Sabato, 23 novembre 2013
Qualche considerazione sparsa partendo da uno spunto. Ho scritto qualche
tempo fa su FB: "La parola deve essere decisa". Ora, dei pochi che
hanno commentato, nessuno ha colto un paio di cose essenziali. La prima
riguarda il vocabolo "decisa", la sua intima ambiguità: decisa come
aggettivo qualificativo?, o decisa come participio passato di una forma
riflessiva? Tralasciando il fatto che la frase è nel primo caso
assertiva e imperativa, nel secondo sibillina e sciamanica, l'altra cosa
è che, con ogni evidenza, in entrambi i casi qualcuno deve pur...
decidere, su questa parola: o riguardo al suo carattere (anche le parole
ne hanno), o riguardo alla sua scelta o selezione. Comunque sia il
problema è tutt'altro che marginale, specie in ambito artistico. Siamo
nel campo del paradigma, per dirla con Jakobson (e prima di lui De Saussure), e cioè là dove chi comunica deve selezionare le sue brave parole. Dopodichè deve decidere (appunto) che farne. Deve scendere cioè sul terreno della combinazione delle parole medesime, per farne una frase (sintagma),
un verso o quel che vi pare. Fin qui tutto regolare: in prima battuta
si fa una scelta "sulla base dell’equivalenza, della similarità e della
dissimilarità, della sinonimia e dell’antinomia" (Jakobson), poi si
costruisce la frase sulla base della "contiguità", cioè della
"accostabilità" delle parole, ad esempio in termini sintattici o di
contesto o logici oppure, in ultima analisi e meglio ancora, di
metonimia. Ma Jakobson aggiunge una cosa interessante, in relazione alla
"funzione poetica" del linguaggio: che essa “proietta il principio
d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione.
L’equivalenza è promossa al grado di elemento costitutivo della
sequenza”. D'accordo, ma che significa? Intanto, cos'è la funzione
poetica? In parole povere si ha una funzione "poetica" del linguaggio
quando l'attenzione, la cura, l'accento riposti nella selezione (delle
parole) vengono spostati in maniera rilevante - rispetto al messaggio in
sé, al cosa dire - sulla modalità di
comunicazione, quando cioè "nella concreta esecuzione del linguaggio
‘poetico’ l’equivalenza, la similarità degli (tra gli) elementi (parole,
sintagmi ecc.) prevalgono sulla loro contiguità e cioè sulle regole
stesse della successione" (V. Coletti, voce "Lingua poetica", in
"Treccani.it"). Quindi, in parole povere, la funzione poetica del
linguaggio si prende la briga di ricombinare, di rompere o sostituire la
norma, di scegliere ad esempio sulla base del suono invece che della
logica, di deviare. Ovvero si prende la briga di come dire.
E' ovvio che la poesia non sta tutta lì (è uno dei limiti delle tesi di
Jakobson e dello strutturalismo in genere), c'è naturalmente
dell'altro, e lo dimostra il fatto che la "funzione poetica" è lo
strumento principe per l'invenzione di quegli slogan politici o
pubblicitari, così poco poetici, che ci rompono l'anima tutti i giorni
(del resto lo stesso Jakobson avverte che "ogni tentativo di ridurre la
sfera della funzione poetica alla poesia, o di limitare la poesia alla
funzione poetica sarebbe soltanto una ipersemplificazione ingannevole").
Ma alla fine e in estrema sintesi tutto questo discorso vuol dire che è
il poeta a decidere non solo se una parola "equivale" a
un'altra, ma anche se un costrutto, un suono, un azzardato accostamento
semantico hanno diritto di cittadinanza nel testo, se sono equivalenti
quanto e più di una struttura ordinaria. E' il poeta a decidere il suo
personale linguaggio sregolato.
