Lunedì, 9 aprile 2018
John Taylor - L'oscuro splendore - Mimesis Edizioni, collana
Hebenon
Secondo libro di poesie, questo di John Taylor, tradotto
in italiano dopo Gli Arazzi dell'Apocalisse, a parte il libro di
prose brevi Se cade la notte (Joker Edizioni), tutti nella
versione di Marco Morello. Bisogna ricordare brevemente, per chi non lo
conoscesse, che John pur essendo nato negli States è uno scrittore molto
europeo, non solo perché vive in Francia dal 1977 ma soprattutto perché ha
con la cultura europea un rapporto strettissimo e profondo, che non è
azzardato definire di vero amore. Traduttore di autori francesi o
francofoni come Jaccottet, Dupin, Perros, Jourdan, Calaferte e altri,
Taylor ha anche un forte interesse per la poesia italiana, che negli ultimi
anni si è concretizzato in due eccellenti volumi antologici in inglese
dedicati a Alfredo de Palchi ( Paradigm: New and selected poems, 2013 - v. anche
QUI
) e Lorenzo Calogero ( An Orchid shining in the Hand: Selected poems 1932-1960, 2015),
entrambi Chelsea Editions. Da ricordare anche nella bibliografia di Taylor,
sempre in riferimento al suo legame con la cultura europea, i suoi
importanti lavori Paths to Contemporary French Literature, in tre
volumi, e Into the Heart of European Poetry, tutti pubblicati da
Transaction, oltre al più recente A Little Tour through European Poetry (2015).
Dunque come si vede John è davvero, sotto molti aspetti, uno scrittore
europeo. E non solo per i suoi studi, ovviamente, o perché vive in Europa
da lungo tempo, ma anche perchè quella cultura e quelle frequentazioni
letterarie le ha accolte, quegli stimoli li ha fatti permeare nella sua
scrittura creativa. Questa raccolta ne è una buona testimonianza, poiché mi
pare vi si possa rilevare per prima cosa, almeno ad una prima lettura, una
distanza dalla poesia contemporanea americana (per quanto essa sia una
categoria troppo generica) non minore di quella che c'è tra le due sponde
dell'Atlantico. Naturalmente questa affermazione va presa con una certa
cautela, poiché John, al di là delle suggestioni culturali, elabora in
questi versi una sua personale idea di poesia, una sua visione delle cose
che certo trasmettono nei versi anche le sue origini ("frammenti di patria
sbiadita") e i suoi studi, ma indubbiamente accoglie in pieno (poiché la
ama) la lezione soprattutto dei suoi prediletti autori francesi. Una
influenza che è sostanzialmente lirica e forse, sullo sfondo, simbolista,
orientata a gettare sul suo personale mondo uno sguardo attento ma
sufficientemente disilluso, che non guarda tanto gli "oggetti" quanto
l'atmosfera, anche interiore, nella quale essi e l'autore sono immersi e si
trovano ad esistere. Manca qui, tornando a quanto appena detto, quella
"concretezza" anche un po' pragmatica che si ritrova in tanta poesia
americana, quel confronto dell'uomo con la natura e l'ambiente, sia esso
quello dei vasti spazi o quello urbano delle strade di New York (e tuttavia
nelle "cose" - things - che qui troviamo c'è un pizzico di imagismo
statunitense). L'uomo europeo, e con lui Taylor, guarda soprattutto dentro
sé stesso, anche per tradizione filosofica e, per tradizione letteraria,
almeno fin da Baudelaire e dai suoi eredi. In Taylor ci sono certo queste
suggestioni e potremmo ritrovare anche molta della leggerezza malinconica e
venata di ombre di Paul Verlaine, trasfusa in un linguaggio trasparente e
aereo (talvolta un "verso scarno", come lo chiama Marco Morello) che ben
trasmette inquietudini e interrogativi sospesi, alla ricerca di qualcosa
che penetri l' "oscuro splendore". In questo ossimoro si cela il mistero
stesso dell'esistenza di ciascuno, sempre esposta ad un imperscrutabile
destino o al caso, al calare di una notte anche in pieno giorno, di una
"luce striata di nero", che tuttavia, portando appunto in sé un arcano, non
può che essere splendida per la mente del'uomo, e ineludibile per
l'artista. Una dimensione crepuscolare (ma non nel senso letterario del
termine, o non solo) in cui è presente la coscienza "che questo crepuscolo
sarà oscurità / alla fine // un'assenza di luce // non questa mezza luce
consolante / sopra la neve". C'è spesso nella poesia di John uno sguardo
che tenta di penetrare l'incerto, trapassare una foschia reale o
metaforica, andare oltre una marea che svela e nasconde fondali o scogli
anch'essi simbolici, giungere fino a decifrare "iscrizioni / sul fondo del
lago deserto" (Il fondo del lago è la sezione principale del
libro) che ha sommerso "qualcosa che era prezioso // i suoi bordi incerti
smussati / dall'acqua". Come in un cerchio creativo, quell' "incerto"
nebuloso (che è in ultima istanza ricerca di senso) che John cerca di
diradare con i suoi versi, è lui stesso che lo tratteggia per mezzo di una
scelta appropriata di termini "blurred", sfumati, deittici "vaghi"
(qualcosa, talvolta, forse, tutto questo, come se solo allora) o interi
versi ("eppure le onde // sono questo / e quello // e nessuno dei due // e
uniche // anche se / vengono / e vanno"; "o semplice ombra // o miraggio // cosa si trova oltre // ma è difficile da guardare") che concorrono a dipingere questo
"incerto" (vago, indefinito) e che, soprattutto a un lettore italiano,
richiamano inevitabilmente certi stilemi, questi sì, del decadentismo, che
tuttavia devono essere ricompresi in una matrice simbolista a cui tutta la
poesia francese e europea attinge. C'è da dire che nella traduzione
italiana questo senso di indeterminatezza viene in qualche minima misura
accentuato, sia per una naturale scelta di termini legati alla cultura di
chi traduce, sia - per fare un piccolissimo esempio - per l'eliminazione di
elementi determinativi come gli articoli o i pronomi soggetto, in inglese
sempre presenti. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, la cosa
importante è che il verso tayloriano derivante da tutto ciò è assai
suggestivo, limpido, efficace nell'espressione e tutt'altro che incerto sui
suoi obbiettivi, anzi perfettamente consapevole riguardo a ciò che intende
dire a chi legge. Qualità che da un certo punto di vista risultano ancora
più evidenti nei testi in prosa poetica, come John aveva già dimostrato ne Gli Arazzi dell'Apocalisse dove erano una gran parte, o nei
frammenti (qui presenti nelle sezioni Il boschetto e Il recinto), brevi aforistici lampi illuminanti nei quali con
grande piacere ho ritrovato echi e suggestioni di Pierre-Albert Jourdan, un
grande autore a cui Taylor ha dedicato molto del suo lavoro ( The Straw Sandals: Selected Prose and Poetry - Chelsea Editions,
2011). Testi nei quali, potremmo dire per concludere, John trova una intensa rarefazione. (g. cerrai)
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Mercoledì, 25 ottobre 2017
Annoverata tra quei confessional poets che negli anni Cinquanta e
Sessanta rivoluzionarono la scrittura poetica coeva con la messa in scena
di drammi personali ed esplorazioni sfrontate di interiorità ora realmente
patologiche, ora performativamente isteriche, Anne Sexton è stata di certo
una poetessa originale e innovativa. In parte, anche più di Sylvia Plath,
di cui fu amica e alla quale viene sempre accostata (anche qui, invero) in
un confronto che in genere la vede perdente. In realtà, la Sexton fu sì
meno colta e meno raffinata dell’altra ma, a rileggerla oggi, ben più
modernamente ambigua, soprattutto nei confronti della cruciale
rappresentazione, per entrambe, del rapporto uomo-donna. Se infatti la
Plath declina il suo immaginario di ribellione al maschile soprattutto
nella diade “padre”-“marito”, la Sexton si confronta con una quaterna
composta da “padre”, “marito”, “amante” e “Dio” e la investe di
un’ambivalenza in cui, per esempio, le figure dell’amante e del divino si
sdoppiano e si moltiplicano di ruolo. Se l’amante può, semplicemente,
essere donna (come fu anche, talora, nella vita della Sexton) o farsi, da
un punto di vista simbolico, figura edipico-paterna, Dio rappresenta sia
l’ipostasi suprema di un patriarcato puritano e repressivo sia un
accogliente rifugio materno verso cui anelare (e del resto la Sexton dirà
che “Dio è donna”). Al di là di questo precoce e antesignano tentativo di
andare oltre il genere, la Sexton scompagina le carte dell’imperante
femminismo ideologico dell’epoca (che invece della Plath fece,
notoriamente, il santino) proprio per la sua feconda irresolutezza nei
confronti del desiderio per l’uomo-amante. La relazione adulterina e i suoi
oggetti libidici rimangono difatti sempre in bilico tra volontà di fusione
e rifiuto doloroso, erotismo estatico e rabbia rivendicativa, liberazione
fisica e intimo senso di colpa, gioia e angoscia.
