Giovedì, 11 ottobre 2018
LA PAROLA INFORME - esplorazioni e nuove scritture dell’ultracontemporaneità
a cura di SONIA CAPOROSSI - Marco Saya ed., 2018
Ricordo che diversi anni fa si parlava di mappature della poesia. Ah,
quanto se ne parlava! La linea lombarda, la linea marchigiana, la
generazione entrante, quella uscente, i territori paralleli...Sebbene già
allora le mappe non portassero in alcun luogo - con una certa soddisfazione
dei più borgesiani - oggi più che mai mi pare che l'orientamento sia
un'arte difficile, se non appoggiandosi, ancora, a categorie o
denominatori. (e poi, orientarsi in cosa? nella poesia in sé? nel reale ivi
(se) riconoscibile? nel fenomeno osservato? nell'osservatore?) etc. Se
l'orientamento è difficile non lo è tanto perché la poesia sia una giungla,
quanto perché la si vuole spesso e quasi di necessità collocare e
ri-collocare - spesso arbitrariamente - in ambiti e/o codici, meglio se
impermeabili tra loro, e questo crea problemi, se non proprio di dissidio e
opposizione, almeno di prospettiva e focalizzazione. Una opacità a cui si
potrebbe porre qualche rimedio se intanto si considerasse la produzione
poetica come una serie di oggetti (insiemi) intersecabili, un'ottica che
almeno (forse) consentirebbe di capire non tanto la realtà di uno
(o nessuno), quanto il punto di vista sul mondo di alcuni (o
molti) anche diversi, e quindi analizzarne in maniera feconda le
intersezioni e le osmosi, i problemi e le soluzioni adottabili e/o
sviluppabili. Non sto parlando di ecumenismo, e nemmeno di una diversa
antologia ([1]). Sto parlando
della necessità di ricostituire il peso della poesia (il peso
anche sociale e politico se volete) come strumento/funzione di indagine e
comprensione del presente.
Perché nel frattempo, come in ogni "litigio" o dissidio che si rispetti, il
terzo gode. Ecco, questo sì che è un problema interessante. Cioè chi/cosa
possa essere, nell'articolazione del presente (o dell'ultracontemporaneo,
per dirla con Sonia) questo tertium. Sarei orientato a pensare che
esso sia lo sfuggente convitato di pietra, quel camaleonte che perònon si mimetizza ma viene mimetizzato proprio da chi lo osserva, con uno strano fenomeno
ottico. Sto parlando del reale complesso, di quella
complessità che è un problema seriamente percepito da qualcuno (ad esempio
da uno almeno degli autori qui presenti) ma che è ben lungi dal trovare una
soluzione "artistica". E che allo stato attuale produce - spesso - un
intenso lavorio sul "come", soprattutto sul linguaggio come copia e
manifestazione iconica dell'indicibile, una neolingua come pallida
rappresentazione di un mondo/potere di comunicazioni verticali. Il
rapporto, per fare un esempio brutale, mi pare - qualche volta - quello tra
un bambino con le sue lallazioni e un mondo di adulti che impartiscono
ordini. C'è insomma un po' (molto) meno attività sul "cosa" si aggira (al
di là del groan individuale, anche se spacciato per lamento
collettivo/generazionale) all'interno dell'odierno reale complesso, che è
davvero, esso sì, ultracontemporaneo, perché in ultra-divenire( [2]).
Il linguaggio, oggi, mi pare abbia (ed è qualcosa che riguarda anche la polis) due direzioni principali, una di informazione,
l'altra di deformazione. Una dicotomia che va spiegata, a
cominciare dal primo braccio, la cui aria "positiva" non deve trarci in
inganno. La prima direzione, infatti, è quella della semplificazione, della reductio ad unum, dello slogan, ed è soprattutto politica, ed ha
la caratteristica di essere in-formante, non necessariamente in
aderenza alla realtà, anzi come riscrittura funzionale della
medesima, e con funzione estetica nulla. Paradossalmente è ciò che più si
avvicina al grado zero di Barthes, alla scrittura bianca, non
ovviamente quella di Camus a cui il filosofo francese faceva riferimento,
ma una scrittura in cui la riduzione della forma si combina, ancora una
volta paradossalmente, con l'instaurazione di un mito. Una scrittura
insomma non tanto astorica quanto alogica. L'altra direzione, restando nel
campo di questo libro, è quella della complessità, nel senso a cui
accennavo prima. Ma qui, nel momento in cui, di fronte al complesso,
l'esperienza individuale si restringe e arretra (cioè quando e perché non
riesce a diventare esemplare e - quindi - letteraria),
emerge una "inclinazione alla deformazione poietica del
dicibile... un concetto comune di parola informe" (Caporossi,
corsivi dell'autrice). Già, il dicibile. Io prima ho parlato di
"indicibile", e mi viene il dubbio che siano sinonimi, in questo contesto.