Continua a leggere "Maalox 6 - La poetica del semiasse"
Giovedì, 12 maggio 2011
L'au toritratto non si confronta più con Narciso né con la profondità psicologica con la quale il pittore attraverso la vista scruta la propria anima e i colpi della vita sulla propria faccia (la drammatica serie degli autoritratti di Rembrandt, l'autoritratto del 1988 (vedi) in cui Robert Mapplethorpe raffigura sè stesso davanti alla morte ecc.). Cartier-Bresson che allunga la propria ombra nella campagna di Provenza in una foto del 1999 (vedi) offre una forma di snobismo nel defilarsi. Lui non c'è, nella foto, o meglio c'è solo la sua ombra, e tuttavia sappiamo che c'è, per via della forza autoriale (e autografa, nel senso pieno) della foto stessa. Poiché, come dice R. Barthes, "ogni fotografia è un certificato di presenza". Il punto è: presenza dove? di fronte a cosa? in quale ruolo e con quale identità? Se Narciso ha deluso sè stesso, l'autoritratto si confronta semmai con la materia, con luoghi/non luoghi, con attività dell'uomo chiuse o abbandonate, con altre culture, con i diversi livelli della realtà percepibile, con sè stesso come consumatore, come osservatore inane della natura, ecc. O con il mezzo fotografico stesso, ad esempio quando - come Cartier-Bresson, Mulas e altri - si usa quello che nella foto turistica è un errore (l'ombra del fotografo dentro l'inquadratura) come elemento descrittivo/linguistico, un "sè". In altre parole l'operatore, il fruitore, il soggetto (rispettivamente operator/spectator/spectrum, secondo Barthes) si confondono, a volte si sovrappongono, diventando inidentificabili, mischiando le carte del gioco (le informazioni, le emozioni). Sì, forse gioco è la parola giusta, come quello che potete vedere nel seguito di questo articolo. Del resto, come affermava Susan Sontag, le foto "sono incitamenti a fantasticare". Come dire, potrebbero essere l'inizio di una nuova opera d'arte, di una nuova immaginazione. Il che potrebbe valere anche per la poesia, se solo ci si ferma a riflettere su alcune delle considerazioni fatte sopra, ad esempio sulla "presenza" dell'autore all'interno dell'opera, o all'esterno, nei confronti della realtà circostante, dei suoi possibili "territori".
(continua qui)
Sabato, 6 marzo 2010
Cosa succede se un illustrissimo poeta ti appare in sogno e pretende di dettarti il "suo" decalogo della buona poesia, suscitando nel contempo il risentimento di un altro poeta non meno illustre quanto irascibile? E' quello che ha immaginato Teresa Ferri, che qui lo racconta.
Così parlò, ma forse un sogno… 10 tesi tra il serio e il faceto (ma non troppo)
È seduto in fondo al letto e sorseggia il suo amato Sangiovese. I baffi si muovono leggermente mentre continuano a gustare l’umido rimasto a colorarli
di un debole rosso. Sembra sereno, perfino pacioso.
"Mi piace il web, sì, quella piazza virtuale (la chiamate così, no?) dove ti vedo passeggiare spesso. Beh certo, non è la piazzetta di Barga, né i
portici di Bologna dove smaltivo le mie sbornie. Ma tu! Te l’ho detto già altre volte, smettila di scrivere nero. Beh sì, io dovrei star solo zitto, lo
so, ma… basto io, non ti pare? Io e Giacomino siamo più che sufficienti. Mica vorrai metterti con noi?”.