Propongo dunque qui alcune nuove traduzioni di testi della poetessa
incentrati proprio sul ruolo dell’amato-amante. I primi tre provengono da
una delle raccolte più note e fortunate della Sexton, Love Poems
(1969), dedicata al rapporto extraconiugale da lei intrattenuto con il suo
psicoanalista dell’epoca, Ollie Zweizung, mentre il quarto proviene
dall’opera postuma 45 Mercy Street (1976). Si legge, in queste
poesie della sua maturità, tutta la capacità dell’autrice di trasfigurare
il confessionalismo autobiografico in scenari filtrati da una spiccata,
talora melodrammatica, performatività (non per nulla la Sexton non apprezzò
mai l’etichetta “confessional”, preferendo definirsi una “storyteller”),
come nel caso della famosa The Ballad of the Lonely Masturbator,
audace e ironico canto di riappropriazione del corpo e del piacere
femminile in una società perbenista come quella americana dell’epoca, agli
albori della rivoluzione sessuale. Ma tale riappropriazione, più che
politicamente rivendicativa, discende dalla perdita dell’amante, ed è
quindi frutto di un dolore che in realtà inscena la debolezza e insicurezza
della donna, la quale si sdilinquisce rievocando gli incontri perduti con
il suo uomo e meditando sulle menzogne dell’amore. Anche la splendida Us è percorsa da una forte drammatizzazione poetica, in cui
l’amplesso diviene una sorta di unio mystica dalla quale far
scaturire un oro che è quasi un simbolo alchemico di rinascita corporea e
spirituale. Se l’esaltante esperienza erotica funziona qui da grimaldello
emancipatorio, persino in questo caso la donna risulta volontariamente
agita dall’uomo, da lui liberata dagli orpelli della sua vita borghese e
incoronata principessa. Mentre in Us l’amante è il tramite per
l’estasi, in December 11th – che fa parte di una serie di testi
intitolata Eighteen Days Without You, esito della rottura della
relazione con Zweizung – la sua assenza sprofonda la donna in una solitaria rêverie mnestica improntata, ancora, a
un’appassionata nostalgia per il corpo maschile e i passati incontri
amorosi. Infine, la traboccante sessualità di The Fierceness of the Female si confronta con un Dio-amante al
quale offrire un orgasmo che è insieme grata affermazione vitalistica per
l’eros e proclamazione di una “fierezza femminile” che va oltre il maschile
e sfida persino il divino disincarnato. Perfetta bussola per la ricchezza e
reversibilità dei ruoli amorosi nella poesia della Sexton è, in fondo,
l’epigrafe che, da un saggio di W.B. Yeats, introduce proprio Love Poems: «One should say before sleeping, “I have lived many
lives. I have been a slave and a prince. Many a beloved has sat upon my
knees e I have sat upon the knees of many a beloved. Everything that has
been shall be again.”»[1]. (chiara serani)
[1]
«Ci si dovrebbe dire, prima del sonno: “Ho vissuto molte vite. Sono
stato uno schiavo e un principe. Molti amori ho tenuto sulle
ginocchia e sulle ginocchia mi hanno tenuto molti amori. Tutto ciò
che è stato, di nuovo sarà”» (traduzione C. Serani).
Continua a leggere "Anne Sexton, poesie tradotte da Chiara Serani"
Martedì, 24 gennaio 2017
La vita non si perde morendo;
la vita si perde minuto dopo minuto,
giorno trascinando giorno,
in tutti i mille piccoli insensibili modi.
S. V. B .
S tephen Vincent Benét
nacque il 22 luglio del 1898 a Bethlehem, in Pennsylvania, Stati Uniti. Fu
uno dei tre figli di James Benét, colonnello dell’esercito degli Stati
Uniti, e Frances Neill Rose. All’età di tre anni si ammalò di scarlattina.
La malattia compromise l’uso della vista e le sue condizioni fisiche per il
resto della sua vita. Durante l’infanzia molte volte si trasferì con la
famiglia per seguire il padre durante i continui spostamenti dovuti alla
sua partecipazione nel corpo militare. Il padre aveva molti interessi tra
cui anche la letteratura e la poesia. Gli altri due fratelli, William Rose
e Laura, ebbero anch’essi un’apprezzabile carriera letteraria. Il giovane
Benét ricevette in casa la prima istruzione, grazie soprattutto al padre
che gli trasmise l’amore per i grandi autori, quali: Rudyard Kipling,
Gilbert Keith Chesterton, Joseph Conrad, Dante Gabriel Rossetti. A dodici
anni, su consiglio di un medico, e a causa della sua cagionevole salute, fu
spedito alla “Hitchcock Military Academy” di Jacinto, in California. L’anno
dopo si trasferì con la famiglia in Georgia dove fu iscritto alla
“Summerville Academy”. In questi anni scrisse i suoi primi componimenti
poetici, alcuni dei quali vinsero qualche premio letterario e furono
pubblicati anche in riviste locali. Nel 1915 pubblicò la sua prima raccolta
di poesie, dal titolo: Five Men And Pompey. Nello stesso anno si
iscrisse alla “Yale University” dove divenne redattore del perio dico
letterario studentesco e del periodico umoristico. A causa dello scoppio
della Prima Guerra Mondiale, dovette abbandonare i suoi studi che riprese
comunque qualche anno più tardi fino a conseguire la laurea magistrale nel
1920. Nell’estate dello stesso anno fece il suo primo viaggio a Parigi,
dove conobbe Rosemary Carr che sposò l’anno successivo al rientro negli
Stati Uniti. In questi anni scrisse numerosi romanzi, racconti e poesie.