E che siano entrambi sinonimi di "infinito", ovvero un ammasso stellare di
materia che può o non può essere detta in poesia (se restiamo in questo
campo), in entrambi i casi fino alla noia. Un materiale poetico atomizzato,
in cui ogni frammento percepibile può essere potenzialmente una scintilla
testuale, un mini-bang espansivo, basta che l'artista trovi, magari una
volta per tutte, il suo modus, o la sua "forma informe", o come si
diceva una volta il suo stile. Ora, la buona notizia è quando - nella
migliore congiuntura - riesce a verificarsi quella "intuizione aurorale" a
cui si riferisce Caporossi nella sua prefazione, ovvero "la presa di
coscienza del paradosso sorgente dalle multiformi modificazioni del nesso
tra segno e significato, propria dell’esperienza poetica per eccellenza"
(appunto quella aurorale). Tralasciamo il carattere "raro" e empirico che
promana da questa definizione che richiama alla mente Benjamin (e
Baudelaire ancor prima), ma capisco bene e apprezzo l'intento critico (e la
proposta) di Sonia di ricondurre, ove si verifichi, il carattere (l'alloro)
di unicità (l'aura di Benjamin, quindi) dal capo dell'opera all'intuizione
del poeta (è l'idea, il concetto, del poeta che viene ad assumere
la sua unicità prima dell'opera). La cosa importante, sotto questa
prospettiva, è che, forse proprio per il suo empirismo, il risultato può
essere - davvero - "sperimentale". Il che, in parole poverissime, significa
davvero spostare in avanti certi limiti (espressivi, comunicativi,
interpretativi) che sono gli stessi, fondamentali, della poesia e
dell'agire artistico in genere.
La notizia meno buona è quando (in alcuni casi) ci coglie la sensazione che
la parola informe da una parte sia - per usare un paradosso - una "facile
via difficile". Ne ho già parlato brevemente, ma voglio essere più preciso.
Parlo di metodo, di modalità e/o maniera, anche autoalimentata; di estetica
del multiplo, di cliché come arte ecc. (a margine: il cliché come arte è
(sarebbe) già un buon approccio al complesso, se non si limita ad essere un
atto artigianale (o puramente concettualizzato) con cui si prende un
qualsiasi frammento del reale - soggetto quindi di/a casualità - e
lo si pone in un frame [stampo, forma, cast] pre-parato). Parlo di
una postura, o del rischio di essa. Una cosa che nessun poeta ammetterà
mai, ma è la riproducibilità (sempre per restare a Benjamin) della forma
(per quanto informe), la collocazione in un confortevole punto di quiete,
una cosa che Sonia può comprendere perché non dissimile da una malattia che
lei chiama "esordismo", c'est à dire la riproduzione dei temi e
moduli uguali a sé stessi, per una sorta di confortante conformità a
qualcosa di primevo che - aggiungo - sembri aver raggiunto una propria
"economia" funzionale.
Oppure, dall'altra parte, come dicevo all'inizio, che l'informale mimetizzi
l'indicibile (o quel che si può dire di esso) confondendolo con il suo
essere "naturalmente" oscuro (che è in sé una categoria nobile - e
indagabile), (ri)calcandone il gradiente di impenetrabilità ecc., che sia
quindi una parola - certo involontariamente - "organica", come si diceva
una volta, a un contemporaneo (ultra o meno) la cui complessità non è certo
governata dal poeta ma che il poeta, a mio avviso, deve tentare di
penetrare, senza rimbalzarci sopra come un sasso su uno stagno. Cosa, lo
ammetto, non facile, ma che rappresenta una sfida per il futuro.
