Giovedì, 2 settembre 2010
Su questa raccolta di Enrico De Lea (Ruderi del Tauro, Ed. L’Arcolaio 2009) sono già state fatte, in almeno due occasioni, interessanti osservazioni,
che posso in gran parte sottoscrivere. Se Sebastiano Aglieco nella sua postfazione parla di "parola scortecciata" e insieme salvata, "arginata", e di
un testo "stratificato, ma anche connotato in una lingua - lingua difficile la definirei", Federico Francucci su Atelier (n. 46/2007) rimarca invece
una "duplicità linguistica, una lingua biforcuta", nel senso di una lingua dell'uso e delle cose da una parte, e dall'altra la stessa lingua dell’uso
ma "sottoposta a un’opera, tutta in negativo, di raschiamento, sottrazione" che consente "l'inabissamento delle parole nelle parole" (e questo vedremo
che significato potrebbe avere).
Aggiungerei semmai qualcosa, partendo dalla constatazione che, a mio avviso, il principale protagonista di questo libro, al di là delle sue
articolazioni e dei suoi riferimenti oggettivi, è il linguaggio. Questa affermazione necessita già, di per sé, di un chiarimento. Non si tratta di
sottolineare infatti la rilevanza, in questa raccolta, del linguaggio e del suo uso strumentale e artistico, come mezzo cioè di espressione o
di denominazione, ma piuttosto la sua selezione, la scelta che l'autore ne fa selezionandolo, per poi collocarlo o spostarlo nell'ambito della
narrazione poetica, che va vista qui però come ambientazione (o collocazione) del protagonista principale, appunto il linguaggio. In questa
prospettiva si possono almeno delineare alcune funzioni o caratteri del linguaggio poetico di De Lea. Ma prima occorre segnalare, che mi pare
importante, una doppia distanza, geografica e antropologica, che marca l'esperienza di De Lea, il sud natale e il nord in cui vive, i mestieri
artigianali e legati agli elementi acqua/terra e l'acculturazione e una professione di quelle in cui tra l'altro il linguaggio è rigidamente normato.
Ma torniamo alle funzioni.
C’'è nella partenza dalla terra natale un abbandono di forze ctonie? o un senso di sradicamento che in qualche modo si teme di pagare? l'allontanarsi
dal luogo di origine è anche e contemporaneamente il riconoscimento di un genius loci a cui dare tributo? è inoltre, se vogliamo, una diminutio
della propria identità e insieme un distacco per trovarne una nuova? è possibile volgere senza timore lo sguardo verso materia/Euridice? Credo sia
possibile percepire nel lavoro di De Lea tutte queste domande, e forse altre. Mentre non so, davvero, se sia possibile trovare altrettante risposte.
Sta di fatto che mi pare di scorgere sotto traccia, ne I Ruderi e nel loro linguaggio, un che di apotropaico, almeno nel doppio significato di
scongiuro e di tenere a (debita) distanza. In questo senso, ciò che dice Francucci circa “l’inabissamento delle parole nelle parole” è coerente e
funzionale. Il linguaggio si fa non tanto mimetico e sfuggente quanto misterico e sibillino, le parole stanano e rovesciano le parole, le caricano di
una forte valenza simbolica. Da qui alla creazione di una specie di mito o mitologia delle radici, alla loro “sacralizzazione”, la distanza non è
molta. Se ammettiamo che questa funzione apotropaica del linguaggio (fosse essa nelle intenzioni di De Lea o meno) sia vera, superiamo anche quella
sua “difficoltà” a cui accenna Aglieco e ne attestiamo il valore artistico, proprio perché sostanzialmente diverso, diversamente motivato e molto meno
“freddo” e artificiale rispetto ad “altre prove di scrittura difficile di questi anni” (cito sempre Aglieco).
Su un altro, ma non lontano, versante, mi sembra di cogliere altri spunti. Quello che mi è risultato inevitabile, leggendo questo libro, è tornare con
la mente al buon vecchio Freud.
