mi avevi chiesto l'immunere Trattato, la nozione assoluta, lo scritto invariabile; io non sapevo darti che l'immagine necessaria »): quell'immagine-simulacro (oggetto, paesaggio, evento, persona, statua, architettura) che non partecipa né del reale né del simbolico, resto in consumato dell'astrazione del pensiero, di là dalla distinzione vero/falso, indecidibile, la cui connotazione è l'angoscia (« Lontano dall'esistenza [...] distinguo chiaramente preannunci di angoscia [...] si inviluppa entro se stessa la luce fluendo senza forma verso manifestazioni virtuali di immagini poste oltre il concetto di luce-tenebra, luogo senza limiti né orientamento », Principio di sostituzione). L'opera di Saffaro appartiene a questo spazio di violenza e di angoscia del simulacro. Ricordiamo quanto di esso affermava Deleuze: « Il simulacro è quel sistema ove il differente si rapporta al differente attraverso la differenza stessa» ( Différence et répétition, Paris 1968, p. 355); e quanto scrive recentemente J. Baudrillard in « Précession des simulacres »: « non si tratta di irreale, ma di simulacro, vale a dire di un'immagine che non si scambia più con del reale, ma si scambia solo con se stessa, in un circuito ininterrotto in cui né la referenza né la circonferenza sono in alcun luogo » (in « Traverses », 10 febbraio 1978). Il simulacro è esso stesso autologico, autospeculare, ripiegato sulla propria « differenza », convoluto su se stesso nella torsione dell'anello di Moebius (ed è significativo che questa figura della moderna topologia, che emerge frequentemente nella scrittura di Saffaro, sia stata utilizzata da Lacan per la formalizzazione della struttura del soggetto, e compaia anche nello scritto di Baudrillard sul simulacro). Una torsione che, superando la contrapposizione dell'ossimoro, rende, in Saffaro, reversibile e indecidibile qualsiasi coppia antitetica, sia concettuale (vero/falso, tempo/eternità, sensibile/intelligibile) sia operativa l'opposizione delle aree lessicali, ad esempio: scientifica/letteraria (iper-letteraria, anzi, nel recupero di una tradizione aulica che va dalla « tragedia » dantesca e cavalcantiana, attraverso il rinascimento, il neo-classicismo e il decadentismo — l'attacco di Est Elladico ha addirittura inflessioni dannunziane - fino al surrealismo metafisico), oppure l'opposizione dei modelli di enunciati (logico-scientifici dimostrativi e asseverativi gli uni, prevalentemente illocutori gli altri, addirittura di tipo mistico-profetico, alternati con strutture periodali di tipo narrativo), fino alla opposizione-duplicazione stessa di linguaggio/metalinguaggio.
Lo spazio della duplicazione e del simulacro (della « scrittura » in senso
« derridiano ») è centrale e genetico nella cultura novecentesca, ma
percorre sotterraneamente tutta la tradizione occidentale, affiorando
singolarmente in area tardo-rinascimentale e meno marcatamente in ambito
tardo-romantico. Le citate parole di Baudrillard a proposito del simulacro
contengono, leggermente alterata, l'antica definizione dell'ente divino
attribuita ad Ermete Trismegisto: « un cerchio il cui centro è ovunque e la
circonferenza in nessun luogo ». Effettivamente il richiamo più persuasivo
che si possa proporre per l'operazione di Saffaro è quello alla grande
tradizione ermetica, particolarmente nelle sue emergenze rinascimentali
(Ficino, Pico, Delminio, Bruno), nelle sue connessioni con la Cabala, il
pitagorismo, l'alchimia, le teorie della figurazione simbolica (si pensi
alla « summa » di questa cultura riscontrabile nel Settenario del
Farra e nella sua « filosofìa simbolica »), tradizione che Saffaro combina
alle ricerche ed ai risultati più recenti della matematica, della
geometria, della fìsica moderne (si veda in questo senso il suo scritto di
fisica: Dai cinque poliedri platonici all'infinito), e che investe
anche tutto l'insieme di quei « giochi linguistici » che si connettono