Inutile dire a questo punto che questo libro antologia prende le mosse da
un assunto implicito, che cioè il punto di partenza (di questa mappa o di
altri itinerari) sia la poesia di ricerca o sperimentale - per quanto qui
solo nella sua veste semica e lineare - in ragione del suo accreditamento
di stato dell'arte avanzato della poesia (un accreditamento, per
inciso, a volte un po' "auto-") e per conseguenza più aderente al
contemporaneo "ultimissimo" o "iperattuale" (Caporossi) di riferimento. E
forse questo libro può apparire come un repertoire linguistico e
di competenze, di fatto centrato su uno specifico. Ma l'assunto della
curatrice deve essere accettato, pur con i suoi rischi e i suo punti
critici. Non solo perché della poesia di ricerca non c'è, come invece
sostiene qualcuno, una egemonia perfino ridicola da supporre e pertanto
essa non può che essere considerata un territorio "coltivabile" al pari di
altri, soprattutto se si cominciano a respingere rigidità di canoni,
codici, paradigmi; ma anche per il fatto che, al di là di tutte le
considerazioni fin qui fatte, questo libro è prezioso e meritorio, perché
offre non pochi spunti di dibattito (ce n'è un gran bisogno) e perché mi
pare non voglia affatto essere un punto di arrivo. Ma soprattutto perché ci
leggo una ambizione di fondo, che è quella che dovrebbe avere una critica
seria. Ovvero ciò che credo la critica oggi, se ancora ha una funzione,
debba fare: concorrere ad identificare non linee ma percorsi conoscitivi od
estetici (che in arte è lo stesso), arrogarsi il diritto di "inventare" o
imporre scoperte, argomentandole e difendendole, ma soprattutto di
rinvenire snodi, punti di frizione, articolazioni, percorsi non battuti,
indicando sentieri apparentemente invisibili. In questo sì "impura", o al
contrario totalmente pura perché il suo lavoro non è più trovare il
"buono", o giustificazioni plausibili al lavoro di questo o quello
scrittore specie se "difficile", o "nuove ontologie", che è una cosa che fa
ridere i polli. E' semmai quello di trovare idee, o "concetti", (e quindi
fare un "atto di creazione" per dirla con Deleuze). Mi pare che Caporossi
sia decisamente orientata in questo senso.
E tuttavia, se il legante è quello che individua Sonia, ovvero di un
"potere autonomo e autotelico della parola" che può svolgersi fino al
"raggiungimento del livello informe della parola (stessa),
condizione fluttuante in cui il senso si concede alla comprensione, di
volta in volta, nell’atto del suo stesso farsi", non so se questo può
bastare. E' in primis quella "condizione fluttuante" che mi fa pensare che
racchiuda in sé un'alea e che mi fa temere una scrittura/guscio di noce
alle mercé di una brutale corrente, per dirla con Shakespeare. E poi forse
si tratta - forse - di un problema categoriale, un ambito in cui si possono
far confluire anche troppe esperienze, anche decisamente contraddittorie,
come è successo nelle arti plastiche e figurative con l'informale, che
comunque possiamo considerare morto già alla fine degli anni Novanta.
E tuttavia, ancora, questo lavoro ha in sé un elemento fecondo ulteriore
(ma non involontario, ultroneo). In realtà, cioè, questa antologia, i cui
autori - come annota Caporossi - sono "ondeggianti sul filo pericoloso che
separa la natura crassamente lirica della poesia dal filone sperimentale o
di ricerca", potrebbe con qualche giovamento essere osservata da una
prospettiva verticale [longitudinale] che però non costituisce
necessariamente un confine, secondo il concetto che dicevo all'inizio, tra
aree in cui la parola informe è sì - per una parte rilevante - forma e medium, ma che poi veicola, a me pare, cose diverse, che
mi sembra evidenzino, almeno qui, almeno due direzioni, ed è questo che mi
interessa. Perché a un certo punto bisogna pur chiedersi, criticamente, in
relazione al loro rapporto con la realtà, a cosa pensano davvero i
poeti, qual è la loro spinta iconica/eidetica ad esempio, cosa immaginano
davvero che io (anche come lettore-critico o anche empirico) legga o creda
di leggere. Insomma che cosa vogliono dire. Giacché si tende,
succede anche a me, ad accettare l'offerta linguistica dell'autore, specie
se sub specie 'oscura/difficile', come l'oggetto [prodotto] "finito" del
suo lavoro. Ma se si va ad analizzare davvero il precipitato, se
si comincia a vedere cosa c'è dentro, le cose che ci sono dentro,
allora appare evidente che in quella "oscillazione" citata (e che forse
Sonia non ha voluto approfondire) c'è un punto nodale. Da una parte, in
questo libro, c'è l'informe in cui davvero abita e agisce il "potere
autonomo e autotelico della parola", ma nel senso che tende ad arrogarsi
non tanto un potere di interpretazione (o forse di invenzione) del reale
costituendolo con il verbo, quanto il diritto di contemplazione di sé, nel
proprio farsi. Il quale farsi non è detto che sia regolato, come dice
Sonia, dall'analogia intesa come "capacità logica (e ancor prima,
prelogica) di porre nessi metaforici tra l’immagine poetica e la semiosfera
esperienziale di riferimento". Rimane infatti il problema, tanto per
capirci, di chi debba avere questa capacità logica, se l'autore, il lettore
o entrambi. Come precondizione, immagino.
