Martedì, 19 luglio 2016![]()
E' passato qualche anno da quando, nel 2010, ho pubblicato su questo blog una piccola silloge di Greta Rosso, intitolata con una certa ambizionePoesie a Dio (v. QUI). Nel frattempo
Greta ha scritto diverse altre cose, compresa una raccolta inedita, La tormenta, finalista al Premio Montano di quest'anno. Se nel 2010 avevo
segnalato qualche incertezza e qualche testo di indubbio valore, questa raccolta dello scorso anno mi pare, almeno dal numero dei testi che ho annotato e
che meriterebbero di essere riproposti, un notevole passo avanti, soprattutto nel senso di una maggiore consapevolezza di obbiettivi e di modalità
espressive.
Articolata in tre sezioni (un complesso sistema di eventi intempestivi; fingemmo di scaricare le unghie, scriverci in petto; il nostro amore al di fuori della legge) anche questa raccolta esplora uno spazio personale e intimo, un altro di quelli che io chiamo "universi ristretti", nel quale Greta si muove bene,
registrando sollecitazioni antiche e nuove. Lo spazio è ristretto anche fisicamente, sostanzialmente domestico, custode di momenti o visioni o accadimenti
che essendo domestici dovrebbero portare in sé qualcosa di familiarmente confortante e invece spesso - e questo fa parte della poesia come linguaggio di
relazioni - fungono da agganci o trampolini per salti di riflessione, per diversioni centrifughe su toni nostalgici o di rimpianto, o diventano scenari per
un soliloquio interiore. Il passaggio spesso avviene per intenderci dal concreto, dalla nominazione del reale ad una articolazione astratta del pensiero,
come una sfocatura dello sguardo che si ritrae nel pensiero stesso, perdendo di vista l'oggettualità (e del resto le cose sono "impilate in mucchi a
dissolvere"). Altre volte avviene un percorso inverso, dalla riflessione malinconica o dal rimpianto verso un oggetto, visto però in funzione simbolica o
metaforica, in una specie di trapasso dal ricordo - per esempio - a qualcosa che non solo è concreto ma è anche costante o ciclico, cioè qualcosa che
segnala il tempo, in qualche modo lo misura (la neve, spesso presente, tanto per dirne una), quel tempo che, per capire, "mi tolse il padre e mi diede il
temporale a / tuonare fra le mani". O ancora il paesaggio come topos esistenziale da trascendere emblematicamente ("malauguratamente non siamo una /
spiaggia in inverno nella quale uomini / col berretto calato sulla fronte cerchino / monetine"). Naturalmente questi passaggi sono il terreno privilegiato
del linguaggio, una lingua poetica puntuale che Greta utilizza in genere molto bene, nella quale a volte - raramente - si perde, specie quando scivola su
un côté simbolista e involuto, dal riflesso esistenziale però intimo a tal punto che il lettore rischia di rimanere fuori della porta (es. in un dolore riparato ad aghi, un divenire); ma comunque una lingua che serve essenzialmente a far bene il suo lavoro, quello cioè di legare, annodare, contenere in una rete di lunghi filamenti l'insolubile, per definizione ciò che non può essere disciolto o slegato, sia esso un legame chimico o sentimentale o qualcosa da cui, alla fin fine, non si vuole davvero essere
liberati, come "un prurito dell'arto amputato". In effetti il ricordo è, nella maggior parte dei casi, qualcosa di irrinunciabile, che non ci abbandona non
ostante gli sforzi, e l'obliare per un poeta credo sia il peggiore dei mali perché significa tra le altre cose obliare una lingua madre, quella
emotivo/affettiva che nel caso di Rosso è elemento base, mi pare, della sua poetica in fondo nostalgico/romantica, e della sua scrittura. Al di là del
tecnicismo à la mode del titolo, qui non c'è niente di pratico, di
pronto all'uso, anzi - come suggeriscono i titoli delle sezioni, molto più eloquenti - il tema è quello della varianza, della aleatorietà, della "finzione" (anzi
"un'ipotesi di finzione", come scrive Greta), del caos o "disordine" che si voglia, degli inciampi (skàndala) che sregolano i rapporti, per lo più
variamente sentimentali (che sia il padre scomparso o un uomo), che incappano nella vita, spesso dolorosamente. A ciò che "accade", sopravviene o viceversa
nelle aspirazioni non arriva mai (come quel "amore mio ancora fatto in un’altra / maniera che non mi sogno nemmeno"), il linguaggio selezionato, asciutto,
controllato ma fluido di Greta tende ad opporre il suo ordine, la sua linearità, la sua soluzione, anche nel senso di "legami", di patti riscritti con quell'io non arrendevole, non disposto a defilarsi che è costante in tutto il volume. Nella