Lo guardo nel buio e mi faccio piccola piccola per la vergogna. Ci legge! Passeggia anche lui su Internet. Sì, senz’altro. Ci legge. Dio mio che
vergogna! Cercando di non farmi notare, scivolo piano piano sempre più sotto le coperte, ma anche lì la sua voce mi raggiunge implacabile:
”Dai, non sentirti umiliata, lo sai che ormai sono quasi il tuo papà d’elezione. Esci fuori. Dopo tutto sei una facitrice di versi e da tanto
conviviamo nello stesso Paese, quel foglio bianco che tu, degna mia allieva, aborri forse più di me. Senti. Vorrei farvi un regalo. Il Web ha bisogno
di qualche regoletta che normalizzi il traffico. E io… beh… voglio essere il vostro Mosé e dettarti i miei comandamenti. Anzi, oggi si chiamerebbero
tesi… ecco… le mie 10 tesi. Le bagnerò nel vino, così vi sentirete tutti più a vostro agio. Non vi date pena se vi si dirà che sono comandamenti
d’altri tempi. Tu lo sai che non è così. Ci possono essere mugugni e bofonchiamenti vari, ma voi andate per la vostra strada. Mica tutti sanno che per
fare qualsiasi rivoluzione le regole bisogna conoscerle. Lì da voi poi, sulla terra, oggi non ci si capisce più niente, figurati se possono essere ben
accetti i miei precetti divini. Anche se vi prendessero per pazzi, fate spallucce e passate oltre, ma le mie tavole della legge beh, quelle, che almeno
se le leggano tutti… Poi facessero pure quello che vogliono, ma non mi liquidassero come passatista, perché io sono stato un vero rivoluzionario e so
come si fanno le rivoluzioni. Altro che inconsapevole, come sosteneva Debenedetti…”.
E chi può dargli torto? Non certo io, penso mentre lo guardo gustarsi il suo sigaro, per niente preoccupato di impestarmi la stanza da letto. Zvanì è
sempre Zvanì, e lui lo sa. A lui permetto questo e altro. Anche questo ultimo capriccio.
”E ricordatevi che ogni uvaggio di parole concorre alla produzione di un determinato testo e che ogni testo va adeguatamente decantato prima di essere
offerto al lettore per la degustazione. Ma ora basta. Tra poco devo andare. Eccoti i miei comandamenti, fanne un manifesto e mettilo nella vostra
piazza. Questo è il mio regalo per voi, fatene buon uso”.
Così dicendo, si alza lentamente, poggia il bicchiere sul comodino e in piedi, con tutta la possanza della sua figura letteraria e accademica, Giovanni
Pascoli comincia a dettarmi:
che la scrittura sia:
- strutturata, come un buon vino, e manifesti ricchezza lessicale e varietà di paradigmi semantici, una volta articolata nei vari generi letterari;
- limpida, sì da esibire immediatamente consapevolezza del mezzo linguistico e correttezza formale nell’elaborazione testuale, nonché coerenza con gli
assunti di partenza;
- fruttata, caratteristica di basilare importanza in un vino di qualità e in qualsiasi oggetto letterario. Il testo deve dialogare con la tradizione
e/o innovarla, ma sempre a partire da Modelli che abbiano superato il tribunale del tempo. Nel lettore deve risvegliare echi intertestuali e, nello
stesso tempo, esibire l’originalità del riuso, così come le sensazioni olfattiva e gustativa di un vino dignitoso devono richiamare alla mente quelle
dei frutti integri e ben maturi;
- consistente, facendo intuire al lettore la molteplicità delle componenti che la materiano e, contemporaneamente, dischiudere una serie di orizzonti
di lettura che rendano il testo aperto e non chiuso e ripiegato in se stesso, proprio come la consistenza di un vino fornisce la misura della ricchezza
dei componenti chimici in esso presenti;
- ampia, non nel senso della durata, ma come spazio da cui si sprigionino richiami (di qualsiasi natura) idonei a coinvolgere il lettore e a renderlo
partecipe della messa in scena testuale, sì da farlo co-attore e non ricettacolo passivo di ciò che sta leggendo. Un’ampiezza dunque che ricordi quella
di un vino che, dal punto di vista olfattivo, evidenzi una grande varietà di sensazioni odorose, gradevoli e accattivanti;
