Martedì, 30 dicembre 2014
Marina Pizzi - Segnacoli di mendicità - CFR Edizioni, 2014
Leggo con molta simpatia la prefazione che a questo libro ha fatto Gianmario Lucini, recentemente scomparso. Ho sottolineato alcuni
passaggi, dei quali due o tre combaciano con cose che ho scritto in passato riguardo al lavoro di Marina, altri mi trovano in disaccordo. Ma a parte questo
la prima cosa che mi sento di rimarcare è la aperta disposizione a capire e a condividere, a interpretare e ad accogliere che Lucini aveva nei confronti di
tutta la poesia, anche quella che con ogni evidenza è lontanissima dalle sue corde, di chi - annota - "è abituato a leggere (e a scrivere, come il
sottoscritto) la poesia in modo diverso, più vicino alla tradizione". Una cosa che va tutta a suo onore.
L'approccio di Lucini potrebbe apparire disarmato, di fronte alle asperità che presenta il lavoro (questo e tutti i precedenti) di Marina. Tanto che in più
punti sembra invitare il lettore a non voler "capire", a non tentare di afferrare il "senso" delle parole dell'autrice. Tuttavia relativizza, giustamente,
il problema del "senso" ed è lettore troppo acuto per arrendersi, individuando alcuni punti essenziali. Vediamoli.
Mi pare indubbio, come Lucini nota per prima cosa, che Pizzi segua una sua maniera di versificare tutto sommato tradizionale, quasi un verso libero in cui
non è infrequente trovare dei perfetti endecasillabi o assonanze o perlomeno una quantità enorme di parole parossitone che degli endecasillabi sono il
fulcro, la cui finalità però non è tanto quella di stabilire un ritmo o una piacevolezza quanto quella di creare un "ordito di suoni, un contrappunto sul
quale innestare il materiale linguistico", secondo le parole di Lucini, che aggiunge che se così non fosse quello del poeta "potrebbe essere scambiato per
un linguaggio schizofrenico" (e c'è molto di assolutorio, della buona disposizione di Lucini, in questa affermazione). L'obbiettivo quindi sarebbe quello
di creare un "ambiente sonoro", una specie di camera acustica in cui il lettore riceve le suggestioni dell'autore, appunto soprattutto sonore, come
principale "significato" dei suoi versi. Tuttavia questo ci porta ad una certa passività di chi legge o almeno a quanto Lucini sottolinea più
avanti.
Del secondo punto che annota Lucini, cioè che la lingua di Pizzi appaia progettata, non sono del tutto convinto, non credo insomma che, per quanto
Marina operi una sua evidente selezione delle parole come tutti, ci sia in lei una strategia, un artificio, a parte la scelta frequente, come
accennavo prima, di parole piane. Per la verità quando parla di progettazione Lucini si riferisce appunto alla ricerca di musicalità, ma anche delle
potenzialità associative, di calembour, di gioco di certi accostamenti anche quando "cozzano" producendo, aggiungo, come un attrito sconcertante. Il fatto
è, a mio avviso, che, come ho detto altrove, l'approccio di Pizzi alla lingua, la "sua" lingua, non è solo ludico-strumentale (e di ludico c'è poco
davvero), ma è fortemente emotivo, al di là delle apparenze, tanto che - scrivevo - è in questa funzione emotiva che Marina "rinviene (e, certo, anche
seleziona, lima, ecc.) le sue parole, i suoi personali nessi metaforici, scardina il rapporto naturale tra parole e cose, mette in crisi la
relazione dei segni, recupera quella dei suoni" (un testo esemplare può essere ad es. il 64, vedi più oltre). E certamente - altra cosa che annota Lucini -
è importante qui il ruolo dell'inconscio "generatore di simboli" che l'autrice sfrutta per ridurre il ruolo della coscienza quale "censore" che tende a far
passare solo il prodotto della "riflessione". Ruolo che non deve essere sottovalutato, certo come fonte, ma che entra in qualche contraddizione con quel
tanto di progettazione di cui si diceva prima. Potremmo dire allora, in sintesi, che in Pizzi il controllo non è assoluto, né può esserlo, e che i
testi migliori vengono illuminati, anche di senso, dall'equlibrio di questi due elementi principali. E credo che proprio il raggiungimento di questo
equilibrio sia la vera faticosa ricerca di senso di Pizzi ("leggiucchio le voragini del senso / l'arbitrio di commettere adulterio / con le frattaglie del
non senso", brano 33), del suo tentativo di leggere la sua realtà.