consapevolezza (o speranza, o obbiettivo) che la scrittura sia un ricondursi, un ricongiungersi "al nucleo (in cui / eravamo infine irrimediabilmente /
uniti)". (g. cerrai) Continua a leggere "" Giovedì, 4 febbraio 2016Sguera e Aprile: Il mondo caotico e il sublime, nota di Rita Pacilio Per Aspera poesie 1990/2010 di Nicola Sguera - Delta3, 2013
La parola si respira, respira e a noi si impone come viva e urgente: in quanto necessaria è oltremodo esigente. Da un lato ci chiede ascolto e
partecipazione, dall’altro scava dentro l’atto mistico e simbolico della complicata realtà. La raccolta poetica dal titolo Per Aspera poesie
1990/2010 di Nicola Sguera per i tipi editoriali Delta3 - 2013, venuta alle stampe nella collana Pugillaria diretta da Paolo Saggese, conferisce,
all’acuto lettore, il contrasto vissuto tra la consapevolezza e il dolore nostalgico dell’essere umano che eleva lo spirito a un grado catartico, verticale
e illuminante. Nelle cinque sezioni si succedono, in una metrica moderna e arguta, metafore laiche e cerebrali a versi altamente spirituali che rimandano
ai testi di Luzi, Turoldo, Bonnefoy e Rebora. Il potere trascendente e le sostanze concrete delle realtà passano attraverso tematiche che riguardano
l’amore, il ricordo, l’immaginazione e la morte. Il caotico mondo, correlato di oggettività, non si ripiega su se stesso, ma, attraverso la mente del
poeta, si riconduce all’epica della felicità, condizione auspicabile quando si celebra l’anima e l’energia vitale. La morte e la vita sono certezze a cui
soccombe il mondo convertito al pensiero nobile e poetico e solamente la pulsione del riscatto, della pace donata dal Dio della speranza e della
resurrezione può giustificare il sacrificio del buio, della paura, del dubbio. (rita pacilio)
Come le chiese mattutine vuote di uomini e inferno. Come i cimiteri invernali, pieni del canto di passeri su cipressi che si curvano al vento come monaci zen. Passi lievi, fiammelle rosse accese per la notte.
Sarà lunga la notte, quanto la vita stessa. È fredda la notte, ma si spera qualcosa fino a quando la fiamma brucia e cola la cera sulle tombe bianche, sulle ossa stanche. Continua a leggere "Sguera e Aprile: Il mondo caotico e il sublime, nota di Rita Pacilio" Venerdì, 22 gennaio 2016Mauro Sambi - Diario d'inverno
Non lo so con certezza ma credo che questo sia il secondo libro di Mauro Sambi - a parte un'antologia pubblicata da Campanotto in cui appare - dopo il bel "L'alloro di Pound" di cui ho pubblicato qualcosa su IE (v. QUI) nel novembre 2010. Sambi rimane fedele a sé stesso, anche in questo libro, e questo è un bene, perchè la lettura - è una prima ma non banale impressione - restituisce una familiarità di non poco conto, una leggibilità assoluta. Si resta o si ritorna come a casa, in un'aria tersa e complicata insieme che conosciamo bene, in cui quel che c'è da dire viene detto con una apparente semplicità lessicale e metrica che invece è frutto di un lavoro niente affatto facile. Sambi ha scelto la tradizione fin dall'inizio, non credo che nemmeno si sia posto il problema di organizzare diversamente la sua ispirazione, non aveva niente da rovesciare soprattutto perché quella tradizione ammirata, soprattutto quella italiana della grande poesia novecentesca, lo ha accolto, lui istriano di Pola. Come ebbi a dire in altra occasione, la sua non è una poesia "di confine", anzi, anche in questo libro, lo sguardo poetico è fermamente "europeo" perchè intriso di una cultura più vasta, raffinata e del tutto priva di epigonismi. Hic manebimus optime, potremmo dire con Livio (e anche con Montale). E infatti Sambi sta saldamente all'interno di una convenzione ad includere, non ha la minima intenzione di forzare il perimetro, i confini di un ambiente che poeticamente lo conforta e rassicura. Anche la forma, qui fondamentale, guarda alla
tradizione senza infingimenti. E' il sonetto che la fa da padrone, quasi
ovunque, spesso quello shakespeariano (4-4-4-2) mutuato attraverso le
traduzioni che Sambi ama fare del Bardo (ce ne sono diverse già ne L'alloro di Pound),
una forma chiusa che, insieme al classico sonetto 4-4-3-3, abbandona
raramente. Ma è certamente anche una scelta di rigore, di disciplina
quasi scientifica che corrisponde al carattere dell'autore, come già
aveva notato Gabriella Musetti nella prefazione a L'alloro di Pound.