- armonica, a prescindere da rigide leggi metriche, ma tale da presentarsi come un’architettura testuale in cui ogni elemento sia coeso e contribuisca
all’equilibrio dell’insieme, o allo squilibrio dello stesso, purché finalizzato alla traduzione di un Senso consapevole e non casuale. Similmente, in
un buon vino è auspicabile che le componenti visive, olfattive e gustative siano in perfetto equilibrio;
- lunga, cioè non sottoposta al marcescibile dell’obsolescenza pianificata tipica del mercato consumistico contemporaneo, né alla veloce estemporaneità
del web, bensì nell’accezione che ha quel vino, le cui sensazioni gustolfattive restino a lungo in bocca dopo averlo deglutito. Un testo tale insomma
da lasciare in chi legga una sorta di traccia mnesica che lo svincoli dagli imperativi del transeunte;
- calda, da non confondersi con una ebbra esternazione dell’emotività privata, ma tale da porsi come familiare al lettore, a prescindere dall’
“enciclopedia” dello stesso. Una scrittura che tra le sue pieghe alimenti dunque la caratteristica dell’universalità, grazie alla quale chi legge può
ritrovare anche le proprie emozioni e/o che faccia rivivere esperienze collettive e archetipi antichi. Una scrittura ‘calda’ proprio come si definisce
quel vino che, per il suo contenuto di alcol, dà una sensazione gustativa di calore;
- fragrante di emozioni filtrate dalle leggi che governano sia la stessa scrittura sia i vari generi letterari, che dia una sorta di sensazione
olfattiva che richiami l’idea della pulizia e dell’integrità dell’acino d’uva, come della parola;
- speziata, ovvero che profumi di passione, di rispetto, di cura e di studio, come un vino di elevata qualità che, sottoposto ad affinamento in
barriques, in quelle piccole botti di tradizione bordolese, odori di particolari profumi di spezie (vaniglia, liquirizia, cannella, caffè, cacao…).
”E ora, prima di congedarmi, ti/vi ricordo un pugno di versi dell’amico Orazio, che mi sta aspettando per bere con me un buon Falerno. Lo dedicherò a
voi, abitanti di un mondo dove c'è ormai ben poco da gustare, insieme a questa citazione dall’ “Ars poetica”:
Omne tulit punctum
qui miscuit utile dulci,
lectorem delectando
pariterque monendo”
Teresa Ferri
(2007)
Contromanifesto
Un colpo di vento improvviso apre le im poste dischiuse e lui, come un ladro, scavalca il davanzale e si posiziona al centro del riquadro della
finestra. Un gran ciuffo di capelli castano rossicci gli ricade sulla fronte in maniera scomposta. Ne noto il colore perché evidenziato da una
sciabolata di luna. Lo riconosco subito. O meglio, ne riconosco lo sguardo penetrante e come invasato. Ho scritto “come invasato”, non “invasato”: non
vorrei cadere anch’io nella facile mitografia del personaggio.
“La Notte è il mio regno e non ammetto che altri se ne approprino. La Notte. Rotte di vele, vele, vele. Porte chiuse nella notte. Botte. Gemma e Luna
van cianciando lungo il fiume. La Falterona, quel cavallone pietrificato, tra i suoi fini capelli vegetali, nelle screpolature della sua roccia,
conserva ancora le mie pie, le mie mistiche voci. E il suono dei miei sandali che ripete la mia melodia. Eterna. Là una Chimera fulva ricorda a memoria
i miei Canti e io, nota per nota, pettino i capelli della mia Regina adolescente. Tu li dovresti conoscere i miei noncomandamenti. Dovresti conoscere
quei miei dorati silenzi… Almeno…”
Scuote la testa e dai capelli piovono parole a dirotto. Sembra nervoso.
”Eppure – continuando – eppure… sei stata a sentir lui, quel piagnone. Ma quello lì ha insegnato latino e greco al liceo, poi addirittura letteratura
italiana a Bologna, è un barone barbogio d’accademia e tu lì, carta e penna in mano, a tener dietro alle sue mattane. Lui ha fatto il suo tempo. Rosso.
Rosso come un fosso. E se volete sapere cos’è, è un fosso arrossato, un rosso affossato. Ma che ne sapete voi dell’ armonia chiaroscurale dell’acqua? E
dell’ancella e della Matrona, che ne sapete? La Trinità. Ecco, del fluire trino del discorso, di questo dovreste dibattere. Ma poi trino? No, infinito.