Da queste caratteristiche, dall'accostamento insolito di significato, dall'ambiente sonoro generato da questa poesia, secondo Lucini deriva una ristrutturazione del ruolo del lettore "il quale non è più colui che deve capire il messaggio, ma colui che deve creare un senso
lasciandosi trasportare dalle suggestioni", ruolo in cui diventa fondamentale l' "ambiente sonoro" e la "musica" che lo stesso Lucini aveva già
sottolineato. In altre parole il lettore deve "lasciarsi sedurre dal senso che quelle espressioni provocano in lui", non ha altra possibilità, è anzi
"inutile soffermarsi (a nostro avviso) cercando il pensiero dell'autrice che, ne siamo convinti, fa di tutto per non seminare significati certi e
definitivi nei suoi lavori". Con questo giudizio abbastanza netto ecco che si torna al concetto di passività del lettore accennato qualche
paragrafo fa, Giudizio che non è contestabile in sé, ma che implica almeno un paio di osservazioni. La prima è che la lettura appare insieme passiva (la
seduzione) e soggettiva (il senso provocato in lui, magari diverso da quello provocato in altri), cosa che peraltro corrisponde molto a
una delle possibili funzioni evocative della poesia. L'altra e conseguente è che il lavoro del poeta, dell'autore, diventa improvvisamente aleatorio, cosa che non nego abbia il suo fascino ma che espone l'autore ad un arbitrio al di là delle sue intenzioni creative, di quel che voleva
dire. In altre parole, per dirla con U. Eco, se il lettore ha l'iniziativa interpretativa il testo vuole essere interpretato con un margine sufficiente di
univocità, ovvero appunto non arbitrariamente. Per parte mia in passato avevo scritto che "la poesia di Marina Pizzi non fa nessuna concessione al lettore,
la sua scrittura e' ego-centrata e in quanto tale e' pura rappresentazione del mondo (o della sua non riproducibilita') cosi' come lo vede l'autrice" e che "da questo punto di vista la poesia di Pizzi pretende uno sforzo supplementare da parte del lettore,
una specie di immersione nei propri riferimenti culturali, nel proprio bagaglio semantico, perfino nella propria psiche. E' una specie di viaggio
esoterico, di riconquista di codici". Personalmente sono ancora convinto di questo, del fatto che la seduzione, che comunque c'è, non basti, che lo sforzo
riguardi soprattutto il riconoscimento del profondo sistema metaforico della poesia di Marina, riconoscimento in cui certo l'esperienza personale del
lettore, la sua "soggettiva" ha un'importanza fondamentale (ma invito a leggere quelle mie note). E' comprensibile in
ultima analisi, e in parte fondato, che Lucini da una parte, come si è visto, inviti a non ricercare a tutti i costi il "pensiero" dell'autrice e
dall'altra, più avanti, affermi che forse quel "pensiero" non esiste: "non esiste, quindi, un definibile e/o oggettivabile pensiero poetico
dell'autrice, anche se, a lettura ultimata, risulta chiaro anche se non esplicitabile, che l'autrice segue un suo pensiero, una sua teoresi". Un pensiero
che, seppur marcando uno iato tra pensiero stesso ed espressione, "si può intuire da molte spie, una delle quali potrebbe essere ad esempio la frequenza di
determinate parole nei testi". E' questa la giusta e centrata intuizione di Lucini, su cui sono davvero d'accordo, e cioè che, facendo un passo ulteriore,
si possa ricostruire ciò che altrove ho chiamato il sistema mefatorico di Pizzi, ovvero il vero senso della sua scrittura. E' questo il
lavoro da fare.