Nel 1920 pubblicò il suo primo romanzo: The Beginning of Wisdom, di genere autobiografico, nel quale trattò il
tema della vita dura e delle sofferenze patite durante gli anni della
scuola miliare. Negli anni successivi pubblicò altri due romanzi: Young People’s Pride (1922), e Jean Huguenot (1923), ma i
suoi più grandi riconoscimenti vennero dalla produzione poetica, come la
lirica: The Ballad of William Sycamore 1790–1880, (1923), in cui
celebra il folklore e la storia americana, elementi che riprese anni più
tardi nelle sue opere più celebri come il lungo poema epico: John Brown’s Body (1928) per il quale vinse il premio Pulitzer per la poesia l’anno
successivo. Nel 1933 scrisse insieme alla moglie, Rosemary Carr, la
raccolta poetica: A Book of Americans, in cui sono presenti molti caratteri storici dei bambini americani in età
scolastica. Tra i racconti più noti ci sono: Devil and Daniel Webster (1937), By the Waters of Babylon (1937) e Johnny Pye and the Fool Killer (1938). Rimase incompiuta, invece la sua opera più ambiziosa: Western Star, un lunghissimo poema epico-narrativo che nel suo intento avrebbe dovuto
consistere di cinque libri. Benét fece in tempo a scriverne solo uno prima
di morire per un attacco cardiaco nella sua casa di New York, il 13 marzo
del 1943, all’età di quarantacinque anni. Il libro fu pubblicato postumo lo
stesso anno e l’anno successivo gli valse il secondo premio Pulitzer per la
poesia.
nelle foto: Stephen Vincent Benét; Pag. 4 della poesia “The Ballad of William
Sycamore 1790–1880”, nell’edizione originale del 1923.
Articolo e traduzione a cura di Emilio Capaccio
Foto: fonte web
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Sabato, 13 giugno 2015
La pubblicazione di un libro di Wallace Stevens, per quanto non
recentissim a (l'uscita è avvenuta nel Febbraio 2014) è sempre una bella
notizia, soprattutto se lo si ritrova in una piccola biblioteca
pubblica piena di gialli. Una cosa insolita, una piccola epifania.
"Le aurore d'autunno" (Adelphi, 2014) sono l'ultima raccolta di
Stevens, apparsa nel 1950. In Italia, sempre per la cura di Nadia Fusini
che firma nel libro un saggio di introduzione importante e
appassionato, era già stato pubblicato da Garzanti nel 1992, se non vado
errato.
Pubblico qui alcune delle poesie più brevi (ma certo non di minore
importanza) e in un certo senso più "leggibili" (per quanto lo possa
essere Stevens che è sempre aperto ad una moltiplicità di
interpretazioni), tralasciando per ragioni di spazio i fondamentali
poemetti come Aurore d'autunno, Un primitivo come un globo (che però è possibile leggere QUI), Cose d'agosto e soprattutto Una sera qualunque a New Haven.
Queste, seppure più brevi, sono ugualmente importanti e capaci di dare
l'intensa emozione che si prova sempre leggendo Stevens. E un'ottima
occasione di rilettura, o di lettura per chi ancora non lo avesse fatto.
OMONE GRANDE E ROSSO CHE LEGGE
C'erano spettri tornati sulla terra per sentire le sue frasi,
Lui seduto che leggeva ad alta voce le grandi tabulae azzurre.
Erano quelli del deserto delle stelle che avevano atteso di più.
C'era chi tornava per sentirlo leggere dal poema della vita,
Della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani.
Erano quelli che avrebbero pianto pur di entrare scalzi nella realtà,
Avrebbero pianto di gioia, tremato di freddo nel gelo,
E gridato pur di sentirlo ancora, avrebbero accarezzato con le dita le foglie,
Le spine più acuminate, afferrandosi al brutto,
E ridendo, mentre lui seduto leggeva, dalle tabulae di porpora,
I lineamenti dell'essere, le sue espressioni, le sillabe della sua legge:
Poesis, poesis, le lettere, i caratteri, i versi ispirati,
Che in quegli orecchi e in quei cuori sottili, esausti,
Prendevano forma, colore, e la misura delle cose così come sono,
E dicevano per loro l'emozione, che era ciò che era loro mancato.
Continua a leggere "Wallace Stevens - Aurore d'autunno"
Mercoledì, 17 dicembre 2014
Eliot fa parte, insieme ad altri, delle mie lett ure "curative", quando il troppo è troppo e c'è la necessità di ripristinare un certo livello qualitativo, di rifarsi la bocca, di restaurare certe pietre di paragone. Insomma di fare "rehab". The hollow men, un testo del 1925, mantiene a distanza di 90 anni una drammatica attualità, anche al di là della componente mistica che certo lo innerva (l'autore si stava avviando verso la sua conversione al cattolicesimo che troverà espressione ad esempio in Mercoledì delle ceneri del 1930). Il poemetto è introdotto da due epigrafi. La prima (Mistah Kurtz—he dead, Mister Kurtz - è morto) è tratta da "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad ed è la notizia che Marlow, il protagonista, apprende da un servitore durante il ritorno dal viaggio di ricerca del misterioso Kurtz. Incidentalmente, una delle scene magistrali di "Apocalypse now" di Francis Ford Coppola (1979), che come noto trasse molta ispirazione da Conrad, è quella in cui Marlon Brando, nelle vesti del tragico colonnello Kurtz, recita proprio The hollow men, in un geniale intreccio culturale (v. QUI, in inglese) che, vale la pena di ricordare, rimanda al "riutilizzo" del serbatoio della tradizione così come lo intendeva Eliot nel suo saggio "Tradizione e talento individuale" del 1919 (v. meglio QUI). L'altra citazione (A penny for the Old Guy, un penny per il vecchio Guy) punta direttamente al secondo verso poiché fa riferimento ai fantocci impagliati che il 5 novembre tradizionalmente i bambini inglesi portano in giro chiedendo un penny, fantocci che poi saranno bruciati in ricordo della esecuzione di Guy Fawkes, che nel 1605 tentò di assassinare il re Giacomo I e i membri del Parlamento con una esplosione. Da notare, anche qui incidentalmente, che la maschera rappresentativa del personaggio Fawkes ha fatto anch'essa il suo percorso culturale fino a diventare il simbolo di movimenti di protesta contro l'ordine costituito come Anonymous o Occupy. Ma l'uomo di paglia, per Eliot, vale un penny. Gli uomini vuoti, gli uomini "impagliati" del 1925 che nel poemetto si presentano in prima persona ("noi") non si differenziano certo da quelli del terzo millennio che stiamo vivendo, non sono diversi da noi. Il vuoto, che non è solo quello esistenziale, che subiamo, ma anche quello che creiamo, spesso deliberatamente, o quando "l'ombra cade" tra il pensiero e l'azione, tra il potere e il fare, senza che noi interveniamo, è fatto di usura delle parole "secche", della loro inconsistenza, della sterilità di chi popola desolatamente ("figura senza forma, ombra senza colore, / forza paralizzata, gesto privo di moto") una "terra desolata", una "valle di stelle morenti". Gli uomini vuoti brancolano, ammassati sulla riva di un fiume che assomiglia molto a un dantesco Stige pieno di accidiosi, girano irresoluti intorno a sterili simulacri. Attraverso una serie cospicua di simboli, metafore e quei correlativi oggettivi la cui "invenzione" è tradizionalmente attribuita a Eliot e che tanta importanza hanno avuto nella poesia moderna, il poemetto si avvia al finale, estremamente moderno. La preghiera della quinta parte sembra essere un balbettio smozzicato ("Perché Tuo è / La vita è / Perché Tuo è il") che non riesce ad afferrare e coagulare quanto una voce fuori campo sembra suggerire. Non sembra che ci sia molta speranza. La chiusa è percussiva e folgorante insieme, con una estrema accusa di ignavia accidiosa che Roberto Sanesi, per quanto "whimper" possa essere tradotto restrittivamente anche come "gemito, lamento", rende lapidariamente con la parola "piagnisteo". (g.c.)