Insomma, come scienziato (Sambi è è ordinario di chimica generale e
inorganica a Padova) lascia la sperimentazione ad altri campi,
preferendo semmai la raccolta di sentimenti o suggestioni che passa
sempre al setaccio culturale, per lui irrinunciabile, che le intride e
le riempie di echi. Il libro percorre un tragitto, un prima durante e
dopo di un viaggio, una storia affettiva e sentimentale tra Padova e
Oxford e dintorni, una andata e un ritorno malinconico perché forse il
ritorno è anche un distacco. Il nucleo centrale della raccolta è la
sezione "In illo tempore" che riguarda appunto la permanenza in
Inghilterra insieme alla persona che lo accompagnava, tutta descritta e
scandita, come si conviene all'indole poetica dell'autore, in chiave di regret
shakespeariano. E' qui a mio avviso che si trovano i testi migliori,
bilanciati tra narrazione (dei luoghi, dei fatti) e ascolto di
sentimenti e percezioni, sempre affrontati con estrema leggerezza. Il Diario d'inverno è il diario elegiaco di una stagione metaforica che volge al rimpianto e alle ombre, di uno "scontento" - per usare ancora le parole del Bardo - forse in attesa di una nuova "gloriosa estate". Se il libro mostra qualche debolezza (ma è poca cosa) rispetto alla cospicua prova de L'alloro è
forse perché, io credo, c'è in Sambi, quando parla più intimamente di
sé, una sensibilità e una necessità di difesa a cui fa fronte da una
parte la cultura come elemento, come dicevo, di rassicurazione,
dall'altra una discrezione (o forse una timidezza) che un pò filtra i
suoi versi, li protegge da tracimazioni emotive. Del resto è certo,
perché sono parole sue, che la poesia necessiti di una "gabbia" (v. post
citato). E non è un caso, ancora, che il libro sia dedicato "al Doppelgänger", il doppio, l'altro da sé e in sé, lo specchio che si osserva con timore e attrazione. Ma resta indubbio il suo valore poetico (v. ad es. l'ultimo testo qui presentato), e il fatto che nella
sua poesia risieda (sempre citando Musetti) "una
interrogazione pacata ma non per questo meno profonda", soprattutto
quando parla d'amore, luogo - secondo l'autore - di un limite "che porta a sfiorare il confine tra tempo e non-tempo, ma contemporaneamente ne sancisce l’invalicabilità". (g.c.)
Continua a leggere "Mauro Sambi - Diario d'inverno" Lunedì, 28 settembre 2015Marina Pizzi - Plettro di compietaMarina Pizzi - Plettro di compieta - Lietocolle 2015 Compièta, nella Liturgia delle Ore della Chiesa
cattolica, è l'ultimo atto di una giornata di preghiera, dopo i Vespri.