Dall'altra parte di questo libro la parola informe (il cui grado di
"informità" andrebbe comunque stimato, perché variante) mi pare che sia
materiale plastico di rappresentazione, cioè ambisca quanto meno a
rappresentare "ad arte" qualcosa che non sia solo la propria
deformazione (seppure come imago di un reale difficile da penetrare). Cioè
ambisca ad usare il linguaggio non solo in senso "strumentale" (come uno
strumento risonante [autopoietico]) ma anche (o soprattutto) come mezzo
conoscitivo o cognitivo, pur nel suo "farsi" dinamico (che vuol dire
tendere a una innovazione della capacità espressiva della lingua). Su
questo versante, a grattare un po' l'informe, poi il lettore trova la sua
"soddisfazione", ammesso che in questo sistema il lettore sia contemplato
(sia detto senza ironia: ad es. in molta arte contemporanea il fruitore,
specie se passivo, non è affatto considerato come "variabile" componente
del processo). Il qualcosa che sembra emergere a questa
"longitudine" è un frammento di quella realtà (tralasciamo per il momento
se complessa o meno), una parcella che possiamo meglio ascrivere ad una
"semiosfera esperienziale", che però includa, perché no?, chi legge. Per
capire meglio basta accostare i testi di autori - per fare qualche nome -
come Bellomi e De Francesco, o Scarpa e Garrapa, o Porsia e Leonessa, o
Tripodi e Riviello. Con le relative sfaccettature e con la cautela del
caso, mi pare che lo sguardo, l'attenzione creativa siano orientati in due
diverse direzioni, che all'inizio in sintesi avevo definito del "come" e
del "cosa", ma che sono più propriamente prospettive, del linguaggio sul
linguaggio e della lingua sulle cose. Che non sono necessariamente in
contrasto, né, è ovvio, decisamente separabili (ammesso che debbano
esserlo). Sono, nella migliore delle ipotesi, due campi di lavoro (ma non
sempre entrambi di indagine). Il limite del linguaggio risiede in quello
che dice: possiamo deformarlo alla ricerca di un senso aurale che
confidiamo esista indipendentemente da noi e che sia di per sé in una
qualche relazione con la realtà, ma credo che poi - senza farne una
sovrastruttura - dobbiamo decidere in che direzione, verso quale indagine,
su quali "oggetti" orientarlo, con tutta la "indisciplina" - per rovesciare
un concetto foucaultiano - che compete all'arte. Poiché
l'ultracontemporaneo, inteso come individuo oltre che come tangenza del
presente, non può , al di là della sua definizione, che essere contenuto
con quel reale complesso con cui anche come poeti dovremmo fare i conti.
Come se fosse un enorme ipertesto. Io credo che la direzione sia quella. (g. cerrai)
[1]
Parlerei - più che di mappe o se preferite di antologie - di
campionamento, anzi proprio lo suggerisco ai prossimi curatori di
raccolte. Campionamento di molte cose, se volete
anche nel senso sonoro e/o musicale del termine, anche in ragione
di una sempre maggiore smarginalizzazione del fare poesia (ammesso
che un margine esista) in territori, come quello della poesia
orale, nei quali il testo si smaterializza e ri-materializza nella
voce e dove il sample, specie testuale, non è infrequente.
(diciamo anche che il testo perde un po' il suo statuto, non solo a
favore della voce ma anche del gesto - e non sempre la poesia ci
guadagna). In margine: fluidità della poesia, digeribilità della
poesia (ammesso che sia un passo avanti), contro rigidità del mezzo
testuale, per sua natura poco spettacolare. Ma l'esempio
che ho fatto non deve essere limitante, anzi è solo un aspetto, uno
tra molti, della questione.