Qualche altra osservazione, per chiudere. Avevo già segnalato in una delle note precedenti su Marina una sua certa "maniera", qualcosa di più di uno stile
consolidato. E cioè la scoperta, anzi la costruzione, di un meccanismo poetico funzionante e collaudato. Anche Lucini nota qualcosa in questo senso quando
parla di via percorribile, parla del libro come di "una proposta che regge, è di buona qualità ed è aperta (corsivo mio), alla portata di tutti,
passibile di ibridazioni e di innesti, soprattutto con la musica". Le parole di Lucini prefigurano una specie di format accessibile da un lettore
che decida di farsi poeta. E in effetti si potrebbe avere l'idea, brutale e del tutto ingiustificata, della sostituibilità all'interno dei testi di Pizzi
di elementi lessicali o parti strutturali che li compongono. Un modello formale che però, come tutte le forme, è una scatola vuota che andrebbe riempita
con il talento dell'autore. E tuttavia la modalità è potenzialmente inesauribile. In questo senso si pone in contraddizione col concetto stesso di
"ricerca", almeno di ricerca di forma. E in questo senso va anche interpretata sia la prolificità di Marina sia la sua pressoché costante caratteristica di
numerare i testi in lunghe filze (99 in questo caso, oltre 100 in diverse altre occasioni). Tanto che a volte ci si domanda se Marina non sia (e non
sarebbe la sola) l'autrice di un solo Libro suddiviso in tomi arbitrariamente e che i testi stessi, che appaiono finiti, siano davvero "finiti".
Eppure, al di là dell'eventuale automanierismo, mi pare che in molti testi, tra cui quelli della mia selezione, il registro di Pizzi, la sua capacità
evocativa ed espressiva si sia ulteriormente affinata, forse anche grazie ad un lieve ma percettibile riavvicinamento ad una significatività. Ad
esempio dove il dato è più "concreto" la poesia è più "leggibile", intendendo entrambi gli aggettivi in senso lato (si veda a titolo esemplificativo il
brano 28). Analogamente, per fare un diverso esempio, l'uso del "tu" assume un'importanza sostanziale, da personaggio. Il tu, se dovessimo disegnarlo o
esprimerlo con il linguaggio dei segni, sarebbe un dito puntato. Contro chi? Quello di Marina è un tu bifronte, come un giano, un tu in cui è possibile
riconoscere abbastanza agevolmente quello che mimetizza l'io dell'autrice e quello "titolato", dell' "altro", di chi sta (o stava) di fronte. Entrambi
colpevoli, in qualche misura, e perciò oggetto dell'invettiva linguistica, del frangersi di ondate verbali, per quanto misurate (a volte in perfetti
endecasillabi) e musicali, come aveva visto Lucini.
Non resta da dire in definitiva che quella di Marina è, in effetti, una scrittura difficile, intorno alla quale è altresì difficile esaurire gli
argomenti. Poichè mi sono occupato della sua scrittura in almeno sei diverse occasioni (il primo post risale al 2006, trovate tutto su Marina Pizzi in
IE QUI) rimando volentieri
chiunque sia interessato a quelle note, con l'avvertenza che alcune delle cose che ho scritto potrebbero essere rivedibili. Buona lettura.(g.c.)
2.
ho pianto un sacrificio un silenzio di crisi. perdo molti capelli perché perdo molta vita e negli sgoccioli si ciondola morenti. tu sei decisamente bello ma non riesco più ad innamorarmi di te. segno dei tempi. una tenda che ondeggia al vento è decisamente più bella e tragica di qualunque parola appropriata. la parola del grande poeta banalizza comunque almeno un po'. ma non c'è altro mezzo: il silenzio è spesso puttanesco può venir equivocato molto di più. il vuoto è lo straordinario! il male il bene assoluti. l'arcano. la cantica dell'angolo senza oltre ragionamento.
4.
me ne andrò a spingere la barca in acqua, con dignitosa peripezia voglio illudermi di un ludo più felice. non voglio più guardare la luce fioca o la carica del vento anarchica baldoria. qui nel pasto di storie andate a male resta la stanza con le credule vacanze. invece è scempio il mondo della forca e incanutito il frutto dell'inguine benevolo. oggi è matura l'arida facciata. con le rive di gemma ho chiuso il bello.
12.
in uno stato di sobbalzo ho visto l'angelo. era il muretto afono d'arsura era la regìa d'abaco del pianto.
il musico e il colosso stanno alle lacrime gemelli. in vita descrivimi la notte questa stoccata d'eremo questo calare contro la fronte un'edera scortese. impigliami le mani così che voglia sprigionarmi dal giogo della mina che salta in aria per brandelli d'asce. sfiniscimi nel tuono delle fionde nelle sorelle che sperdono le gerle.
e parla l'almanacco una lingua vieta scovata sotto i panici del verbo.