Si recitano salmi e si cantano inni prima di andare a dormire. Domani è
un altro giorno, e si ricomincia da capo. Ma se per caso il domani non
dovesse arrivare, l'anima sarà salva. E' dunque una metafora del
compimento di una vita ammodo, almeno dal punto di vista dell'anima,
cominciata con il mattutino, all'alba, una specie di ri-nascita. Non so se Marina Pizzi avesse in mente qualcosa
del genere quando ha raccolto questo libro, pensasse di "suonare" a modo
suo, col suo plettro, una parabola che si avviasse a qualche
compimento. Ho qualche motivo per dubitarne, come pure del fatto che in
questa poesia lei intenda trasfondere una serenità benedettina. Non
escluderei invece una vaga allusione a qualcosa d'altro, una pietas di substrato che dovrebbe essere di ogni poesia. In fondo le speculazioni sui titoli espongono a qualche pericolo di misunderstanding,
proprio come avviene in finanza. Mi sembra invece più significativo il
sottotitolo, "Novantanove poesie 2008-2014", che credo racchiuda un paio
di indicazioni, una sul carattere di "raccolta" o canzoniere,
abbastanza insolita per Marina, che a sua volta stabilisce dei confini
temporali, un prima e un dopo; l'altra sul costante fascino che i numeri
hanno su di lei (quel "novantanove" ammetto mi ha fatto sorridere), con
la loro infinita serialità (e infatti non vale dividerli in quattro
sezioni come in questo libro) e - infine - l'eternità che racchiudono in
sé. Spessissimo infatti i suoi libri sono un insieme di testi
numerati secondo la serie cardinale che lasciano sempre una sensazione
di work in progress, di qualcosa che termina solo
momentaneamente. Del suo stile, della sua scrittura, del suo sistema
metaforico e immaginativo ho scritto in diverse occasioni (è possibile
recuperare quegli interventi, che vi invito a leggere, tramite questo TAG), e qui aggiungerei solo alcune cose. di rinterzo. Per quanto possa apparire strano, per me e per chi
conosce Marina, la prima cosa che risalta è la vena lirica che
attraversa tutta la raccolta,e mi pare che le poesie che ho scelto lo
dimostrino. E' apparentemente qualcosa di inedito, che tuttavia
tornerebbe con quello che si diceva del titolo, cioè come un modo di
ripensare le cose sul far della sera (e a ben vedere questa vena, molto
ben mimetizzata, è riscontrabile in tutto il suo lavoro). Mi pare nel
complesso che la nota agra e "arrabbiata" che persisteva nella poesia di
Marina, la sua diuturna lotta con il mondo, con il malessere del
vivere, con le delusioni e le perdite, in questo libro si siano
variamente mitigati, non per rassegnazione ma forse per una diversa
coscienza di un limite intrinseco alle cose, alla vita stessa contro cui
alla fine è inutile continuare a sbattere, per il riconoscimento di una
qualche sensatezza nelle cose che accadono, di una loro leggibilità.
Certo, il linguaggio continua a richiedere al lettore la dovuta
attenzione, continua la lotta di Marina con le parole per estrarne con
certa violenza l'indicibile, anzi per addossare ad esse una ulteriore
significanza, una responsabilità, forse una colpa; continua il
coagularsi dei testi intorno a parole feticcio (animula, ascia, gerundio, cipressi, meringa ecc. che non di rado
rimbalzano da un testo all'altro, e a volte deragliano) e in brevi ma intense immagini in cui
l'occasione (l'ispirazione) si contorce in visioni spesso di un
surrealismo inquietante alla Max Ernst, ma sostenute da un
sottofondo musicale segnato da non rari endecasillabi o almeno dalla
scelta di sonore parole piane in chiusa del verso. Dal punto di vista
della lingua poetica Marina non è mai stata una autrice "facile", come
certo non lo era quella che ritengo il suo nume tutelare, Amelia
Rosselli. E' sempre necessario, leggendola, cercare di individuare un
nucleo, una associazione per quanto astratta, una metafora in genere più
concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica ("mia madre è
stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di vita"), il
suo linguaggio è - mutuando il concetto dall'informatica - di basso livello,
cioè molto vicino alla "sorgente" del pensiero, umano o di macchina che
sia, ma anche ad una percezione quasi nervosa del dolore e della