direttamente alle sperimentazioni rinascimentali e medievali. A questa
tradizione, appunto (le ruote, gli alberi lulliani, le artes memoriae di Delminio e di Bruno, le « statue » bruniane del Lampas triginta statuarum, il recupero simbolico delle immagini
degli dei degli antichi del Ripa o del Cartari, i geroglifici, gli emblemi
e le imprese, il classicismo esoterico di Pirro Ligorio, i calcoli e i
giochi prospettici), appartiene gran parte della imagerie e dei décors saffariani (erme, architetture, idoli, statue, paesaggi
costruiti come i giardini simbolici del Rinascimento), sì che leggendo
certe pagine sembra inoltrarsi tra i simulacri di pietra del « bosco sacro
» di Bomarzo. Ma nella stessa tradizione si inseriscono anche i
procedimenti di scrittura (giochi verbali e numerici, pitagorismo e Cabala)
e soprattutto la costante componente di « ritualità » che caratterizza sia
le operazioni descritte nei testi saffariani, che la operazione stessa
della scrittura del testo. Riti di iniziazione o di purificazione, di
augurio o profezia, di contemplazione, di « attesa », gesti e percorsi
rituali (evidentissimi in questo Est Elladico, ma anche nello
pseudo-romanzo che è Fars, tracciato proprio su un percorso
rituale): questa lenta, densa, assorta e lucida ritualità simbolica
costituisce la sostanza stessa degli atti, delle azioni, che non conoscono
altro margine di esistenza se non quello appunto del rito o della
trasformazione nelle « operazioni » logiche ed autologiche della
riflessione. La trama pseudo-diaristica di queste 24 epistole, come quella
del Diario autologico, costituisce in realtà lo spazio di una
radicale « dislocazione » (« Dislochiamo arditamente questi giorni nelle
araldiche di metafisiche incompiute », leggiamo nel Diario):
dislocazione nello spazio del simulacro e dell'autologia. Questo è il rito
che si celebra anche, punto per punto, in Est Elladico, dove lo
spessore del simulacro (« la densa ramificazione dell'identità ») resiste
alla « logica assoluta » e continua a promuovere, nella sua corsa
metonimica, il desiderio. Il titolo stesso è costruito come un geroglifico
complesso, un emblema verbale. Lo statuto « logico », « allegorico » ed «
estetico » dell'EST verrà dichiarato proprio nella Teoria dell'Est
: « L'oggetto fondamentale è l'epistasi della realtà, il suo coronamento
immaginario assoluto ed infinito; costituito di Esistenza, Spazio e Tempo;
e l'EST ne è il simbolo proprio », che si raddoppia a sua volta in
Estetica, Sapienza, Teoria. Le tre lettere che lo compongono rimandano
inoltre a TRIESTE, non soltanto luogo di nascita dell'autore, ma luogo
reale al quale si riferiscono queste 24 epistole (numero rituale, come poi
le XXIV Tesi della Diateca, testo esemplare per la struttura del
simulacro: della lenta, impercettibile torsione dell'identico nel diverso).
Come punto cardinale indica l'oriente: insieme origine e termine della «
occidentale meditazione » (« La ricerca dell'occidente non aveva fine [...]
l'orlo ammetteva circolari soluzioni »), delle « vicende occidue » che «
nascondono le nascoste proprietà dell'immaginazione », di contro alla «
luce orientale » delle « assorte geometrie del pensiero »; mentre il
riferimento all'Eliade indica il luogo e il tempo della nascita stessa del
Logos, « dei fasti primitivi dell'idea ». Ma il sintagma Est Elladico è
anche uguale e diverso (simulacro) dall'altro, diversamente ripartito:
Estella Dico, che in esso si iscrive letteralmente e semanticamente, dal
momento che Estella è il nome del TU presente nel testo, insieme
destinataria delle lettere-epistole e « oggetto » del « dire » da parte del
soggetto dell'enunciazione, personaggio femminile che diviene così,
mediante la radicale « dislocazione », da persona biografica (ma pur
rimanendo tale, nella sua iscritta nominazione) «oggetto assoluto»: quel
«coronamento immaginario della realtà » di cui l'Est è il simbolo proprio.