[2]
Definire l’ultracontemporaneo acquisterebbe maggior significato se
indicasse anche una svolta, oltre che una semplice fotografia del
(ultra)presente. E poi, ultrac. in relazione a cosa? Che poi un point de repère, un rapporto col tempo, se vogliamo uscire
dalla riserva della (in)comprensione del reale, dovremmo pure
avercelo. L’ultracontemporaneo è destinato ad essere passabilmente
[il] presente, per poi diventare semplicemente moderno, nella
migliore delle ipotesi (e mi pare di essere d’accordo con I. Testa,
citato in prefazione). E tuttavia è molto utile, se aiuta almeno a
comprendere il presente [l'attuale], l'aria che tira. E se
l'analisi dell'ultrac. evita la secca di somigliare troppo a quei
prodotti open source che vengono forniti "as-is", cioè come sono,
senza alcuna garanzia o ipotesi di sviluppo (to-be). Ma è evidente
che bisognerà ancorare l'analisi a qualcosa d'altro, che non sia
legato al transeunte. Per esempio ai fenomeni che scuotono l'oggi,
che come sappiamo in Italia non riescono a trovare gran spazio
(preciso: non sto parlando della cosiddetta poesia
civile).
Pubblico, a titolo di esempio, qualche testo di un paio di autori. Gli autori presenti nella
antologia sono quindici (Daniele Bellomi, Enzo Campi, Alessandra Cava, Vladimir D’Amora, Alessandro De Francesco, Gianluca Garrapa, Andrea Leonessa, Daniele Poletti, Michele Porsia, Jonida Prifti, Carlo Enrico Paolo Quaglia, Lidia Riviello, Marco Scarpa, Antonio Scaturro e Silvia Tripodi), alcuni dei quali poco o non noti, e questo
è già un elemento del libro di sicuro interesse.
Daniele Bellomi
the hangman
un’ellissi diffusa e abbondante, come quelle che si fanno nel parlare, nella mera estensione del tratto vertebrato, della fisionomia di sangue, e membrane, e parti rigide composte a formare una scocca, il rivestirsi precoce, il fare gesto di abbandono. dalla cianosi del collo si riforma una porzione iridescente, una base viscosa e circolare, che accelera nel torace come una temperatura lontana dalla norma, l’enorme ab alone shell, l’accumulato e insufficiente cronico di spazio, sgusciato nel manto stradale, instradato al polo logistico, a riparare i cloni, a costruire quadri medico-legali. allentava ancora un po’ la corsa dell’emorragia, con lacci da annodare, citazioni, l’inondazione delle vie aeree, il seppellimento dell’ascia di guerra, il trasporto ematico dei ferimenti, lo stato di confino.
mi piace andare avanti, per ora, nel deposito sottocutaneo, nella postura precaria, nella cosificazione delle diagnosi, nel coefficiente di resistenza al variare della temperatura. almeno fino a quando il resto non decade dal sembrare un abbrivio, un atto di retorica, un parere. mi piace ma al contempo potrei lasciare perdere lo sterno in parallelo, l’asfissia ottenuta nel presente, il moltiplicato per (in olandese) a fine verso, un meccanismo combinato nell’abitualità dei tessuti, l’accerchiatura di una base solida dai suoi detriti. da una parte boccheggia, dall’altra cede all’apnea, rilassa il proprio manto, cessa, e fa bene. dalle pinne nasali evade l’abnorme, aggiunge una parola, una parte forte, un’articolazione l’altezza raggruppata in spazi acuti, un’alluvione respiratoria, l’accelerarsi nello stato di fine. eppure, d’altra parte, manca: forza, su, aggiungi --alc--a, completa, termina il giochino.
Alessandro De Francesco
stanno chiusi tutti dietro alcuni possono uscire per qualche minuto quando si deve fare benzina poi vengono nuovamente spinti dentro le scosse del veicolo e le curve modificano la loro distribuzione nello spazio talvolta gli uni premono gli altri respirando affannosamente altre volte sono disposti in una geometria provvisoria non parlano quasi mai l’odore dei corpi e il tatto prevalgono sulla vista l’abitacolo è privo di finestrini ed è probabilmente notte ormai la notte questo atto di essere trasportati da un luogo all’altro
gonfio e nero con un’intercapedine e solcato da venature vibra mele e vigne scorrono velocemente quando viene acceso il motore mele e vigne scorrono velocemente vibra la curva nera con un’intercapedine e solcata da venature al tatto mele e vigne scorrono velocemente la consistenza è piuttosto morbida sottoposto al calore del sole mele e vigne scorrono velocemente emana un odore non verbale come un gas non è materiale questa superficie nera imbottita solcata da venature interrotta da un’ intercapedine
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