"privazione" (intendendo questo termine in senso ampio). Certo questo non significa che quella di Marina sia "solo" una scrittura effusiva, sorgiva o "automatica". Credo che ci sia dietro anche un intenso lavorio, spesso ansioso e insoddisfatto, ma che questo lavorio consista appunto (e qui forse sta il suo valore di ricerca) nel mantenere un equilibrio, in bilico sul fulcro di quel livello espressivo di cui dicevamo, tra "sorgente" e comunicazione, un equilibrio che sembra per lei vitalmente necessario, al di là di eventuali compromessi con chi legge. Se c'è un punto critico, come ho scritto altre volte, è quello di una serialità stilistica, di una "maniera" o modulo replicabile, una specie di labirinto borgesiano di cui i compatti testi di Marina costituiscono le pareti. Ma forse anche quello è a sua volta significativo di una impossibilità, di una mono-tonia del tempo, di una invariabilità, di una "meccanica" dell'esistenza. O forse è solo un modo di vivere (e di vivere la poesia) a cui è difficile sfuggire. (g.c.) Continua a leggere "Marina Pizzi - Plettro di compieta" Sabato, 28 marzo 2015![]() La golena, come sa chiunque viva come me vicino ad un fiume, è un più o
meno vasto terreno di incerta proprietà tra acqua e argine, una specie
di terra contesa spesso occupata "abusivamente" dall'uomo con
piantagioni, orti o costruzioni, e di cui talvolta il fiume si
riappropria con qualche violenza. Ripensavo, leggendo questo bel libro
di Elia Malagò, bello anche come "cosa-oggetto" (parole sue, ed è
vero), che anche la vita, lo spirito, il corpo, i rapporti, hanno le
loro golene, i loro luoghi incerti e tuttavia familiari, di incerta
attribuzione (perché comuni a molti che vi hanno abitato) e tuttavia
popolati di personali ricordi. Un territorio quindi che assume, nella
scrittura, una funzione metaforica senza però allontanarsi troppo da una
concretezza - anche di parole - in cui si possa affondare le mani. Una
specie di cassa di espansione in cui l'esistenza, e il dolore, possano
esondare, trovare un loro spazio di riflessione.
"Le parole sono del 2012" - avverte Elia in una nota - "e sono il
diario di un dolore; le interrompe il terremoto del 20 maggio". Del
dolore, noi lettori, possiamo solo immaginare, pochi sono gli indizi,
sparsi in alcune poesie molto belle, ma dobbiamo - lo dico subito -
tenerne conto, perchè sono "dolori senza nome", che talvolta "ti
impiccano a una parola / che non sale" e vanno, nella lettura,
percepiti per vicinanza, vanno spigolati tra i versi. I dolori inoltre
sono ferita aperta che si ripercuote sul fare poesia, ombre a cui la
poesia senza distinzioni deve trovare un luogo di riposo: "e così ho
conosciuto il mio male / trovare un posto a tutti i dolori con la
rigidità / dell'uguaglianza a prescindere" (in sotterraneo); il
terremoto invece, che nei testi non traspare ed è quello che colpì
l'Emilia, fissa soltanto una data in cui il lavoro si interrompe, forse
quando la terra riporta ad una diversa realtà, più elementare e
immediata. E tuttavia anch'esso rammenta che quella terra padana esiste
ed è parte imprescindibile della poesia di Malagò.
Una terra con cui il rapporto è diretto e non ha niente di strapaesano,
è semmai il luogo degli affetti e dei dolori, e soprattutto il luogo
del mondo in cui ci è stato concesso di essere e di essere stati. E con
la quale nemmeno si ha un rapporto mitico o mistico, cercando piuttosto
di preservarne, pur con la sua ancestralità e non pochi Lares, una
attualità, un "adesso" persistente che li salva. Una attualità
"resistente" che a me pare, almeno in questo libro, distante e diversa
da quanto affermava Maria Grazia Lenisa (ringrazio Marzia Alunni di
questa nota): "Il presente, se pure tutto venga riportato ad esso, anche
nell'uso delle forme verbali, è assente ed è in questa dimensione di
presenza-assenza che si colloca l'atteggiamento poetico di Elia Malagò,
alcuni miti o archetipi: eros- fanciullo di morte, il senso di una morte
ingiusta perchè ingiustificata; il ritorno all'utero materno, causa
dell'inspiegabilità del mondo in cui la donna vive e che è, nello stesso
tempo, una possibile risposta agli interrogativi sollevati appunto
dalla nascita" (in L'alterità immaginata, Forlì 1986). A mio
avviso lì Lenisa individuava un ripiegamento, in questo libro invece mi
pare di intravedere qualcosa di diverso, e non a caso ho parlato di
attualità resistente.