Come la rotta delle navi, come il coro dei cordami, come quella sgualdrina fascinosa di Genova che parla serpenti nei suoi vicoli stretti e vomita
macchine giù a mare, come cateratte del Niagara”.
Ma cosa sta dicendo? Perché è così infuriato?
”Inutile che tu ti chieda cosa io voglia da te. Ci puoi anche arrivare, per il Kaiser!”
E così dicendo scosta violentemente la tenda della porta-finestra e con un lungo salto mi si fa sempre più vicino.
”Che mai sono tutte quelle frottole che quell’ubriacone ti ha dettato? E ne avete fatto anche un manifesto! Per Soffici e Prezzolini! La mia lunga
notte dovete imparare a memoria, altroché! Lì c’è tutto. C’è musica, c’è disperazione, c’è tutto e il contrario di tutto. Quelle matrone di Spagna
dagli occhi torbidi e angelici… E, soprattutto, c’è il mio genio. Altro che matto! L’amore mi ha dannato, l’amore. Sibilla e le sue corde… E cantatelo
questo amore, cantatelo, come io l’ho cantato. Senza mascherarlo, senza addobbarlo di quell’inutile fronzolame, quegli sdilinquimenti strappalacrime”.
Sfoglio a memoria la sintassi di quel lungo pianto mascherato da inno alla libertà e cerco di rivederlo alla luce dei precetti consegnatimi dal
Pascoli. Beh… i “Canti Orfici” li rispettano in pieno. Quella ridda di pronomi in vorticosa e solo apparente confusione caotica è funzionalizzata a
riportare lo spettro di emozioni che agitano il suo linguaggio macchiato di sangue purissimo, sacro. Foglie d’autunno nel giardino di Boboli.
“Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Ma tu no, né voi, né loro. Nessuno di voi
ha mai visto staccarsi una tortora dal deserto bianco della pagina. Cosa ne sapete mai dei miei uccelli dorati? E delle rive selvagge dove ho ammarato
le mie radici, la mia lingua? Ricordate il mio grido che taglia la Pampa. E le mie osterie…”.
Inarrestabile, continua nel suo flusso orfico, non senza sollevare con un lieve gesto della mano, tutt’intorno a sé, un popolo di ombre senza forma che
sembrano fargli da coro.
“E ricordati delle solitudini della Verna, di quel paesaggio cubista ma non geometrico. Ognuno ha le sue solitudini mistiche e dannate. E gridatele,
per Orfeo! Ognuno ha il suo Inferno e nessuno il Paradiso. Suonate le vostre lire, le vostre cetre, i vostri desideri senza paure. I vostri orrori
santi. La paura è sì una malattia, è la paralisi del cervello. E non date retta a quel piagnone, ma cantate insieme a me. E della mia sintassi impudica
fate il vostro faro. Di coraggio. Osate! Spezzate le catene che vi annodano la lingua, che mummificano la sintassi. Osate! Giù, giù nel precipizio. E
la salita canterà più azzurra”.
Rimango senza parole. Non sono in grado neppure di salutarlo, tanto in fretta dilegua, lui e tutte quelle ombre partorite dalla sua Notte. Lui e la
suprema purità ancestrale del suo linguaggio. Lui, Dino Campana, il vate del più lungo giorno che mai ci sia stato. E delle sue cancrene.
Teresa Ferri
Teresa Ferri insegna “Teoria e pratica del
testo letterario” nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università
degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Nel 2001 ha pubblicato la sua prima
raccolta di poesie Fiori di corallo (Pescara, Tracce); successivamente
Alfabeti a perdere (Roma, Il Filo, 2004); una terza raccolta di
liriche, Campanile d’aria, è uscita di recente per i tipi di Carabba
(Lanciano). Diverse sue poesie e racconti sono apparsi su riviste e in
antologie di poeti e scrittori emergenti. Con Fiori di corallo e con
alcune liriche inedite ha vinto diversi premi nazionali e ha conseguito
varie segnalazioni. Tra i numerosi studi e contributi critici, si
segnalano le monografie su G. Pascoli (Pascoli. Il labirinto del segno.