Continua a leggere "Thomas Stearns Eliot - The hollow men"
Venerdì, 25 maggio 2012
Robert Cr eeley (1926-2005) è il principale esponente della Black Mountain School (con Charles Olson, Denise Levertov, Robert Duncan) e il rinnovatore della poesia modernista americana e dell'oggettivismo imagista alla W.C. Williams.
Later
appartiene appunto al Creeley che fa i conti con il proprio postmodernismo nei termini di una poesia dì diario e travelogue che dice al poeta che le difficoltà stanno nella necessità di definire un rapporto soddisfacente tra un tono base (legato anche al bisogno di consuntivo) e le variazioni libere (legate al movimento perenne e produttivo del prima modernista). Siamo sull'orlo del silenzio o della totale negazione; i temi sono quelli, di marca romantica, dell'identità, della soggettività, dell'estraniamento, della morte. L'identità è un movimento, una struttura instabile di punti di fuga, incontri, viste e assenze. Il neutro onnipresente « it » contrassegna « the place », la posizione dove l'ego, « the self », dovrebbe essere, o di solito era, ma non è: è il centro vuoto, l'intermittente punto di riferimento negativo che interessa sia speaker che reader, ambedue « spettatori » (in The Place) del riconoscimento, presente in tutte le poesie, che ciò che l'io può immaginare sia l'atto immediato, adamico, del nominare è in realtà mediato dalla memoria: i nomi predatano lo speaker, eglinon ne è più l'origine. Direi che l'accento cade, proprio come indovina Spicer nell'Orfeo negato di Homage to Creeley, sull'ambiguo post (later)
che, sia nel caso di post-modernismo che di post-orfismo, unisce l'indicazione che si è superato un determinato credo all'indicazione che forse si sta ancora vivendo sul capitale di quel credo. Così le provocatorie, nella loro brevità, poesie di luce (Morning, Night Time)
o la blakiana Heaven o l'organizzazione stessa degli interessi estetici e insieme esistenziali sulla spola di quei grafemi chiave, « here » e « there », non più poli mutuamente esclusivi in una dialettica presenza e assenza, ma ambedue fusi in un unico presente, il solo congetturabile e insieme tale che, come l'io, rifiuta di definirsi e consistere in un unico posto (vedi sempre Prayer to Hermes). Queste sono cose da riferirsi a quella che Blanchot ha ben descritto come « écriture du désastre », scrittura di frammento più che di aforisma, che dichiara la propria intenzione di rimanere fragile e ambigua, e in certo senso stoica: « L'écriture fragmentaire serait le risque mème ». (francesco binni)
Continua a leggere "Robert Creeley - Poesie da "Later""
Domenica, 11 dicembre 2011
Archibald MacLeish - Ars poetica
Una poesia dovrebbe essere tangibile e laconica Come un rotondo frutto,
Muta Come antichi medaglioni sotto il pollice,
Silente come pietra consumata dalle maniche Di davanzali dove è cresciuto il muschio—
Dovrebbe essere senza parole, una poesia, Come un volo d'uccelli.
* Una poesia dovrebbe essere immota Nel tempo che la luna sale,
Lasciando, come la luna cala, Gli alberi impigliati, ramo a ramo, alla notte,
Lasciando, come la luna nascosta dietro foglie d'inverno, La mente ricordo per ricordo—
Una poesia dovrebbe essere immota Nel tempo che la luna sale.
* Una poesia dovrebbe essere uguale a: Non vero.
Per tutta la storia del dolore, essere Una foglia d'acero e una porta vuota.
Per l'amore, essere Le erbe reclinanti e due luci sul mare—
Una poesia dovrebbe non significare Ma essere.
Dorothea Lasky - Ars poetica
Volevo dire all'aiuto veterinario di quel video del gatto che Jason mi ha mandato Ma ho resistito per paura lo trovasse strano Sono davvero solitaria Ieri il mio ragazzo mi ha chiamato, di nuovo sbronzo E in mezzo a squillanti lacrime e un che di appiccicoso Mi ha urlato contro con una tale amarezza Come non avevo sentito prima da altri umani E mi ha detto che non ero brava Be' magari lui non voleva dire quello Ma è quello che ho sentito Quando mi ha detto che la mia vita non valeva niente E il mio lavoro della vita un lavoro da elite. Io dico che voglio salvare il mondo ma in realtà Voglio scrivere poesie tutto il giorno Voglio alzarmi, scrivere poesie, andare a dormire, Scrivere poesie durante il sonno Fare dei miei sogni poesie Fare del mio corpo una poesia con magnifiche vesti Voglio che la mia faccia sia un poema Ho appena imparato come mettere La matita agli angoli degli occhi per farmeli più grandi C'è sempre in me un romantico abbandono Voglio sentire il timore per gli altri E lo posso sentire attraverso il canto Solo attraverso il canto posso sommare in poche così tante parole Come quando lui dice che io non sono brava Io non sono brava La bontà non è più il punto Tenersi stretti alle cose Ecco questo è il punto
Czeslaw Milosz - Ars poetica?
Ho sempre aspirato a una forma più spaziosa che fosse libera dalle pretese di poesia e prosa e ci facesse capire l'un l'altro senza esporre autore e lettore a sublimi agonie.
Nella vera essenza della poesia c'è qualcosa di impudico: una cosa che non sapevamo di avere in noi viene data alla luce, così noi sbattiamo gli occhi, come se una tigre fosse balzata fuori e stesse lì alla luce, agitando la sua coda.
E' il perchè si dice a ragione che la poesia sia dettata da un daimonion, sebbene sia un'esagerazione sostenere che esso debba essere un angelo. E' difficile supporre da dove questa fierezza dei poeti provenga, quando così spesso sono messi in imbarazzo dalla rivelazione della loro fragilità.
Quale ragionevole uomo vorrebbe essere una città di demoni, che si comportano come se fossere a casa loro, parlano in diverse lingue, e che, non soddisfatti di rubargli labbra e mani, lavorano a cambiare il suo destino a loro comodo?
E' vero che ciò che è morboso oggi è tenuto in gran conto, e così voi potreste pensare che sto solo scherzando o che ho inventato ancora solo un mezzo di lodare l'Arte con l'aiuto dell'ironia.
C'era un tempo quando solo i libri sapienti erano letti, aiutandoci a sopportare i dolori e le miserie. Che, dopo tutto, non è proprio come sfogliare un migliaio di lavori freschi di clinica psichiatrica.
Eppure il mondo è diverso da come sembra essere e noi siamo altri da come ci vediamo nei nostri deliri. La gente dunque conserva una silenziosa integrità, guadagnando così il rispetto di parenti e di vicini.
Lo scopo della poesia è di ricordarci quanto difficile è rimanere solo una persona, perchè la nostra casa è aperta, non ci sono chiavi nelle porte, e ospiti invisibili vanno e vengono a piacer loro.