E' chiaro, come dicevo prima, che il territorio, la campagna, il Po
hanno poi un senso tropico, traslato e non sono certo l'unico
costituente del libro, rappresentandone caso mai il canovaccio, l'ordito
(che è anche il titolo di una delle poesie) o se preferite quella
scatola dei ricordi che tutti i ragazzi hanno avuto sotto il letto. E
tuttavia, come dicevo prima, la distanza metaforica non è accentuata,
non è vaga o spostata mai troppo verso il correlativo, sia perchè dalla
visione di Elia di questo territorio, fisico e dell'anima, di questa
natura e di questi accadimenti traspare sempre uno sguardo intimamente
femminile, "materno"; sia perché è il linguaggio stesso ad essere spesso
concreto, materico. Elia possiede una grande capacità di muoversi e
scegliere tra le possibilità retoriche della lingua. Inutile occuparsi
di quante figure Elia riesca a mettere in gioco, articolando il suo
pensiero poetico, ma è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o
nulla al caso, la sua è una scrittura esatta, in cui gli oggetti sono
nomi, alcuni dei quali anche arricchiti da una sonora nuance dialettale,
segno di un legame anche con una certa koiné, tra lingua e terroir.
Una scrittura nella quale è agevole trovare un sentiero nel tessuto
delle parole, un filo rosso che attraversi tutto il testo, spesso verso
finali sospensivi, come filari di pioppi che sfumano nella nebbia
padana, appoggiandosi sia alla capacità evocativa, sia a una funzione
emotiva spesso potente (v. ad es, più oltre Meopà). E però una
scrittura non certo tradizionale, anche se appartenente a una
generazione letteraria, della storia, del gusto che parla un linguaggio
forse felicemente alieno (e certo come vedremo più resiliente)
rispetto a certe espressioni poetiche odierne, una scrittura soggetta ad
un lavorio costante, dimostrato anche dalle varianti agli stessi testi
presenti nel libro, come a quel Fondale che pubblicai tempo fa (v. QUI).
Ma certo l'idea più forte di questo libro, l'idea che Elia persegue
anche in altre opere, e che spesso riesce ad afferrare, è quella di una
capacità, anzi di un piccolo potere etico-politico che la poesia ha o
che dovrebbe darsi. Resilienza, una parola che Elia ama molto e che
ogni tanto appare. E' questo il vero nocciolo duro della poetica di
Malagò, nessun velleitario strappo o balzo in avanti, nessuna "ricerca"
che non sia un'ulteriore scoperta di una sfumatura, una piega, qualcosa
che era sfuggito nel ricordo. Resilienza è un termine mutuato dalle
scienze e significa non solo la capacità di un materiale di resistere
alla rottura dinamica, ma anche quella di una società, di un gruppo, di
un ecosistema di recuperare più o meno velocemente le condizioni
sconvolte da un evento. Ma in Malagò, come in pochi altri autori, il
senso vero del termine, come un valore aggiunto, è quello di resistenza,
una resistenza connotata da un atteggiamento di voluntas attiva, una
accanita e gelosa difesa del sé, inteso nel senso più ampio del termine.
Ecco quindi che anche un fiume, un vecchio muro, una golena, un vento
tramontano possono assumere (e qui si torna al valore "tropico",
traslato, delle cose) un significato "esteso" che travalica quello
meramente oggettuale. Resilienza è termine che appare anche nella breve
prosa di apertura, una dichiarazione di poetica utile più di tante
prefazioni. Dice Elia: "la poesia è per me quello che resta delle
lacrime del mollusco per spazzare o avvolgere il granello di sabbia che
gli si conficca dentro (...), un peduncolo sottile che mantiene saldo il legame
con il fondo (...). La conchiglia, alla fine, è il dono che altri, se
vorranno, avvicineranno all'orecchio per sentire restituita la propria
voce forte dell'eco delle parole in attesa (...)". Ecco qua (i
corsivi sono miei), in sintesi: ferita, dolore, risarcimento e cura;
legame (ma anche ancoraggio) a un sostrato di vita fondamento
dell'identità personale; scrittura, rinvenimento e richiamo alla luce
delle "parole per dire", quelle che sopravvivono pazientemente nel
profondo, quelle parole, dice a un certo punto Elia, "legate con la
raffia e silenzi". Sono questi i compiti e insieme le responsabilità che
Malagò assegna alla poesia, la resilienza che essa è capace di
esercitare. Come mi scrisse tempo fa: "dobbiamo solo riprendere le
parole e la loro lezione: la resilienza". E potremmo aggiungere un altro
suo pensiero: "Metto mano a parole così antiche da non esistere quasi
più. (...)La manomissione è ridare l'innocenza alla parola, lo spessore e
il colore e l'ombra che le è stata rubata per togliere l'innocenza a
ciascuno di noi, dal momento che siamo le parole che abbiamo" (da Incauta solitudine, Passigli 2010, libro di cui spero di tornare a parlare).