La scissione stessa si sposta nel corpo verbale, duplicandosi, vi
moltiplica i « bivii » del senso, si avvolge su se stessa nella propria
auto-affermazione: « dire Estella » è allora « dialogare », accedere alla «
divisione » del dialogo: « Ma se dividi, lasciami questa definizione che ci
trattiene in erti dialoghi indeclinabili ».(adelia noferi) Lucio Saffaro
è nato a Trieste nel 1929, si è laureato in fisica pura all' Università
di Bologna, città nella quale ha vissuto dal 1945 e dove è morto nel
1998. E stato pittore, scrittore e matematico. Dagli anni Sessanta si è affermato come una delle figure più originali e inconsuete della cultura italiana, ricevendo ampi riconoscimenti in ciascuno dei campi in cui ha operato. Le sue ricerche sulla determinazione di nuovi poliedri sono state oggetto di numerosi saggi e conferenze, tenute da Saffaro in Italia e all'estero. Queste ricerche a loro volta sono state commentate da autorevoli studiosi e più volte apparse negli annuari della Enciclopedia della Scienza e della Tecnica di Mondadori, oltre che in riviste scientifiche. Ha pubblicato oltre cinquanta opere letterarie, recensite e presentate da critici prestigiosi, per Lerici, Scheiwiller, La Nuova Foglio, l'Almanacco dello Specchio di Mondadori e le Edizioni di Paradoxos da lui stesso ideate. Nel 1986 ha pubblicato a Parigi Teoria dell'inseguimento, con un saggio introduttivo di Paul Ricoeur. Maggiori notizie e una bibliografia completa sono reperibili sul sito della Fondazione Lucio Saffaro (v. QUI). Un importante contributo, con scritti di Saffaro e note di Gisella Vismara e Rosa Pierno è reperibile su Diaforia.org (v. QUI) Testi tratti da Almanacco dello Specchio 8/1979. L'opera a stampa a cui riferirsi è Est elladico: XXIV epistole, Paradoxos, Bologna 1973, oggi purtroppo introvabile. EST ELLADICO 12 ottobre 1967 È ritornato l'augure marino e ci porta suoni litoranei e cristalline conchiglie. A te diede i dodici consigli del tempo, a me chiederà l'oggetto teorico mancante alle sue catene deduttive. Insieme lo coprimmo di fiori, ma quel serto abbandonato non era suo. Diversamente era trascorsa l'estate. Avremmo inciso la storia parallela del nostro futuro e raggiunto astrazioni non prima udite. Le foglie del tempo, la densa ramificazione dell'identità, la crescente corolla dello spazio confusero i nostri pensieri. Arboree declinazioni ci sottrassero al confronto della nostra vita. Per ogni azione perduta contavamo i cicli riposti dell'attesa. La trionfale tenda algebrica si svolgeva inattingibile sull'estensione marina. 16 ottobre 1967 Se la nozione dell'autunno ci raggiunge sul limitare di questi boschi indefiniti, subito volgeremo all'oriente la nostra assenza. Ma se dividi, lasciami questa definizione che ci trattiene in erti dialoghi indeclinabili. Tu conosci le grandi ruote del mondo, e il raggio del tempo, e l'alta sfera illusiva che sfugge a ogni determinazione: io ti porto il significato delle azioni. Ti chiederò il sorriso e la neutra sapienza di perfetti conversari. 19 ottobre 1967 Asserivi la tua felicità, e io ti ascoltavo. I grandi rami del tempo sorgevano appena sugli orizzonti previsti, e leggevamo i fogli analitici. Noi stessi li avevamo scritti la volta precedente. Ma non era questa la nostra attenzione maggiore: ascoltavamo, se si udissero voci trascendenti. Densi gruppi di silenzio cambiavano il grigio. La ricerca dell'occidente non aveva fine: l'occupazione transitava su misure aumentate, l'orlo ammetteva circolari soluzioni. Ti volevo avvisare, ma temevo di perderti; la storia conteneva sempre una proposizione di più. 23 ottobre 1967 Sull'elenco di tutte le azioni scegliemmo la duecentocinquantacinquesima e le attribuimmo eccelse virtù: tu avresti voluto disporla in atteggiamenti teorici, io preferivo la consolazione marina; poi ci accorgemmo di averla già tralasciata. L'intelligenza degli atti trascendeva ogni possibile elenco, qualunque fosse la sua natura. Allora, per celebrare gli antichi fasti delle nostre intraprese, tu mi donavi la statua che dimora impercettibile al centro dell'altopiano: nera e d'oro si ergeva sul verde basamento e mi tendeva le mani, rassegnata e potente. 26 ottobre 1967 Mi conducevi sui poli marittimi e mi offrivi l'occidentale meditazione: quelle vicende che tu chiamavi occidue, e che erano nostre; quelle nascoste proprietà dell'immaginazione che agevolano il ricordo delle sostanze; quelle idee peregrinanti che conducevi fino all'assiduo vertice della tempesta eleusina, subito dischiuso e fermo in concentrici coni di luce e d'oro. Tale era il nostro golfo e l'impresa adriatica. Più tardi la progressione della felicità avrebbe divelto l'ultima separazione e l'intelligenza avrebbe contemplato solo se stessa. 