Lunedì, 3 gennaio 2011
Alcuni testi dei 122 che compongono "Declini" di Marina Pizzi, ebook
edito da Pagina Zero nel 2008 (v. qui), libriccino che consiglio di
leggere se ancora non lo avete fatto. Di Marina Pizzi ho già scritto
qualcosa in passato (v. tag relativo in fondo al post), note che sono
state poi riprese anche da Poesia 2.0., a cui rimando per altri testi
ivi reperibili (oltre che ovviamente in giro per il web) e per la bio-bibliografia. Non so se
questo libretto è poi confluito in altre opere a stampa, ma al momento
non risulta essere compreso nella bibliografia della Pizzi. Come ho già detto altre volte, su Marina Pizzi, che ritengo una delle voci attuali più interessanti, bisognerà quanto prima fare una riflessione complessiva per valutarne a fondo l'innegabile valore poetico.
9. un salottino di primi maghi quando si giocava e il vandalo elevato alla potenza era ben lontano e lo sfasciacarrozze del sangue era ben lontano in un manipolo di cespugli si giocava alla costanza del trenino all’acqua magica, con la penuria del dopo l’avvento di costringere frasette di commiato la stasi darsena seguita dall’attesa in frode d’ascia.
12. avrò vent'anni ma il calice è nero nerissimo l'urlo della specie sottratta nella faccenduola gravida del pianto dove la vena inchioda un sangue nero bravura del commiato mare di scontro da sotto il mento un sì che non ha valore ma sisma di cometa l’erba panica ridotta ad un cimelio di facciata
21. ho il freddo di chi vive modesto impresario del sale in uso all'acqua docile enigma mano sul da farsi incognita comunque dove il velo dell'ora stenda cometa in libera uscita, l’uscio aperto in una mole di luce il fulcro scivola a non dar perimetro.
Continua a leggere "Marina Pizzi - Declini"
Lunedì, 14 gennaio 2008
Nemmeno Gesù ha lasciato impronte dei suoi passi sull'acqua del lago di Tiberiade. Le ha lasciate nelle parole, o nella Parola, se volete. E' dalla parola che si ritorna all'impercettibile, a quello che è esistito, nella realtà del mondo o del poeta, e non c'è più oppure non c'è ancora, ma è esistito per il fatto stesso di essere stato "pensato". Rinvenire impronte sull'acqua potrebbe essere perciò una buona definizione della poesia, in quanto, secondo alcuni, arte inutile, oppure perchè appunto, secondo altri, compito della poesia è inventare il mondo che c'è, riscrivendolo.
I versi di questo libriccino di Francesco Marotta, scarno e essenziale, fatto di pochi testi come se rispondesse all'urgenza di uscire subito alla luce, non sono facili. Pretendono dal lettore un'attenzione (o una discesa, se preferite) non petulante nè edonistica, e quel rispetto che compete a un lavoro meditato e sofferto, ovvero, se posso rubare le parole a un grande, richiedono a chi legge "un più intenso rendez vous". Edificati appunto sulla fiducia nella capacità della parola di ricostruire la realtà a partire dalla sua frantumazione, nel tentativo eroico del dire, questi testi si dispongono seccamente sulla pagina in versi cosi' corti da essere singhiozzi, fatti come sono anche di singoli sintagmi o da enjambements (o sinafìe) così perigliosi (nel/l'orbita, tra/passano, in/quieta) che inibiscono costantemente la completezza della frase, come a significare che nemmeno la convenzione, il codice della lingua è un dato certo, e non bisogna farsene illusione. E tuttavia ci si immagina, con grande soddisfazione, come recitare a voce alta questo ritmo sincopato e drammatico, come se il suono stesso della nostra voce prestata al poeta fosse già un necessario viatico alla comunicazione. E' il privilegio del lettore. Di questo linguaggio, spezzato, indeterminato, scarso di connettivi sintattici, già Luigi Metropoli nella postfazione a "Per soglie di increato" aveva correttamente richiamato da una parte l'ermetismo e dall'altra il simbolismo attestandone però la funzionalità descrittiva, non ideologica. In altre parole, aggiungerei, Francesco ne fa qui, molto bene, un uso complessivamente connotativo: è lo stesso linguaggio che dipinge a larghi strati la complessità del vivere, la difficoltà dei rapporti, l'ardua decifrazione del mondo. Con questa consapevolezza perfettamente moderna (questa sì con parecchie parentele nel Novecento), Marotta, che come ogni poeta è anche un Robinson, raccoglie scarti, relitti, oggetti di risulta e costruisce le sue architetture. Così oggetti fragili o appunto impronte che l'acqua non arriva a trattenere, siano essi metaforici e immateriali (un graffio d'anima) o dotati di una loro indiscutibile concretezza (un amplesso / dissennato e coeso) aprono un varco attraverso il quale forse è possibile, dice il poeta, farsi una ragione delle cose e degli eventi. E' questo il supremo tentativo della poesia. Anche se a volte la verità (o la realtà, che però, ricordando Gadamer, sono la realtà e la verità più vere del poeta) "è un’eco, un’ / impronta su / un foglio di via", oppure "qualcosa / che arriva alla porta e / vapora sull’uscio / in forma di respiro" o ancora un "inchiostro che / vaga tra silenzio / e silenzio", per fortuna è pur sempre vero che "la pagina è pronta", che la parola trova la sua destinazione, sia essa il foglio o la mente del lettore in cui riesce a risuonare. Non potrebbe essere altrimenti.
Continua a leggere "Francesco Marotta - da "Impronte sull'acqua""
|