C'è però, anche per questo lavoro etico e "politico", la necessità e il
coraggio di calarsi, di "affondare" in una materia che non può essere
trattata superficialmente. Si profila allora un'altra idea forte, un
topos ulteriore che mi pare di poter identificare nella poesia di Elia:
l'annegamento, altra parola densa che ricorre. E' quella sospensione del
respiro, quell'apnea che è sfida e tentativo di stabilire un limite di
rottura, cioè - ancora - una resilienza. Anche qui, ovviamente, c'è una
funzione metaforica, un'iperbole di qualcosa che è reale vissuto, parte
del rapporto di Elia col fiume, magari in qualche estate di tuffi: fin
dove possiamo spingergi, a quale profondità, fino a quale soglia del
dolore? Ed anche, fin dove può scandagliare il pensiero che ripercorre
le cose, nell'acqua, nel liquido amniotico (e qui forse Lenisa ha
ragione parlando di utero materno), nell'intimo silenzio liquido rotto
solo dall'acufene, un barotrauma, un disturbo dell'udito, altro termine
che affiora, qualcosa legato strettamente all' "annegamento", all'apnea?
Non è quindi un caso che uno dei testi che contiene questo riferimento
all'annegamento si titoli appunto "resilienza" (V. oltre).
Certo molte altre sarebbero le considerazioni da fare sulla poesia di
Elia Malagò, e spero di averne l'occasione, ma almeno queste due cose
mi pare che siano fondanti e necessarie da avere a mente nella lettura
di questa raccolta che non è solo di poesia ma anche sulla poesia. "Libro-conchiglia", dono da portare all'orecchio, eco di parole in attesa. (g.c.)
Continua a leggere "" Sabato, 30 agosto 2014Daita Martinez - La bottega di Via Alloro, nota di Rita Pacilio![]()
Daìta Martinez, nel libro di poesie La bottega di via Alloro, edita LC, 2013, accompagna il lettore, utilizzando elementi narrativi ed evocazioni di cose, luoghi, emozioni, in un reale vitale topograficamente identificabile. Si tratta di una bottega che un tempo era situata in via Alloro, nella zona del centro storico di Palermo. Come spiega il prefatore Nicola Romano, via Alloro ‘prende il nome da un rigoglioso albero di lauro (simbolo arcaico e augurale) che fino ai primi anni del 700 verdeggiava nel cortile d’un prospiciente palazzo nobiliare … dove oggi residuano soltanto antichi palazzi in parte restaurati, magazzini abbandonati, botteghe artigianali e qualche negozio, è per evidenziare che, nonostante sia cresciuta tra il richiamo di vetrine scintillanti di moda … ’ l’autrice prova un sentimento nostalgico. Martinez confessa la sua natura perlustratrice e conoscitiva e lo fa con movimenti metaforici che richiamano forme raffinate della poesia ermetica e intricata del novecento. L’uso del simbolismo e spesso del surrealismo consentono al verso un’esaltazione sonora ben riuscita che fa assaporare al lettore i cromatismi della pregiata tecnica versificatoria. La visione delle cose restituite e riconosciute in modo contrastato, a volte inespresso con parole nominate in spazi visibili ed echeggianti, linguisticamente impenetrabili, è collocata in luoghi e spazi perfetti perché pronunciata nel mistero emozionale della parola ‘via’. La ‘via’ per Martinez ha la definizione consolatoria della ri-creazione del mondo inteso come condizione umana in una situazione di continua percorrenza, di perenne cammino. ‘Via’ come vita che incarna bellezza lungo un viaggio che riprende l’accudimento degli esseri viventi e persino degli assenti, cioè di coloro che in quella bottega sono ‘passati’, hanno amato, medicato, creato, ritrovato, incontrato, riconciliato anime. L’esperienza dell’incontro è il tema dominante dell’intero percorso di questo lavoro poetico che si immerge nella scrittura contemporanea con un peso specifico significativo. Riaffiorano attese, storie, personaggi, alcuni particolari della quotidianità, della molteplicità, corrispondenze, destini che rimandano a creature e immagini della natura che assumono forme e stati d’animo. Intravediamo