Martedì, 10 luglio 2018
Sebastiano Aglieco - Infanzia resa - Il Leggio
Libreria Editrice, 2018
Il bambino sviluppa da subito un legame affettivo con l’insegnante, il
quale resta, comunque e da sempre, un punto di riferimento
affettivo/comportamentale e di vicinanza. Il fattore di attaccamento (vedi
teoria dell’attaccamento di Bowlby) garantisce al piccolo la sopravvivenza
in un ambiente sociale in cui il bisogno di protezione è prioritario quanto
la necessità di scaricare pulsioni e di alimentarsi. Nei primi scambi
insegnante-bambino possono manifestarsi momenti di sconforto/conforto e
segnali di richiesta di aiuto (contatto fisico, paura) esibiti dal bambino.
Quindi, la relazione tra i due diventa struttura portante per la formazione
cognitiva, psicologica ed emozionale del bambino, ma anche dell’adulto con
cui tutti i giorni il piccolo viene in contatto. Infanzia resa,
importante lavoro poetico di Sebastiano Aglieco, poeta e insegnante, non è
un libro fiabesco, anzi. Ci troviamo di fronte a una struttura acquisita
del conoscere la realtà semplice e affabile dei bambini in maniera civile e
visionaria. Il libro è introdotto dalla prefazione dell’acuto Massimiliano
Magnano e si conclude con una illuminante intervista curata da Vincenzo Di
Maro. Sebastiano Aglieco, nella sua nota e nell’intervista, ha premura di
accompagnarci nella lettura di alcuni testi e sezioni inserite nel libro
(Collana Radici, Il Leggio Libreria Editrice, 2018 diretta da Gabriela
Fantato); infatti, ci suggerisce, con tono pacato e naturale, di
approfondire e soffermarci sui colori di alcuni passaggi a lui cari e
mettendo a fuoco i piani universali della poesia, molto spesso persa nei
labirinti superficiali della disattenzione. L’ambientazione è la scuola e i
personaggi gli studenti: qui la poesia fa il suo ingresso come metodo di
comunicazione, descrizione e azione autentica per identificarsi con il
proprio e l’altrui animo. Un concreto nucleo di concentrazione del mondo
come riferimento straordinario per esaltare immagini e pensiero: la tecnica
espressiva del poeta ci educa al desiderio di indagare il vissuto
sensoriale di ciascuno di noi, lettori/allievi, usando toni sacri
dell’esperienza quotidiana al fine di evitare il rischio di allontanarci
dalla vita. Aglieco imbastisce un canto delle origini di declinazione etica
e umana in cui l’amore per la fedeltà al confronto assume sembianza
analitica e incrocio/fusione di identità. Non è casuale incontrare il poeta
bambino nell’adulto e l’adulto nel piccolo, una osmosi etica che riconsegna
vita alla vita per osare la via diretta della verità. (rita pacilio)
Continua a leggere "Sebastiano Aglieco - Infanzia resa, nota di Rita Pacilio"
Domenica, 12 gennaio 2014
SEBASTIANO AGLIECO – COMPITU RE VIVI - IL PONTE DEL SALE 2013
Qualunque forma vivente con un sistema nervoso piuttosto elaborato può provare sensazioni di dolore e di piacere regolando la propria sopravvivenza
attraverso meccanismi di rigetto, per quanto riguarda gli stimoli negativi, e di assorbimento per quelli positivi. Purtroppo, però, non sempre è semplice
rifiutare ciò che procura dolore, sofferenza, paura, ansia, vergogna; anzi per gli studiosi di psicologia, queste emozioni, spesso, aiutano l’individuo a
regolare i propri percorsi di adattamento psicosociale. Nei primissimi anni di vita si impara ad ‘attaccare/fuggire’ oppure ad ‘afferrare/stringere’ per
fronteggiare l’angoscia della paura e della solitudine e si apprende che l’unico corollario possibile per ‘salvarsi’ è l’amore. Il tema dominante del
lavoro in poesia di Sebastiano Aglieco, infatti, è l’amore inteso come dovere/compito propedeutico di ciascun essere umano nei confronti di se stesso e
dell’altro. Il poeta è psicologo e formatore, sa che le esperienze passate possono condizionare comportamenti e attese creando ansie che spesso i fatti non
possono giustificare. Ecco perché l’autore riporta a galla i vissuti di luoghi del passato portando alla luce quelle stesse sensazioni, la complessità di