Quel che sto dicendo qui non è, sono d'accordo, poesia, ché si dovrebbe scrivere poesie di rado e con riluttanza, per insopportabile urgenza e solo con la speranza che i buoni spiriti e non solo i malvagi ci scelgano per loro strumento.Berkeley, 1968(traduzioni dall'inglese di G.Cerrai)
Continua a leggere "MacLeish, Lasky, Milosz: Ars Poetica"
Domenica, 13 febbraio 2011
Come vivere. Cosa fare
Ieri sera la luna si alzò su questa roccia, impura sopra un mondo non purgato. L’uomo e la sua compagna sostarono a riposare dinanzi alla sua eroica altezza.
Freddo il vento cadde intorno a loro in molte sovranità di suono: avevano lasciato il sole striato di fiamma per cercare un sole dal fuoco più intenso.
Invece c’era questa roccia irta che sorgeva massiccia, alta e nuda, oltre tutti gli alberi, gettando i crinali come braccia gigantesche fra le nubi.
Non c’era né voce né crestata immagine, né corista, né prete. C’era solo la grande altezza della roccia e loro due fermi a riposare.
C‘ era il vento freddo e il suono del vento, lontano dalla melma della terra che avevano lasciato, un suono eroico gioioso e giubilante e certo.
How to Live. What to Do
Last evening the moon rose above this rock Impure upon a world unpurged. The man and his companion stopped To rest before the heroic height.
Coldly the wind fell upon them In many majesties of sound: They that had left the flame-freaked sun To seek a sun of fuller fire.
Instead there was this tufted rock Massively rising high and bare Beyond all trees, the ridges thrown Like giant arms among the clouds.
There was neither voice nor crested image, No chorister, nor priest. There was Only the great height of the rock And the two of them standing still to rest.
There was the cold wind and the sound It made, away from the muck of the land That they had left, heroic sound Joyous and jubilant and sure.
Continua a leggere "Wallace Stevens - da Parti di un mondo"
Giovedì, 13 maggio 2010
Quando si parla di Hart Crane (1899 - 1932) ci si deve riferire ad una della figure poetiche più eminenti del '900 americano. Rappresentante del Modernismo americano, influenzato da Eliot e Pound (e dall'Imagismo) e attraverso di loro anche dai simbolisti francesi, Crane ha continuato a sua volta ad influenzare poeti e artisti, da Edmund Wilson a William Carlos Williams, da Marianne Moore a Allen Ginsberg fino a John Berryman e Robert Lowell, e perfino un pittore come Jasper Johns e critici come Harold Bloom. I testi qui pubblicati, nella traduzione di Roberto Sanesi, appartengono alla sua prima raccolta, White buildings, apparsa nel 1926. Ma il suo capolavoro, a cui ci si deve rivolgere per avere una piena visione della sua arte, è il poema The Bridge (Il ponte), del 1930, in cui il Ponte di Brooklyn diventa simbolo quasi epico di slancio positivista verso il futuro, di elemento dinamico di congiunzione con il passato, di tensione - anche drammatica - tra natura e opera dell'uomo, tra America vecchia e nuova.
Per altre informazioni sull'autore v. Hart Crane: Biographical Sketch (in inglese)
Leggenda
A Waldo Frank
Silenti come si crede che sia silente uno specchio le realtà nel silenzio si tuffano, vicino...
Non sono ancora pronto al pentimento; né a accendere rimpianti. Poiché la falena altro non curva che la fiamma immobile implorante. E i baci tremolanti nei fiocchi bianchi che cadono, — sono le sole cose, fra tutte, che abbiano valore.
Si possono imparare — questa scissione, questo bruciare, ma solo da chi intenda di nuovo consumarsi.
Due volte e ancora due volte (ancora il fumante souvenir, eidolon sanguinante!) eppure ancora. Finché la logica splendente sia vinta senza sussurri, come si crede sia uno specchio.
Poi goccia a goccia caustica un perfetto pianto come da uno strumento a corda leverà un'armonia costante, — un salto inesorabile per tutti quelli che spingono la leggenda della loro giovinezza nel pieno del meriggio.
Legend
To Waldo Frank
As silent as a mirror is believed Realities plunge in silence by ...
I am not ready for repentance; Nor to match regrets. For the moth Bends no more than the still Imploring flame. And tremorous In the white falling flakes Kisses are,— The only worth all granting.
It is to be learned — This cleaving and this burning, But only by the one who Spends out himself again.
Twice and twice (Again the smoking souvenir, Bleeding eidolon!) and yet again. Until the bright logic is won Unwhispering as a mirror I believed.
Then, drop by caustic drop, a perfect cry Shall string some constant harmony,— Relentless caper for all those who step The legend of their youth into the noon.
Continua a leggere "Hart Crane - da Edifici bianchi (White buildings)"
Sabato, 10 aprile 2010
I miei primi timidi tentativi di tradurre Donald Justice, poeta tanto noto in America quanto sconosciuto in Italia, risalgono ad uno dei primissimi post di questo blog, nel 2005 (v. qui). Pubblico ora altre quattro poesie da me tradotte, del tutto tipiche dello stile e della poetica di Justice che, con le dovute cautele, potrebbe essere definito come alfiere di un crepuscolarismo americano, che contiene anche una felicità malinconica per la vita vissuta o, come afferma Mark Jarman, poeta a sua volta e critico, "una volontà di scoprire una vecchia musica in una nuova anatomia". Fatte di sensazioni niente affatto eccezionali e di oggetti, luoghi, paesaggi, esperienze del tutto comuni, queste poesie forse non rappresentano l'apice della produzione americana del secondo dopoguerra, ma sono un buon esempio di ciò che potremmo indicare, forse con qualche avventatezza, come il "pragmatismo lirico" d'oltre oceano. Del resto lo stesso autore afferma, in un'intervista: "La poesia arriva da qualsiasi parte . . . e per quanto mi riguarda, non dovrebbero esserci gerarchie di valori nel considerare questo. Quello che importa è il risultato, non la fonte, l'origine, o la teoria." (g.c.)
Variazioni su un testo di Vallejo
Me moriré en Paris con aguacero ...
Morirò nel sole di Miami, In un giorno di sole davvero luminoso, Un giorno come i giorni che ricordo, un giorno come altri giorni, Un giorno che nessuno conosce o ricorda ancora, E allora il sole splenderà su occhiali scuri di stranieri E negli occhi di pochi amici dell'infanzia E di qualche superstite cugino intorno alla mia tomba, Mentre gli scavatori, da una parte, nell'immobile ombra delle palme, Si appoggiano ai loro badili, e fumano, E parlano in spagnolo piano, per rispetto.
Penso che sarà in una domenica, come oggi, Solo che il sole sarà uscito, e la pioggia cessata, E il vento che oggi fa inchinare gli alberelli; E credo sarà di domenica perchè oggi, Quando ho preso questo foglio e cominciato a scrivere, Niente prima era mai apparso così vuoto, La mia vita, queste parole, la pagina, la grigia domenica; E il mio cane, tremante sotto il tavolo per via della bufera, Guardava verso di me, senza capire, E mio figlio leggeva in silenzio, e mia moglie ancora sonnecchiava.