30 ottobre 1967 Tra le rovine del Settecento scoprimmo l'iscrizione elusiva; più tardi avresti scritto su quei luoghi inedite proposizioni e colmato i titoli di sopravvincenti unioni. Lo scambio allora era soltanto un trionfo del modulo, le memorabili quantità, queste contrapposizioni astratte, erano piuttosto il modello disgiuntivo di figurate preferenze. Erme e architetture scendevano alla costa; seguivamo riposte curvature e il pendio prediletto. L'incessante culmine marino ci sottrasse all'inerente tristezza. 2 novembre 1967 Alla ricerca del libro dei libri componevamo il segreto catalogo dei concetti: così il dizionario astratto cresceva come un'algebra universale, e la forma assoluta era nostra una volta di più. Avevi stabilito che il presagio delle nubi di ponente valesse per l'uniforme verità, ma tramonti maggiori sovvennero alla quiete dei ricordi. La duplicità dell'esistenza ci fu confermata da improvvisi sefiroti. Volgi il nume individuale all'asta irriducibile dell'estensione. 6 novembre 1967 La componente visibile dello spazio ci raccolse nella contemplazione del tramonto. Su quelle cime lontane che facevano da contrappeso ottico all'indaco sempre più intenso e sconfinante, sembravano radunarsi le idee stesse dell'esistenza, e farsi incontro le specie sensibili della naturale cognizione. Se per questa imperfettibile sapienza ponevamo la recita ferma dei nostri affetti, subito il tempo si innalzava nei suoi pinnacoli astratti. La verità affiorava come un'ά nel segno del desiderio. 10 novembre 1967 Il ritorno delle ombre fu più rapido e quieto. Dalla torre di osservazione scandagliavi la logica lunare che solo quell'ora poteva offrirti. Mi avevi chiesto l'immunere Trattato, la nozione assoluta, lo scritto invariabile; io non sapevo darti che l'immagine necessaria. Per quelle vie senza margini, sede di concilianti agguati, giungevamo ai luoghi superiori, alle riposte composizioni dello spazio, e tu allora definivi le sfere irriducibili e perfette, e l'identità fu circoscritta di concordanze. Porgimi ancora il mutare dell'opera per un giudizio condizionale della forma. 13 novembre 1967 Infatti il mio pensiero era indipendente da tutte le azioni, quelle compiute e quelle non compiute, e la conversione degli atti al tempo sarebbe stata soltanto il valore preteso per una realtà pur non meritata: una giustificazione alternata per lo scambio di ogni ricordo, non altrimenti vero. Se la tristezza rivelata concordasse solo per una naturale differenza non vi sarebbero più decisioni tra l'essere e l'esistente. Null'altro ci separa che la riposta linea del consiglio. 16 novembre 1967 E intanto la stagione si inoltra nel denso corso del tempo e la solitudine si innalza nel desiderio. Così gli Yuxeti trionfanti risplendono sull'infinito e si sfogliano in malinconici serti di apparenza. 20 novembre 1967 La teoria del ritorno è incompleta, non rappresenta la contiguità dell'esistenza e del desiderio. La connotazione del tempo, circolare angoscia degli eventi, risolve soltanto elevate riflessioni. Tu negavi la durata per l'argomento iperbolico del dubbio e riponevi nel mare i duplici confini dell'attesa. Quel monito era tanto oggettivo quanto immanente: riconoscevo l'oscuro ostacolo ontologico e subito la conclusione era una prova dei nostri sospetti. L'esaudimento si conferma soltanto nel legame asserito dell'assenza. 23 novembre 1967 Se la distruzione del tempo pesa sulla costanza dell'opera, possiamo sottrarre alla somma delle conseguenze la quantità ricorrente e abbandonarci alla soggettiva enumerazione della sostanza. Già prima tu contemplavi la frequente opposizione e dell'astratto ricavo facevi un calcolo trascendente, lasciando agli altri di completare lungo i margini didascalie senza fine. Rimossa la regola negativa, restava da scambiare il mondo con la necessità, o l'ordine con la riduzione. I trasferimenti esterni ancora una volta ci avrebbero lasciati intenti alla difesa: io ti proponevo la sospensione delle cifre e un ancoraggio inavvertito all'edicola fìnta del cinquecento. Dividere la storia è quasi uguale al suggerimento fausto dell'amicizia. 27 novembre 1967 Nel contrappunto inflessibile delle entità transfinite scopristi la rete mancante e quelle armonie indefinite volgesti a una sottile diminuzione. Ti ammiravo per le deduzioni condotte secondo pur labili trapassi: il trionfo finale si componeva in scalari magnificenze e tu ne attingevi quieta supremazia. La gloria primaria più prossima a realtà derivate, la grandezza naturale favorevole quanto una somiglianza del passato. All'estuario conveniente del tempo rileviamo un'ascissa né grande né piccola. 