19.
in corpo alla bravura di resistere la cisterna non varia. attore e cornucopia non eludono il filo della lama. tra non molto il ludo della frottola finirà i giochi. morrai. salita su salita già si affanna la natura della falla per spianare il rantolo. la spia è un tratto magro in comunione tragica. su, non piangere, le libertà non possono l'asilo di nessun ritornello.
20.
essere in vita è un criterio sperduto un alunno senza lavagna né voce di maestro. in tanta precaria esistenza si stenda un velo di lutto un sillabario bianco. in bilico sul cipresso la casa delle serpi. un dubbio da dentro la nuca innocente arrovella. tu dove sei bandito gentiluomo prestato al palmo? qui nella minestra degli abiti sbilenchi resta una donna in chiodo di dovere di non esser madre. la natura sperpera chi nasce. è scienza o mito farsi pallottolieri nell'abaco del baratro?
21.
spauracchio di nodi ho letto l'indice che mi diceva di gareggiare appieno nonostante! in stalla con gli animali condannati ho preso a pregare negli occhi della cavalla. la consolazione è stata franca ma non la voglia di vivere con il basto alla nuca e alle caviglie. la vigliaccata dell'ombra è stata tutta per lo stornello del sole per le comete ingenue. nudo corra l'atleta del miracolo quando la genia della colpa sia sparita dalle tempie dalle rughe della fronte.
24.
mi piacerebbe chiedermi perché sono morta col tartufo nel palmo e il diamante nell'altro con l'amante stretto al petto fino allo spasmo e la novena del principiante che non sa frenare lo strazio di restare. qui ti avvengo con le mani sature di baci eppure piango con la gogna del migrante. la casa è un arsenale di vendette all'insaputa di tutti. voglio piangere il resto dei miei giorni per morire satura, vacua. nel giorno avviene l'entità del basto questo pagliaccio che non fa ridere nessuno con la pelle di ghiaccio e il ghiro sparato dall'elemosina dell'assassino. il passato è un crollo di cimitero un addobbo per l'erta. domandami se gioco con la venia del salasso quando leggo questi versi in riva al rantolo.
28.
gioca che ti rigioca è finito l'asso il messaggero alato dello sguardo quando vederti era un generare sogni ad occhi aperti da toccare. oggi il diamante del tuo passaggio è ricco di pece, il girotondo una mitraglia contro nemici plurimi al dolore. con te non vengo a generar le stelle né gli alambicchi per i profumi mitici dato che oggi mi chiamo senza casa né moda con il vanto delle lucciole. da adesso piango con la faccenda in tana dove la bestia mi depone. l'allerta dell'agonia m'è imposta stazza.
30.
appello d'oltre strazio poter vincere la rena ad incudine di sguardo. amami con una vena di disciplina con una fuga in meno con un ventaglio di miti. strappami il petto con un bacio di rispetto con un inno di pace. disponi aureole mettimi in giostra con il sangue che sorride. sii l'amante comico del pane l'attento giorno di farmi restare dentro la gerla della litania. il corso giaccia pargolo alla gola altare di ricami seduttori.
38.
non è che una botola il sudario l'aria malsana dello stento il bivacco salino del salterio. dimentica se puoi questo meandro a scalare senza niente da mangiare. in custodia credi d'essere tra i salvi tra lo stupore delle carezze le tegole partigiane contro il vento.
41.
sul giglio se ne andava a piangere inconsolabile figliolo di un assassinato nato per morire. la pianta grassa volle un po' d'acqua una quarantena di giubilo prima di fiorire. aveva i giorni contati e si sentiva bene, il mio amico. questa la beffa di un micidiale fare. invano la consegna della panica graziosa farfalla sopra la tempia. il mare era un'agave marcita. la spatola non serviva a sbrigare le faccende. tutto restava in attesa di cedere. la meraviglia del tarlo si rosicchiò tutto.