emozioni, sapori, odori, atmosfere, misteri, luci, temi, preghiere, desolazioni, sconfitte, disillusioni, cose lievi, riferimenti alla memoria inconsolabile di cose che non ci sono e non accadranno più. Resta visibile, invece, la diversa prospettiva di chi rimane nei paesaggi modificati, nelle appartenenze del ricordo, i volti della metrica che sviluppano geografie contrarie, eppure simili, animando sensazioni e ritmi quasi a pulsare i cuori di chi passa, guarda e qui, legge. (rita pacilio) Continua a leggere "Daita Martinez - La bottega di Via Alloro, nota di Rita Pacilio" Venerdì, 16 agosto 2013Daniela Andreis - La casa orfana
|
AmministrazioneRicerca veloceARCHIVIO GENERALERecent Entries
Tagsadelphi editore, adriano spatola, alain jouffroy, alessandra sciacca banti, alessandro assiri, alessandro de caro, alfonso berardinelli, alfredo riponi, amelia rosselli, andrea inglese, angèle paoli, antologia, antonio porta, arcipelago itaca, areale italiano, arte contemporanea, avanguardia, bernard noel, bologna, camera di condizionamento operante, carla paolini, caterina davinio, chiara de luca, copyleft, corrado costa, critica, czeslaw milosz, daniele poletti, daniele santoro, danilo mandolini, davide castiglione, davide nota, derek walcott, diaforia, diego conticello, dino campana, domenico ingenito, dominique sorrente, dotcom press, ebook, editrice pequod, edizioni arca felice, edizioni arcolaio, edizioni cfr, edizioni joker, edizioni kolibris, edizioni lietocolle, edizioni oèdipus, edizioni progetto cultura, elia malagò, elisa castagnoli, emilio capaccio, emilio coco, emilio villa, Enrico Cerquiglini, enrico de lea, enzo campi, eugenio montale, eventi, fabio orecchini, federico federici, filosofia, fotografia, francesco balsamo, Francesco De Girolamo, francesco iannone, francesco marotta, francesco muzzioli, franco fortini, gabriel del sarto, gabriella musetti, gemellaggio, georges bataille, ghérasim luca, giacomo cerrai, giampaolo de pietro, gianfranco fabbri, gianni toti, giovanna tomassucci, giovanni giudici, giovanni raboni, giuliano ladolfi editore, giuseppe samperi, giuseppe scapucci, haiku, hanno detto..., HOMEWORKS, ibrid@menti, ibrid@poesia, il foglio clandestino, incerti editori, inediti, italo calvino, ivano mugnaini, jane kenyon, john taylor, l'impero dei segni, lampi di stampa, la vita felice, le voci della luna, lorenzo mari, lorenzo pompeo, lucianna argentino, luigi cannillo, luigi di ruscio, maalox, maeba sciutti, mambo bologna, marco saya editore, maria pia quintavalla, marina pizzi, mario fresa, marsiglia, martha canfield, massimo pastore, matteo fantuzzi, matteo veronesi, maura del serra, maurizio cucchi, michel deguy, mostra, nanni balestrini, narda fattori, natalia castaldi, nathalie riera, news, note acide, noterelle, oboe sommerso, olivier bastide, palazzo albergati, paolo fabrizio iacuzzi, parole in coincidenza, paul celan, pensiero, piero bigongiari, pier paolo pasolini, pisa, pisa university press, pistoia, poesia, poesia americana, poesia di ricerca, poesia francese, poesia inglese, poesia ispanoamericana, poesia italiana, poesia lirica, poesia multimediale, poesia polacca, poesia spagnola, poesia sperimentale, poesia surrealista, poesia tedesca, poesia visiva, poetica, poeti dell'est, poetry slam, politica fragmenta, premio il ceppo, prufrock edizioni, puntoacapo editrice, questionario, raffaelli editore, raymond farina, recensioni, riflessioni sull'arte, riletture, rita florit, rita pacilio, riviste, roberto ceccarini, roberto veracini, roland barthes, rplibri, saggio, salvatore della capa, sandra palombo, scriptorium, sebastiano aglieco, semiologia, stefano guglielmin, stefano lorefice, surrealismo, t.s.eliot, teresa ferri, tradizione, traduzioni, transeuropa edizioni, ugo magnanti, umberto saba, valeria rossella, valerio magrelli, valérie brantome, video, viola amarelli, viviana scarinci, wallace stevens, wislawa szymborska, zona editrice
|