Per una semantica del linguaggio poetico delle ‘Myricae’, Roma,
Bulzoni, 1976; Riti e percorsi della poesia pascoliana, Roma, Bulzoni,
1988); su U. Saba (Poetica e stile di Umberto Saba, Urbino,
QuattroVenti, 1984); su D. Campana (Dino Campana. L’infinito del sogno,
Roma, Bulzoni, 1985) e il volume Le parole di Narciso. Forme e processi
della scrittura autobiografica (Roma, Bulzoni, 2003). Sia su scrittori
otto-novecenteschi (D’Annunzio, Manzoni, Quasimodo) che su quelli
contemporanei (Bossi Fedrigotti, Conti, Duranti, Lunardi e Tabucchi),
sono apparsi diversi contributi in riviste e miscellanee italiane e
straniere. Infine ha curato monografie, antologie e ristampe di testi
letterari di autori abruzzesi dell’Otto e Novecento (E. Marcolongo, D.
Ciàmpoli, E. Janni).
Giovedì, 29 maggio 2008
Dagli amici di Binasco che si occupano della memoria artistica di Giuseppe Scapucci e del blog a lui dedicato (v. qui) ricevo:
Gentile sig. Cerrai,
le invio il programma (v. qui) della "Settimana della poesia" dedicata a Giuseppe Scapucci, realizzata da un gruppo di amici col patrocinio dell'Amministrazione Comunale, che si terrà a Binasco (MI) a partire dal 31 Maggio prossimo. Questa iniziativa fa seguito alle prime dello scorso Settembre, nate per ricordare la memoria del nostro concittadino e diffonderne l'opera. Come potrà vedere sono in programma diversi eventi, che avranno inizio con un'installazione urbana formata da trenta maxi pagine contenenti poesie di Scapucci e una mostra fotografica con proiezione di una videointervista realizzata col contributo di diverse persone che lo hanno conosciuto.
Gianfranco Salvemini
di Giuseppe Scapucci avevo parlato su IE qui
---------------------
Rina Accardo, sul blog che ha aperto da poco (Lascia che parli il respiro), pubblica un mio breve scritto che mi aveva richiesto come riflessione su uno dei possibili molteplici infiniti significati della poesia (V. qui). Altri interventi o riflessioni lì già pubblicati: Rina Accardo, Marco Ercolani, Antonio Fiori, Lawrence Ferlinghetti. Ringrazio Rina dell'ospitalità.
Martedì, 25 marzo 2008
Un altro articolo,dopo quello dell'11 marzo,inviatomi da Matteo Veronesi, questa volta dedicato al tema, difficile ma gravido di prospettive, della grazia sotto il duplice profilo etico/metafisico ed estetico/artistico. Colgo l'occasione per ricordare un altro importante articolo (Classicità, sublime, avanguardia) apparso su Absolute Poetry nel febbraio 2007 (v. qui). Ringrazio Matteo e segnalo che il link al suo sito è, da sempre, qui a lato.
La Grazia terribile del Verbo
Come ha sottolineato di recente, nella fondamentale voce "Grazia" della rinnovata Enciclopedia filosofica edita presso Bompiani, un giovane estetologo, Martino Rossi Monti, un nesso sottile ma essenziale congiunge la “grazia” intesa in senso etico e teologico e quella intesa sul piano estetico ed artistico.