47.
invano sollevo il velo del nunzio muto senza invito nel crollo che sono. tu sei il beneficiario della stanza senza pareti di preghiere, sei libero sollievo senza morte né speranza. senza trucco senza voltarmi indietro sono la vedova del senso. tu laggiù mi chiami in un fardello di ortiche che screziano la libertà dell'attimo. nei banchi di scuola incisi dalla noia anche il poeta è schiavo. scenda a valle l'altura della paura questa minaccia che ciarla con la ruggine e i chiodi delle girandole cattive. v'è raduno d'angeli sotto il portone serratissimo.
60.
attrici di cenobio le colonne con gaiezze di spose. domani la risacca dell'ombra vincerà la pietra. il pollice succiato dal bambino rimedierà catastrofe. la strofa fischiata dalla rondine forerà la lapide per le larve delle farfalle. la velocità della girandola farà volare la terra con i papaveri proletari. l'altare del fannullone sarà la migliore delle
64.
dammi un oltre di stallo un io che mi abbandoni. un dono acrobatico che faccia da trafittura al fulcro di dover essere cordame al feretro che s'interra. giungimi in frotta con il sangue caldo ultimo amante di ventura! tura l'apice del redentore che spezza gli appuntamenti. sfuma per me le oasi bugiarde il sopruso del sale sul materno nodo paterno che rovina il sì.
70.
tutta la stampa racconti l'accaduto della zolla. mendicità del faro il rito della notte qualora ci sia forza di vista. e stemma in vista come a riciclare chissà che sfarzo nello stento vero. in mano alla corolla dell'accaduto si dia canuto il bacio della notte la simbologia perenne della morte. in mano alla perizia del cristallo il lento addio dalle mille facce. l'età del fato è un ordine maggiore giocato sul periglio della botola sulla calura in pianto delle impronte. dimentica di me le versioni note dacché la creta è l'unica maestra.
81.
sui cornicioni passeggiano i piccioni inutili come un grembo buono. la bomba della poesia è similoro e non beffeggia la gronda del suicida. in maniche di camicia l'arbitrato non fa vincere né perdere. è un bisticcio di rendite stare appesi per simulare il lichene cheto. sulla ultima giacca del condannato le rondini naturali lo reclamano re. gli specchietti per le allodole dirupano il sole. le migrazioni umane hanno le attese delle briciole.
86.
in un'aria secca invisa alla cometa nacque lo scempio. in pubertà la nenia del rantolo sembra una canzone. io stessa vissi la carcassa del nome. miracoli cannibali porsi in ascolto dell'angolo. si resta soli nel cerchio della mente. un indovino mi presta le corde per scappare di prigione, ma sono di seta e si spezzano subito. molti mal silenti bivaccano dal pulpito di un qualunque balcone. la forza del tutore non basta la statua di sale che si sta formando.
88.
una notte di ospizio di latrati guardarti il viso che se soffre è poco se nulla offre la costanza vizza tradita dalla tattica dell'abaco saper contare sul comunque occaso. in vetta alla classifica del sangue questa minaccia tattica del treno che fischia senza mai arrivare. in codice alla nuca la corteccia dell'ultimo albero divelto per far posto al tronco della bara. in barba alla storiella della comica restano le fasce della mummia il corpo andato a farsi sbrevettare.
92.
la pietà dell'ozio presso l'asfalto di fiori spontanei e la spugnetta tragica sul viso del morente. tu che ami i fossili e le rondini chiamami al sì di regole bonarie e tegole che possano una casa anfibia un po' marina un po' montana un po' darsena molto pudica da restare vergine alla polvere. in mano allo scantinato che mi sposa dammi un tic che mi possa consolare bambina sola. intorno alla voracità del verdetto ho perso la tipica stazione di far battere serenamente il cuore. nessun saluto ha etica di ramo per dar futuro all'albero.
98.
le ho perse le stazioni della foce e della darsena. nella sabbia ho murato un seno e un cipresso atto alla compagnia. sono mutila nello stanzone pieno di carrozzelle per i mutili che abbozzano un sorriso o ben più spesso gli occhi bassi studiati dalle rondini per sorprenderli. inutili crisalidi per domani le farfalle. da sùbito il corallo ben colorato avrà la rendita della bellezza. qui rimane una stazione in collera con se stessa e la chimera in odio all'ultima allegrezza.
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