Donald Justice è morto. Una domenica il sole uscì, Brillò sopra la baia, brillò sopra i bianchi edifici, Le auto che scorrevano giù in strada, lente come sempre, tantissime, Alcune con le loro luci accese, non ostante il sole, E dopo un pò i becchini con le loro pale Ritornarono alla fossa attraverso la luce del sole, E uno di loro piantò la lama nella terra Sollevò qualche zolla di fango, la nera argilla di Miami, E sparse il terriccio, e sputò, Girandosi bruscamente, per rispetto.
Nostalgia di lungolaghi
Le citta dietro di noi bruciano; il lago scintilla. Un alto altoparlante sta annunciando premi; Un altro, presso il lago, orari di crociere. L'infanzia, una volta piena di terrori e sorprese, Con la distanza sfuma nella profondità d'un paesaggio— E sempre nella distanza il triste piano,
Flebile nella distanza, un tintinnìo spettrale (Oh sfocate indecifrabili armonie) O qualche corno lontano che sull'acqua ripete La sua alta perduta nota, slegata da tutte le armonie. In quei tempi, un fanciullo, insonne, sognerà il mondo, Ed è il mondo a cui dal mondo noi corriamo.
O i due mondi vanno insieme e sono uno Negli scuri dolci pomeriggi di bufera e pioggia, E visori in 3D tirati fuori e spolverati, Pile di vecchi numeri del Geographic, o, sotto la pioggia, Una fradicia pazza corsa fino al cinema locale E il grido, forse, del bianco cacatua di Kane.(1) (Cos'era, forse era l'estate del '42?)
Sembra sempre nevrotica la città in Giugno. Ma i laghi sono buoni tutta l'estate per riflettere, E i nostri sono famosi tra i pittori per i loro blu, Ancora non davvero tristi, nel riflesso. Perchè tristi poi? E' così unico il loro desiderio— Da umanizzare quanto inanimato Con un amore ch'esso camuffa come pura tecnica?
Oh l'arte e il fanciullo fossero innocenti insieme! Ma i paesaggi crescono astratti, come genitori che invecchiano. Ora presto la guerra sprangherà i grand hotel, E noi, quando torneremo, lo faremo come genitori. Ora non ci sono più tra i pini lanterne appese— Solo, come la storia, i pini del nord desolati e nudi .
E dopo qualche tempo scompare il lungolago Negli ostinati versi dei suoi esilii O pochi schizzi a matita dei suoi moli. Piove forse sull'altro lato del cuore; E allora ricordiamo, lo si voglia o no. —La nostalgia, lo sai, giunge con l'odore della pioggia.
Uomini sui quaranta
Gli uomini sui quaranta Imparano a chiudere dolcemente Le porte di stanze Dove non torneranno più.
In piedi in mezzo al pianerottolo, Lo sentono quasi ora si muovesse Sotto di loro come il ponte di una nave, Sebbene l'ondeggiare sia gentile.
E nella profondità di specchi Essi di nuovo scoprono La faccia di un ragazzo che impara ad annodare La cravatta, in segreto, di suo padre,
E di quel padre la faccia, Ancora calda nel mistero della schiuma. Ora ci sono più padri di quanti siano i figli. Qualcosa li pervade, qualcosa
Che è come il suono crepuscolare Dei grilli, immenso, Che riempie i boschi ai piedi del declivio Al di là delle loro case ipotecate.
La sera della mente
Ecco che giunge la sera della mente. Ecco qui lucciole contorcersi nel sangue; Ecco lo scorrer giù dell'ombra sulla pagina Mentre siedi a leggere al muro del giardino. Ora i peschi nani, inchiodati alle loro ingraticciate, Fremono e s'incurvano. Conosci le loro voci, ora, I peschi martoriati che deboli gridano Il tuo nome, il nome che nessuno conosce a parte te. E' questa l'aura, è questo l'accadere. E' questa la cosa che discende, qui, e volteggia. E ora estrae un artiglio e tu l'afferri. Nel tuo grembo l'afferri, così riconoscente.
Hai detto che non avresti voluto andare ancora, Che non volevi andare -- eppure, E' come se tu stessi in piedi su di un molo A guardare una barchetta trascinata via Oltre le secche di falasco, i pesci morti ... E tu eri a bordo, sfiorando vecchi tronchi, Oltre e oltre, sotto un cielo d'ottone Muto come un gong prima che sia colpito -- Sospeso quanto? -- e ora lo colpiscono, ora Si ripete il sogno eterico vecchio di cinque anni, Si ripete, e tu devi svegliarti ancora col tuo sangue E spazi vuoti in gola. (2)
(1) il riferimento è al personaggio principale del film Quarto potere (Citizen Kane - 1941) di Orson Welles (2) il poeta si riferisce ai problemi di salute che lo avevano periodicamente afflitto, fino all'apoplessia che lo aveva colpito pochi mesi prima della morte avvenuta nel 2004
(trad. G.Cerrai - 2010. Diritti riservati)
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Martedì, 6 aprile 2010
L'arte figurativa spesso offre spunti e ispirazione al poeta, come ad esempio è possibile leggere in Auden (v. qui). Ecco quindi una "lettura" di Masaccio da parte del poeta americano John Koethe. L'opera a cui fa riferimento è, ovviamente, la "Cacciata dal Paradiso" della Cappella Brancacci in S.Maria del Carmine a Firenze, che il poeta ha visitato durante un viaggio in Italia.
da In Italia 2-Cacciata dal Giardino
È difficile ricordare che si sia mai stati qui, o cosa ci fosse di tanto eccezionale in quell'esserci. Ogni mattino un sole nuovo di zecca sorgeva in un cielo nuovo, e i canti degli uccelli colmavano l'aria. C'erano tutte quelle cose a cui dare un nome, e niente sesso. I bambini avevano preso quel che Dio gli aveva dato - un mondo retto in comune, una forma di vita senza peccato né complessità morale, un paradiso primaverile con tanto di serpenti - e se l'erano venduto per una sciocchezza, per la gloria della conoscenza contenuta nella mela fatale. A ogni buon conto, questa è la storia ufficiale.
Nell'affresco di Masaccio nella Cappella Brancacci le figure sono più pìccole di quanto ci si aspetti e mancano di contesto, e sembrano tanto più tragiche. Il Giardino è implicito su quei volti, descritto grazie alla magia elusiva del non-rappresentato. Il braccio abbandonato di Eva le nasconde il sesso. Non c'è molto altro da vedere, perché le domande importanti, le domande alle quali si torna incessantemente, non riguardano la loro dimora perduta, non raffigurata, ma sono quelle formulate dalle loro bocche stravolte: Cosa siamo adesso? Cosa diverremo?
Pensatelo come se fosse un qualsiasi stato che abbia preceduto il momento attuale, questa prigione del sé. L'idea del Giardino è l'idea di qualcosa di tangibile che si è ritirato nei racconti, nella poesia. Con l'invecchiare, diventa una questione non tanto di ampi intervalli quanto di momenti secondari molto simili a quelli di oggi, che la strana geometria del tempo ha reso irreali. Eppure la domanda, riproposta di nuovo ogni giorno, è la stessa, anche se la persona che la pone non è la stessa: Cosa sono adesso? Cosa sono diventato?