Non si tratta qui di fare dello psicologismo di seconda mano, ma di cercare di individuare meglio (in primis per me stesso) certe impressioni, per
quanto - ammetto - azzardate. Potremmo dire intanto con una boutade che se l’inconscio è strutturato come -> un linguaggio (Freud, Lacan, altri)
c’è qualche probabilità che questa corrispondenza, in determinate condizioni, agisca anche in senso contrario. Che l’io in questo libro sia
sostanzialmente censurato come protagonista è incontestabile. Da questo fatto mi era parso di intravedere come fossero state assegnate al linguaggio
almeno altre due funzioni: una di dislocazione (o di spostamento, se preferite), che non è solo geografica ovviamente, come quella tra nord e
sud. Avviene invece, per definizione accademica, quando il pensiero centrale (in questo caso di chi scrive) viene posto ai margini e sostituito con
frammenti, icone, simboli o, come nel caso di De Lea, con parole od espressioni di pertinenza di quella cultura, di quel locus di cui si diceva
prima e perciò dense e stratificate e mitiche. Tutto materiale che a sua volta, nello spostamento, diventa centrale nella rappresentazione, marcandola
di tracce identificative. Un’operazione, se ci si pensa, eminentemente poetica, perché ellittica, elusiva, ammiccante, impressionista.
Un’operazione – anche – che potrebbe essere avvicinata a quella metonimia a cui Lacan, un po’ arbitrariamente, accostava lo spostamento.
L’altra funzione che potremmo richiamare, sempre con il beneficio del dubbio, non può che essere quindi quella della condensazione, che si accosta, se
vogliamo continuare a tirare in ballo Lacan (e Jakobson) alla metafora. Il lavoro di De Lea è senza dubbio vastamente metaforico, a cominciare da tutti
i riferimenti culturali e semantici del suo locus, ma anche, in molte parti, da una “densità” del linguaggio poetico costruita non solo
sintatticamente (elisione di avverbi o locuzioni), ma anche per associazioni che molto hanno di onirico o per generalizzazioni (i padri, le madri) che
molto si avvicinano alle “persone miste” (Freud) del sogno. Questa condensazione riconduce al simbolo, il simbolo ci riporta al mito. Nell’opera
artistica (un’altra e diversa manifestazione di “sogno”) contenuto e forma interagiscono e si compenetrano, e il linguaggio (spesso meravigliosamente
“laconico”) svolge la sua opera che non è soltanto quella del dire (l'enigma del puro proferire) ma, in questo libro, anche quella del salvare il suo autore.
(sequela del padre)
1. Nella notte del padre si contempla il pharmakon l'olivo e il raro volto e presso l'arco di pietra cimino l'occhio dissecca e albeggia. A lenimento della scala estesa, echi dal sonno, unguenti, nello specchio la barba incolta che vaneggia. Assedia la casa della silente veste mattiniera, usi d'acqua, disvela se profila alterno fiotto oceano al dolore, picco ad altare d'isola, foresto al capo roccioso dei padri, da valle moritura.
2. Il sole delle tortore ristora il padre, in ombra ulivo e pertica attorta. Fruschi non mali con la pernice esclusa e il cacciavento esangue, salva il seminatore il bel commiato all'alba, commercia con la tenebra, concima.
3. Ora, dunque, restaurare, avverso il risolino eterno del teschio, spargere a piene mani per il mondo, valletta o corte stracca, ora della scorza e patronimico.
4. A redenzione della cieca guida, prono ad escutere i tocchi della mezza campana dell'arme - la corsa del cane ringhiarne, il tinnito del sasso focaio - s'addice a siffatto tempo l'assorta sufficienza augurale, retrocedendo sino alla sanità dei passeri, ai massi anzi il proscenio ionico. Da manca, che l'alba sgomenta, lucus deserto del padre.