30 novembre 1967 Temevamo la perdita dei simboli, i nostri ricorsi ci traevano a più precise malinconie; quelle quiete colline che ci erano apparse nella perfezione del sogno, erano forse più vere delle loro indefinite curvature. Se ancora poniamo le nostre esistenze ai limiti del pensiero, ove purpurei tramonti infrangono la regola astratta della precedenza, ritroviamo intera la nostra primitiva tristezza; da lunghi percorsi l'arido fuoco immaginario riluce nel trascendente culmine iniziale. 4 dicembre 1967 In uno scritto perduto trattavi la memoria di una logica assoluta e il riconoscimento della sintesi dell'eterno, ma la stagione è trascorsa, e non vale più la regola di scelta da te postulata. Ora rimane soltanto lo scambio, l'ignoto felice, sottile modello di inizio. Superato il velo autunnale del tempo, risalgono ancora le frecce e l'epistola. Sono remoti diletti che avvalorano il trascendente resto dell'amicizia. 7 dicembre 1967 Questo diceva la lettera dimenticata: — Quando ci rivedremo, in dimensioni ausiliarie staglieremo l'ora dell'angoscia distintiva, riportando il canone geroglifico alla sostanza del mondo... - Così conoscerai i limiti inestesi della solitudine e apprenderai la rara lacuna del tempo. Ma subito si adeguano le falangi temporali e apprestano sovvertimenti e quiete. 11 dicembre 1967 Il castello marino vicino all'assoluto fu il luogo nuovo della nostra intelligenza. Negavi ancora le successive verità e ritraevi la promozione di ricordi irraggiungibili. La tua sapienza era allora più alta della mia tristezza, e l'inquietudine, tolta dai suoi ripari esistenziali, percorreva gli ordini inesauditi del desiderio. Questo si deduceva da lontane azioni, insieme a te edificate. Ora tu lasci incompiuta la nozione dell'esistenza, e l'opera stessa sul tempo. Così il continuo simulacro da te aggiunto alla vuota divisibilità, riprende la numerazione della statua sostanziale. 14 dicembre 1967 Se andavamo per le costiere grigie e matematiche, era per udire il concavo suono dell'eternità e rivedere la cava icona dell'assoluto. Quelle corse sui moli nell'ora più profonda della notte non furono soltanto l'inganno premeditato ai danni del tempo, ma l'agguato glorioso ritenuto prima ancora della conquista dell'attesa. Poi radunammo le immagini del mare e rapimmo ogni altra visione. Le folle acclamarono contro di noi il privilegio degli oggetti e rifugiati su altane inaccessibili pensavamo solo a risplendere a uno a uno. Non si poteva definire altrimenti l'elongazione, spenta alterità da me. 18 dicembre 1967 L'atto giudicato fu compiuto nella perseveranza di un assioma tanto sottile quanto enigmatico: recuperare gli splendori maggiori e la risoluzione della forma. 21 dicembre 1967 Quando fu collocata l'attesa, la meta simbolica del tempo, divenne favorito per primo il giuoco eidologico; così proponevi il novero dei giorni, e la raccolta astratta delle azioni. Solo un modello di causa conta le differenze del desiderio. 25 dicembre 1967 Avrei ripetuto le parole canoniche nella ricerca del linguaggio segreto, eppure il tempo non sembrava risalire alle sue induzioni allegoriche. Il simulacro che già avevi prescelto questa volta mi offriva con la destra una sfera grande d'argento e una piccola con la sinistra. Altre figure diversamente stavano disposte. Allora riconobbi le misteriose statue del rivedere. Era segno ormai di cedere, e scoprire il fausto capitolato del mare. 28 dicembre 1967 Avevi attribuito a un globo irreale le proprietà del tempo, e ne deducevi le chiuse conseguenze: così, quando ti avvertivo dello splendore del pericolo, estendevi ancora la tua meditazione sui margini dell'inaudito. Questi singoli eventi erano fonte di successive glorie minori, continue indagini separate. Diviso il significato, attendevamo di ritrovarci in ulteriori attese. Se gli affetti si disgiungono, quanto aumenta la compensazione dei ricordi! Altresì ambivalenti limitazioni comportano il crescente profilo della tristezza. 31 dicembre 1967 La translunare condizione posta all'inizio dello spazio sembrava preludere ai giuochi falontini, alle decisioni subito regredienti. Per questo osservavamo il paesaggio nella sua luce orientale, e l'indagine assumeva l'assorta geometria del pensiero. E quando il termine fosse giunto ai fasti primitivi dell'idea, avremmo anche risolto la contraddizione del mondo. Se la natura interviene nel nostro dialogo, l'assunto del pensiero si configura presto in rapidi vertici assoluti. È proprio del tempo celare solo l'armonia dei predicati e rivelarne l'agguato.
Scritto da G.Cerrai
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