quelle vulnerabilità, che per quanto superate, possono ancora produrre effetti e reazioni. Il motivo è chiaro perché lo spazio e il tempo somatizzano tutto
ciò che accade nel sé sociale sempre più minacciato da equilibri instabili, dall’eco dell’imprevedibilità dell’esistenza, dallo stretto legame che
sussiste tra le forme di dipendenza/rassicurazione e distacco/angoscia. Ecco perché Aglieco parte dalle primissime fasi evolutive per insegnarci a
guardare/sentire parole, linguaggi, luoghi, emozioni e simbolismi: i bambini sono il punto focale intorno a cui si sviluppa il mondo degli adulti e il
futuro. Imparare a sostituirsi a essi, in modo empatico, ci permette di comprendere il disagio soggettivo e lo svantaggio sociale dell’eventuale
comportamento emozionale patologico. Il senso di responsabilità educativa dell’autore analizza, fruga, penetra gli scenari interiori attraverso
l’osservazione esteriore (muro, cortile, buio, mare, candele …) di fasi simboliche che cristallizzano le fasi senso-motorie funzionando a
livello di esercizio di incroci tra la lingua dialettale, lo sviluppo del pensiero e la disponibilità all’azione appropriata. Si sopravvive al pianeta
sociale con la preghiera, con l’atto di accoglimento dello stereotipo, del pregiudizio, della selezione naturale, attraversando la perfezione di un disegno
a priori che si libera della superstizione, della paura, della punizione, del male. La Madonna/madre ridimensiona l’impatto con la propria vulnerabilità.
Padre e madre diventano i portatori di un meccanismo riproduttivo sempre più di fondamentale riferimento e non figure casuali e
l’amore/salvezza/purificazione ritorna a sollecitare la comprensione della conflittualità interiore distruttiva per sentirsi sostenuti e automaticamente
aiutati a evolversi, a migliorarsi. (rita pacilio)
Continua a leggere "Sebastiano Aglieco - Compitu re vivi, nota di Rita Pacilio"
Giovedì, 2 settembre 2010
Su questa raccolta di Enrico De Lea (Ruderi del Tauro, Ed. L’Arcolaio 2009) sono già state fatte, in almeno due occasioni, interessanti osservazioni,
che posso in gran parte sottoscrivere. Se Sebastiano Aglieco nella sua postfazione parla di "parola scortecciata" e insieme salvata, "arginata", e di
un testo "stratificato, ma anche connotato in una lingua - lingua difficile la definirei", Federico Francucci su Atelier (n. 46/2007) rimarca invece
una "duplicità linguistica, una lingua biforcuta", nel senso di una lingua dell'uso e delle cose da una parte, e dall'altra la stessa lingua dell’uso
ma "sottoposta a un’opera, tutta in negativo, di raschiamento, sottrazione" che consente "l'inabissamento delle parole nelle parole" (e questo vedremo
che significato potrebbe avere).
Aggiungerei semmai qualcosa, partendo dalla constatazione che, a mio avviso, il principale protagonista di questo libro, al di là delle sue
articolazioni e dei suoi riferimenti oggettivi, è il linguaggio. Questa affermazione necessita già, di per sé, di un chiarimento. Non si tratta di
sottolineare infatti la rilevanza, in questa raccolta, del linguaggio e del suo uso strumentale e artistico, come mezzo cioè di espressione o
di denominazione, ma piuttosto la sua selezione, la scelta che l'autore ne fa selezionandolo, per poi collocarlo o spostarlo nell'ambito della
narrazione poetica, che va vista qui però come ambientazione (o collocazione) del protagonista principale, appunto il linguaggio. In questa
prospettiva si possono almeno delineare alcune funzioni o caratteri del linguaggio poetico di De Lea. Ma prima occorre segnalare, che mi pare
importante, una doppia distanza, geografica e antropologica, che marca l'esperienza di De Lea, il sud natale e il nord in cui vive, i mestieri
artigianali e legati agli elementi acqua/terra e l'acculturazione e una professione di quelle in cui tra l'altro il linguaggio è rigidamente normato.
Ma torniamo alle funzioni.