5. Dato all'ombra di Cesare il fruscio d'arcolaio, indossa il magro saio, spoliazione delle valli antemarine. Flagellante solerte, si percuote.
6. Per il libero essere del marmo intonso s'è nutricato il dio, falco appaiando e regio falconiere. Il ginocchio del pellegrino interra, in grembo, genera capretti. Alla caccia, alla caccia, l'ultima tenebra dei valloni coi cavalli bardati, i padri all'alba assediano, ove infame la quiete del tempio...
7. All'artefatto graffito riconduce della soppressa soglia familiare, sappia che a mercatura si riduce pianto in un padre, che non stagna tempo della gerbia, malgrado l'animale sfrontato sibilante regni.
8. Il corpo della voce trema alla vista del mare dei padri, cala l'oblio sull'odio necessario ed a voi, utenti dell'illuso teatro, par finalmente sceneggiata pace.
9. Trema la terra senza il padre, trema, promessa ostesa, d'un qualsivoglia frutto del verbo, ferula cannizzo scanno palma astuta d'ombra...
10. Passio omiletica della cava virtù, porge l'uovo della diruta casa, passato l'oltre del padre innervato, nell'asse del ciliegio. Chiedi pure, soror, al profetante Giovanni, allo scalzo precorde, al morto luminoso.
11. Conserva l'olio per la carità dei morti, per la pelle del silenzio consolante. Dal nerbo ustorio l'abito risuona, la contrada dei legni, la via petrosa al sole. Siano i veri, i procedenti a un fine, penombra del muschio paterno, narrativa del verbo senza carne.
12. Consiste nella gogna forca vituperio un arco d'illusione, dopo il padre.
(et in hora)
1. Esercito del disamare, il guanto della fusione delle sabbie, accorrono i molesti invasori. Occorrono i laghi delle piane sembianze e delle mattanze sterili, delle lapidi.
2. Agita il no del nome con l'assente, la lode orbata l'orma minerale. Non soppesa la rappresaglia al tempo dell'angoscia. Nel prescritto del nuvolo ferace, notturno e cieco spasimo, al defraudato si rammenta della brama d'amplesso e buia vampa, non oltre il rintocco, il puro tocco nel transito in bora ...
3. Il tu del tradimento, malcelato passo dal patto, sale, s'inerpica per le pertiche che scuotono secolari alberi segreti, senza frutto.
4. Arte della visione include l'artificio acceso del volto noto nell'osceno sguardo, verso l'alto della caduta, creatura. Ordinanza notturna si dispone all'austera furia, marchio a fuoco dell'occhio e del rastrello ad un pietrame, memoriale ingenuo della sentina dei corpi, senza gioia.
(et salvaticus)
Nell'assoluta libertà dei morti, inquieto stormo nella cava regione dei gelsi, seta e commercio avito al nutricato, falsa nell'aura della lisca bianca, il ciclo della vigilia foraggia l'olio, vige luminescente il santo selvaggio.
(chiedere al lauro)
Chiedere al lauro d'altre possessioni aurorali, l'incedere dei pellegrinaggi verso altro mare ed un'oscura matronale essenza, ove sì siano l'isole pictate: con l'occhio dell'inquisito persempre, ragionaci, animale servente della zolla, arroventata carne dell'ultima, fedele rimostranza.
(cammino dei padri)
Procedono decisi alia solenne cessazione dell'orda memoriale, il teatro del mare universo, ad un'esumazione futura della fantasima mercatoria. Sì rapida allora giunge dalla cadenza terrena imperativa alla mèta del credo, al nero per il trono, come usura s'apprende, popolo arcano del frutto.
(anacoreta ex nìhilo)
Frusta la bianca veste in uno studio orante degli strati rocciosi. La condizione bianca prefigura i segni del mirto, del chinotto, del verdello. Lascito senza testamento, una lignea campana di passione e lutto, nella cerca del tronco della stirpe.
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