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Venerdì, 17 aprile 2009
Moon
Open the book of evening to the page
where the moon, always the moon appears
between two clouds, moving so slowly that hours
will seem to have passed before you reach the next page
where the moon, now brighter, lowers a path
to lead you away from what you have known
into those places where what you had wished for happens,
its lone syllable like a sentence poised
at the edge of sense, waiting for you to say its name
once more as you lift your eyes from the page
close the book, still feeling what it was like
to dwell in that light, that sudden paradise of sound. Luna
Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, sempre la luna, ancora appare
lì tra due nuvole, muovendosi piano, così piano che sembrerà
siano trascorse ore prima che possa voltare alla pagina seguente
lì dove la luna, più luminosa ora, fa approdare un sentiero
che ti conduca via da ciò che hai appreso
dentro i luoghi in cui tutto quello che avevi sperato si avvera,
la sua sillaba solitaria come un bisbiglio penzoloni
al margine del senso, ad aspettare che sia tu a pronunziarne il nome
ancora una volta staccando lo sguardo dalla pagina
chiudendo il libro, ancora sentendolo così com'era
quel sospendersi nella sua luce, quell'inatteso paradiso del suono.
Eating Poetry
Ink runs from the corners of my mouth.
There is no happiness like mine.
I have been eating poetry.
The librarian does not believe what she sees.
Her eyes are sad
and she walks with her hands in her dress.
The poems are gone.
The light is dim.
The dogs are on the basement stairs and coming up.
Their eyeballs roll,
their blond legs burn like brush.
The poor librarian begins to stamp her feet and weep.
She does not understand.
When I get on my knees and lick her hand,
she screams.
I am a new man.
I snarl at her and bark.
I romp with joy in the bookish dark.
Mangiare poesia
Cola inchiostro dagli angoli della mia bocca.
Non c'è felicità pari alla mia.
Ho mangiato poesia.
La bibliotecaria non crede ai suoi occhi.
Ha gli occhi tristi
e cammina con le mani chiuse nel vestito.
Le poesie sono scomparse.
La luce è fioca.
I cani sono sulle scale dello scantinato, stanno salendo.
Gli occhi ruotano le orbite,
le zampe chiare bruciano come stoppia.
La povera bibliotecaria comincia a battere i piedi e a piangere.
Non capisce.
Quando mi inginocchio e le lecco la mano,
urla.
Sono un uomo nuovo.
Le ringhio, abbaio.
Scodinzolo di gioia nel buio libresco.
Trad. natàlia castaldi, 2009
Mark Strand, poeta e narratore, è nato nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, ed è cresciuto negli USA. E' autore di vari volumi di poesia, e di racconti, saggi, libri per bambini e scritti sull’arte. Ha ricevuto numerosi prestigiosi riconoscimenti, tra cui la McArthur Fellowship, la nomina a Poeta Laureato degli Usa (1990), il Premio Pulitzer per la Poesia (1999) e il Wallace Stevens Award (2004). E' tra l'altro traduttore di Rafael Alberti e Carlos Drummond De Andrade. Attualmente è docente presso la Columbia University dove insegna letteratura e scrittura creativa.
Natàlia Castaldi vive e lavora a Messina. E' traduttrice professionale e scrittrice. Il suo blog è "Frammenti poetici" (link), il sito professionale è "Babelfault" (link). Cura, insieme ad Antonella Foderaro e Abele Longo, l'interessante blog di poesia e pensiero "Filosofi per caso" (link)
Martedì, 9 dicembre 2008
Riprendo dopo circa tre anni un’autrice del tutto inedita in Italia, Jane Kenyon, che può essere ascritta a quella linea intimista e confessionale, categoria sotto molti aspetti generica e discutibile a cui appartengono autrici come Sylvia Plath e Anne Sexton. Una poesia di piccole occasioni, minimalista, in cui la natura, gli alberi, gli animali sono spesso presenti, e in cui costantemente serpeggia, anche quando non è nominata, la malinconia e la depressione, protagonista qui della prima poesia. Pubblico, in una mia traduzione, cinque testi provenienti da raccolte diverse. Trovate altre poesie e note bio-bibliografiche nei post precedenti qui e qui
Briefly It Enters, and Briefly Speaks
I am the blossom pressed in a book,
found again after two hundred years. . . .
I am the maker, the lover, and the keeper. . . .
When the young girl who starves
sits down to a table
she will sit beside me. . . .
I am food on the prisoner's plate. . . .
I am water rushing to the wellhead,
filling the pitcher until it spills. . . .
I am the patient gardener
of the dry and weedy garden. . . .
I am the stone step,
the latch, and the working hinge. . . .
I am the heart contracted by joy. . .
the longest hair, white
before the rest. . . .
I am there in the basket of fruit
presented to the widow. . . .
I am the musk rose opening
unattended, the fern on the boggy summit. . . .
I am the one whose love
overcomes you, already with you
when you think to call my name. . . .
Entra, e in breve parla
Io sono il boccio pressato in un libro,
ritrovato dopo duecento anni...
Sono l’artefice, l’amante, il guardiano...
Quando la giovinetta affamata
siede alla tavola
siede proprio accanto a me...
Sono cibo nel piatto del prigioniero...
Sono acqua che scorre veloce alla sorgente,
e riempie la brocca fino a che trabocca...
Sono il paziente giardiniere
di un arso e trascurato giardino...
Sono il gradino di pietra,
il chiavistello, e il cardine efficiente...
Sono il cuore contratto dalla gioia...
i capelli più lunghi, bianchi
prima del riposo...
Sono là, nel cesto di frutta
offerto in dono alla vedova...
Sono la rosa muschiata che s’apre
inattesa, la felce sulla cima paludosa...
Sono colei il cui amore
ti sovrasta e già ti è accanto
proprio quando tu pensi di chiamarmi...
Continua a leggere "Jane Kenyon - Cinque poesie"
Lunedì, 4 agosto 2008
Una poesia/racconto di Heather McHugh, ironica e autoironica, di ambientazione italiana, sulla poesia, su come a volte stranamente si manifesti e su altre cose. Da sottolineare la dedica a Fabio Doplicher (1938-2003), poeta triestino di valore forse più noto all'estero che in patria. Sarei poi curioso di conoscere il nome del politico citato. Se qualcuno lo conosce me lo faccia sapere...
QUELLO CHE LUI PENSO'
per Fabio Doplicher
Avevamo un incarico da svolgere in Italia
e, pieni del senso di
noi stessi (il nostro essere
Poeti Americani) andammo
da Roma a Fano, incontrammo
il sindaco, filosofeggiammo
su un paio di faccende (cosa vuol dire
cheap date, ci chiesero; cosa vuol dire
flat drink). Fra gli intellettuali italiani
riuscivamo a riconoscere i nostri corrispettivi:
l'accademico, l'apologeta,
l'arrogante, l'erotico,
lo sfrontato e il loquace - e c'era un
politico locale (il conservatore), in completo
grigio d'ordinanza, che come un bravo cicerone
con ritmo misurato e voce piatta ci narrava
le storie e i monumenti che sfrecciavano dietro i finestrini del
furgoncino a nolo.
Di tutti, lui era il più politico e il meno poetico,
a quanto pareva. Uno degli ultimi giorni a Roma
(quando erano rimasti solo tre Bardi del Nuovo Mondo)
trovai un libro di poesie che questo
uomo non simpatico aveva scritto: era lì
nella camera (che lui aveva raccomandato) della pensione;
forse era stato lasciato lì dal
villeggiante tedesco (c'era un pullman carico di quelli?)
per il quale erano state scritte la dedica e la data di un mese prima.