C’'è nella partenza dalla terra natale un abbandono di forze ctonie? o un senso di sradicamento che in qualche modo si teme di pagare? l'allontanarsi
dal luogo di origine è anche e contemporaneamente il riconoscimento di un genius loci a cui dare tributo? è inoltre, se vogliamo, una diminutio
della propria identità e insieme un distacco per trovarne una nuova? è possibile volgere senza timore lo sguardo verso materia/Euridice? Credo sia
possibile percepire nel lavoro di De Lea tutte queste domande, e forse altre. Mentre non so, davvero, se sia possibile trovare altrettante risposte.
Sta di fatto che mi pare di scorgere sotto traccia, ne I Ruderi e nel loro linguaggio, un che di apotropaico, almeno nel doppio significato di
scongiuro e di tenere a (debita) distanza. In questo senso, ciò che dice Francucci circa “l’inabissamento delle parole nelle parole” è coerente e
funzionale. Il linguaggio si fa non tanto mimetico e sfuggente quanto misterico e sibillino, le parole stanano e rovesciano le parole, le caricano di
una forte valenza simbolica. Da qui alla creazione di una specie di mito o mitologia delle radici, alla loro “sacralizzazione”, la distanza non è
molta. Se ammettiamo che questa funzione apotropaica del linguaggio (fosse essa nelle intenzioni di De Lea o meno) sia vera, superiamo anche quella
sua “difficoltà” a cui accenna Aglieco e ne attestiamo il valore artistico, proprio perché sostanzialmente diverso, diversamente motivato e molto meno
“freddo” e artificiale rispetto ad “altre prove di scrittura difficile di questi anni” (cito sempre Aglieco).
Su un altro, ma non lontano, versante, mi sembra di cogliere altri spunti. Quello che mi è risultato inevitabile, leggendo questo libro, è tornare con
la mente al buon vecchio Freud.
Non si tratta qui di fare dello psicologismo di seconda mano, ma di cercare di individuare meglio (in primis per me stesso) certe impressioni, per
quanto - ammetto - azzardate. Potremmo dire intanto con una boutade che se l’inconscio è strutturato come -> un linguaggio (Freud, Lacan, altri)
c’è qualche probabilità che questa corrispondenza, in determinate condizioni, agisca anche in senso contrario. Che l’io in questo libro sia
sostanzialmente censurato come protagonista è incontestabile. Da questo fatto mi era parso di intravedere come fossero state assegnate al linguaggio
almeno altre due funzioni: una di dislocazione (o di spostamento, se preferite), che non è solo geografica ovviamente, come quella tra nord e
sud. Avviene invece, per definizione accademica, quando il pensiero centrale (in questo caso di chi scrive) viene posto ai margini e sostituito con
frammenti, icone, simboli o, come nel caso di De Lea, con parole od espressioni di pertinenza di quella cultura, di quel locus di cui si diceva
prima e perciò dense e stratificate e mitiche. Tutto materiale che a sua volta, nello spostamento, diventa centrale nella rappresentazione, marcandola
di tracce identificative. Un’operazione, se ci si pensa, eminentemente poetica, perché ellittica, elusiva, ammiccante, impressionista.
Un’operazione – anche – che potrebbe essere avvicinata a quella metonimia a cui Lacan, un po’ arbitrariamente, accostava lo spostamento.
L’altra funzione che potremmo richiamare, sempre con il beneficio del dubbio, non può che essere quindi quella della condensazione, che si accosta, se
vogliamo continuare a tirare in ballo Lacan (e Jakobson) alla metafora. Il lavoro di De Lea è senza dubbio vastamente metaforico, a cominciare da tutti
i riferimenti culturali e semantici del suo locus, ma anche, in molte parti, da una “densità” del linguaggio poetico costruita non solo
sintatticamente (elisione di avverbi o locuzioni), ma anche per associazioni che molto hanno di onirico o per generalizzazioni (i padri, le madri) che
molto si avvicinano alle “persone miste” (Freud) del sogno. Questa condensazione riconduce al simbolo, il simbolo ci riporta al mito. Nell’opera
artistica (un’altra e diversa manifestazione di “sogno”) contenuto e forma interagiscono e si compenetrano, e il linguaggio (spesso meravigliosamente
“laconico”) svolge la sua opera che non è soltanto quella del dire (l'enigma del puro proferire) ma, in questo libro, anche quella del salvare il suo autore.
Continua a leggere "Su Ruderi del Tauro di Enrico De Lea"
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