Se la prima è uno stato che predispone l’anima alla purezza, al candore, alla luce, all’apertura verso il divino nel duplice senso di avvicinarsi ad esso o di accoglierlo in sé, di abbracciarlo con slancio trascendente o come Danae riceverne dalle altezze del cielo il vivificante effluvio, la seconda (enfatizzata soprattutto, in antitesi al preteso “cattivo gusto” barocco, dall’estetica settecentesca, ma già sottesa alla charis, alla raffinata, dotta e studiata eleganza inseguita, in età ellenistica, dalla poetica alessandrina) è, o sarebbe, invece, nell’arte come nel comportamento, nella musica e nella danza come nella parola, qualcosa di non dissimile, forse, dalla “leggerezza” (peraltro un po’ leziosa, stucchevole, scintillante fino all’eccesso) teorizzata dal neoilluminista Calvino nelle Lezioni americane: un carattere di armonia, di equilibrio, di limpidezza, di compostezza e insieme di levità, di alata soavità, di autodominio e di misura garbati, consci, apparentemente spensierati e negletti, e sorretti, invece, da quella che nella teoria dell’esecuzione musicale si definiva “sprezzatura”, cioè dalla capacità di superare ogni asprezza, ogni ostacolo, ogni difficoltà tecnica con una naturalezza e una noncuranza che erano frutto, in realtà, di studio e applicazione assidui (in quest’ultimo senso, l’ideale estetico della grazia non è poi lontano dal precetto dell’”ars celare artem”, dall'ideale di una pascoliana e luziana “naturalezza del poeta” che trae nutrimento e sostegno dallo studio, dalla ricerca, dalla meditazione, e nel contempo le maschera, le alleggerisce, le filtra, fino a dissimularle e a farle quasi scomparire).
Continua a leggere "Matteo Veronesi - La Grazia terribile del Verbo"
Mercoledì, 19 marzo 2008
Di Michel Deguy, uno dei massimi poeti francesi insieme a Bonnefoy e Jaccottet, saggista e filosofo, è uscita la prima traduzione antologica italiana presso Sossella Editore (Arresti frequenti. Poesie scelte 1965-2006, a cura di Mario Benedetti), libro che in parte colma un vuoto di conoscenza nei confronti di questo importante autore. Pubblico qui una breve dichiarazione di poetica, inedita in Italia, insieme a due testi.
Per la poesia oggi, tre proposte
1. La poesia prende l'ARIA. L'aria, è tre cose:
a. la vita; b. l'aspetto; c. la melodia.
Non mancare d'aria (da respirare); non mancare d'aria (andatura); non mancare di melodia. E' ciò che ricerca una poesia.
2. C'è un'aria del tempo. La si chiama anche spirito (Weltgeist). Questo spirito non ha niente dello spirito; non è fantasma, nè piccola divinità, nè folletto notturno, nè nè. Questo spirito è il nostro - umano. Posso anche chiamarlo santo, perchè no, a condizione di tradurre la santità in saggezza e in età, in sapere e in giudizio, in psicologia e in amore del bene.
La religione ha partorito la teologia. La teologia ha insegnato all'uomo di cosa egli è capace. Ora egli deve riprendersi questa capacità (Feuerbach): antropomorfosi continuata. Io non dico che non ci sia niente altro, perchè, giustamente, tutto è sorgente: la preesistente natura, il profondo universo, l'Essere, le "fonti cristiane" (Simone Weil) e altre.
3. La letteratura, e il suo modo poetico - in breve: la poesia, la cui singolarità consiste in questo: essa è audace, essa si slancia, osa, traccia; essa decide, nomina... - mostra, fa vedere, questo spirito, con il farlo intendere. E' la sua chiaroveggenza, o visione; un tempo indovino, oggi divinante. Essa mostra alle sue compagne, la musica, la pittura, forme di volume, films, nuove attitudini plastiche...Essa è trascinante, essa si allea con.
Michel Deguy, « La poésie en France », Confluences poétiques n° 1, Mercure de France, 2006, pp. 44-45.