Neanch'io sapevo leggere l'italiano, perciò rimisi il libro
nell'oscurità dell'armadio. Noi ultimi Americani
dovevamo partire il giorno dopo. Per la serata d'addio allora
il nostro ospite scelse una trattoria a gestione familiare, dove
rimanemmo
seduti a chiacchierare, seduti a sgranocchiare,
finché, consapevoli che era la nostra ultima
grande occasione di essere poetici, di lasciare
un segno, uno di noi disse
"Cos'è la poesia?
La frutta e la verdura e
il mercato di Campo de' Fiori, o
la statua che si trova lì?" Essendo io
la loquace, scovai la risposta
all'istante, senza doverci pensare: "In realtà
tutt'e due, è tutt'e due", mi affrettai a dire. Ma
era facile. Era facilissimo a dirsi. Quanto seguì
mi insegnò qualcosa sulla difficoltà,
poiché il nostro sottovalutato ospite prese la parola,
tutt'a un tratto, in un crescendo di passione, e disse:
La statua raffigura Giordano Bruno
portato al rogo sulla pubblica piazza
per un crimine commesso contro
l'autorità, sarebbe a dire
la Chiesa. Il suo reato era credere
che l'universo non gira attorno
all'uomo: Dio non è
un punto fisso né un governo centrale, ma qualcosa che
si riversa a onde attraverso tutte le cose. Tutte le cose
si muovono. "Se Dio non è l'anima in sé, allora è
l'anima dell'anima del mondo". Era questa
la sua eresia. Il giorno che lo portarono
a morire, temevano potesse
fomentare la folla (era un uomo famoso
per la sua eloquenza). Perciò i suoi aguzzini
gli misero sul volto
una maschera di ferro, così
non poteva parlare. Ecco come
è morto: senza una parola, davanti
a tutti.
E la poesia -
(tutti noi
avevamo posato le forchette a quel punto, per ascoltare
l'uomo in grigio; e lui riprese
piano) -
poesia è quello che
lui pensò, ma che non disse
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- da "West of your cities - nuova antologia della poesia americana"
a cura di Mark Strand e Damiano Abeni, Minimum Fax 2003 - trad. Damiano Abeni. Il testo originale è contenuto in New Poems (1987-1993)
Heather McHugh è nata a San Diego nel 1948. Ha pubblicato numerosi libri di poesie, ottenendo svariati riconoscimenti. Insegna al Warren Wilson College e alla State University di Washington. Dal 2000 è membro dell'Accademia Americana di Arti e Scienze
Lunedì, 15 ottobre 2007
IL BACIO
La mia bocca si schiude come un taglio.
Sono stata bistrattata tutto l'anno, notti
tediose, niente se non ruvidi gomiti contro di esse
e delicate scatole di Kleenex a dirmi piagnona
piagnona, stupida!
Prima d'oggi il mio corpo era inutile.
Ora cerca di strappar via i suoi spigoli.
Scappa via, nodo a nodo, dagli abiti della vecchia Mary
e, guarda - Ora è cangiante pieno di questi lampi elettrici.
Zang! Resurrezione!
Una volta era una barca, legnosa
e con niente da fare, senza acqua salata sotto di sè
e bisognosa di una ridipinta. Era niente di più
d'un mucchio d'assi. Ma tu l'hai sollevata, l'hai armata di nuovo.
Lei è stata eletta.
I miei nervi si sono riaccesi. Li ascolto come
strumenti musicali. Dove c'era silenzio
tamburi, corde stanno inguaribilmente suonando. Sei stato tu.
Puro genio all'opera. Caro, il compositore ha camminato
nel fuoco
THE KISS
My mouth blooms like a cut.
I've been wronged all year, tedious
nights, nothing but rough elbows in them
and delicate boxes of Kleenex calling crybaby
crybaby , you fool !
Before today my body was useless.
Now it's tearing at its square corners.
It's tearing old Mary's garments off, knot by knot
and see -- Now it's shot full of these electric bolts.
Zing! A resurrection!
Once it was a boat, quite wooden
and with no business, no salt water under it
and in need of some paint. It was no more
than a group of boards. But you hoisted her, rigged her.
She's been elected.
My nerves are turned on. I hear them like
musical instruments. Where there was silence
the drums, the strings are incurably playing. You did this.
Pure genius at work. Darling, the composer has stepped
into fire.
LA MUSICA MI NUOTA INCONTRO
Aspetti Signore. Qual'è la strada di casa?
Hanno spento le luci
e il buio trasloca nell'angolo.
Non ci sono cartelli in questa stanza,
quattro signore, più che ottantenni,
e tutte in pannoloni.
La la la, Oh la musica mi nuota incontro
e io posso sentire la canzone che suonavano
la notte che mi lasciarono
in questo ricovero privato su in collina.
Immagina. Una radio suonava
e tutti quanti qui erano pazzi.
Mi piacque e danzai in cerchio.
La musica fluisce al di sopra del senso
e in qualche strano modo
la musica vede più di quanto io possa.
Ricorda, voglio dire, meglio;
ricorda la mia prima notte qui.
Era il freddo strozzato di Novembre;
perfino le stelle in cielo erano legate
e quella troppo brillante luna
che biforcava attraverso le inferriate ad infilzarmi
con un canto in testa.
Ho dimenticato tutto il resto.
Mi legano a questa sedia alle otto di mattina
e non ci sono cartelli a indicare la strada,
solo la radio che da il ritmo a se stessa
e la canzone che ricorda
più di quanto io possa. Oh, la la la,
la musica mi nuota incontro.
La notte che sono arrivata ho ballato un cerchio
e non avevo paura.
Signore?
MUSIC SWIMS BACK TO ME
Wait Mister. Which way is home?
They turned the light out
and the dark is moving in the corner.
There are no sign posts in this room,
four ladies, over eighty,
in diapers every one of them.
La la la, Oh music swims back to me
and I can feel the tune they played
the night they left me
in this private institution on a hill.
Imagine it. A radio playing
and everyone here was crazy.
I liked it and danced in a circle.
Music pours over the sense
and in a funny way
music sees more than I.
I mean it remembers better;
remembers the first night here.
It was the strangled cold of November;
even the stars were strapped in the sky
and that moon too bright
forking through the bars to stick me
with a singing in the head.
I have forgotten all the rest.
They lock me in this chair at eight a.m.
and there are no signs to tell the way,
just the radio beating to itself
and the song that remembers
more than I. Oh, la la la,
this music swims back to me.
The night I came I danced a circle
and was not afraid.
Mister?
Anne Sexton è una delle esponenti della cosidetta poesia confessionale americana."Una specie di rinascita a ventinove anni: così Anne Sexton definisce l'inizio della sua carriera poetica. Cominciò a scrivere versi nell'ospedale psichiatrico che la ospitava, e incoraggiata dai medici a proseguire quella sorta di poetry therapy, essa stessa dirà in seguito: "Poetry, after all, milks the inconscious". Con disperata tenacia, Anne Sexton, tormentata da periodiche crisi depressive che la spingeranno più di una volta al suicidio, farà della poesia una esaltante e sofferta ragione di vita per tutto il resto dei suoi anni" (da una nota di Laura Coltelli, prima traduttrice di A.S.). In questo così somigliante a Sylvia Plath, a Jane Kenyon (anche lei presente qui) ma anche, a parte il drammatico esito finale, alla nostra Alda Merini, compreso l'uso per così dire terapeutico (non sempre con esiti felici) della scrittura. Le traduzioni sono mie.
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