Fonte: Terres de femmes (trad. G. Cerrai)
Continua a leggere ""
Lunedì, 11 giugno 2007
Ricevo dall'amico Davide Nota (e pubblico volentieri) un suo scritto relativo alla questione delle cosidette "linee regionali" della poesia italiana, nella fattispecie quella marchigiana, di cui Davide nega, mi sembra argomentatamente, l'esistenza. Come ho avuto modo di dire privatamente all'autore, credo però (e spero) che il discorso possa essere una base di partenza per una discussione non limitata al solo ambito locale (e geografico), ma allargata anche ad una sovraterritorialità stilistica e tematica.Per chi interessasse, dico che il post a cui Davide fa riferimento nel suo articolo è reperibile, con i relativi commenti, qui: http://golfedombre.blogspot.com/2007/04/la-linea-del-sillaro.html
Continua a leggere "Davide Nota - La linea marchigiana non esiste"
Martedì, 5 dicembre 2006
Leggo sul Corriere della sera del 2 dicembre un trafiletto di M.Persivale intitolato "Il tramonto del congiuntivo". Che il congiuntivo se la passasse male si sapeva da tempo, soppiantato da forme verbali piu' semplici ricalcate a volte dall'inglese, sostituito da un indicativo appiattito e privo di sfumature, espulso a calci anche dai telegiornali. Fin qui, in un certo senso, niente di strano: le lingue sono organismi viventi, soggetti ad una loro evoluzione, un loro uso e riuso, una loro consunzione. Quello che registra l'articolo e' pero' la notizia che "lo sfortunato modo verbale e' stato relegato, nei libri d'italiano per stranieri, tra le sezioni di studio avanzate; quelle che, in pratica, non servono a chi voglia ottenere un diploma di conoscenza intermedia della lingua". Allo stesso modo, puo' capitare di frequentare le scuole di italiano per molto tempo "prima di incappare nello studio dell'insidioso congiuntivo", con il risultato che quasi tutti rinunciano a impararlo. C'e' quindi non una evoluzione, ma una dismissione a priori del congiuntivo, una abrogazione statutaria, una specie di pulizia etnica linguistica. Naturalmente si puo' vivere senza congiuntivo, e puo' darsi che "Non chiederci la parola" di Montale funzioni bene lo stesso senza di esso, ma quello che dovremmo chiederci e': quali sono i limiti di questo riduzionismo o minimalismo linguistico, sopratutto dal punto di vista dell'espressione artistica? E' indubbio che si possa fare arte, poesia nel nostro caso, anche riducendo la gamma delle possibilita' linguistiche a disposizione, eliminando per esempio i cosiddetti connettivi, come hanno ampiamente dimostrato le avanguardie. Ma si tratta pur sempre di una scelta, come quella di un pittore che decide di usare solo il bianco e il nero (Manzoni, Burri, ecc.), una scelta magari "ideologica" o concettuale, ma non obbligata dalla progressiva riduzione dei mezzi, della tavolozza, dei significanti. Allo stesso modo un poeta puo' coscientemente decidere di utilizzare il madrigale o la computergrafica, e, se scrive, di fare una poesia con soli periodi ipotetici o verbi soltanto all'infinito, oppure ricorrere in maniera metalinguistica al riuso di termini arcaici. Da qui deriva una specie di responsabilita' nel confronti della lingua, almeno da parte di chi la usa per fare arte, una responsabilita' per cosi' dire conservativa, non conservatrice ne' formale, direi piuttosto pluralistica e tollerante, orientata alla gamma, al ventaglio delle possibilita'.
Insomma, mi dispiace per il povero congiuntivo, cerchiamo di fare qualcosa per lui, tanto piu' che esso "e' il modo della possibilita', del desiderio e del timore, dell'opinione soggettiva o del dubbio, del verosimile o dell'irreale, viene usato generalmente in proposizioni dipendenti da verbi che esprimono incertezza, giudizio personale, partecipazione affettiva" (M.Dardano - P.Trifone, Grammatica Italiana, Zanichelli). Una descrizione, mi sembra, che molti poeti, magari sostituendo "modo" con "mondo", potrebbero sottoscrivere come una delle possibili definizioni della poesia. (g.c.)
|