Giovedì, 23 gennaio 2014
Ivano Mugnanini - Il tempo salvato - Ed. Blu di Prussia 2010
Quella di Ivano Mugnaini è una poesia pensosa e pensata, frutto di una
evidente meditazione sui casi della vita, sull'amore, sull'eventualità
di ritrovarsi sconfitti, su una probabile incapacità, laicamente
consapevole, di comprendere il mondo circostante o la stessa natura, sul
rischio di una qualche indeguatezza di "comprendere" quel mondo nel
linguaggio e col linguaggio. Sono poesie fitte, dense, articolate spesso
in lunghi periodi monologanti, come un pensiero tra sé e sé riflesso,
che il poeta mette a disposizione del lettore. E il lettore deve
accostarle (o sarebbe meglio che lo facesse) con una predisposizione
d'animo quasi vergine, poichè si tratta di trovare all'interno di
ciascun testo il giusto cammino, il giusto ritmo, il giusto fiato,
quello che porta, con l'ultimo verso, al compimento, alla realizzazione
di una epifania poetica. Del resto lo stesso Mugnaini ci esorta,
nell'ultima poesia della silloge, "lasciamo che il testo trovi / il
cammino, l'oggetto, il messaggio" (...) lasciamo che il verso trovi /
per sé e per noi la sua strada, il suo senso". Che è una forma conativa,
quasi di stampo anglosassone, per tirare gentilmente il lettore
"dentro". Sia detto incidentalmente che nel lavoro di Mugnaini quella
parola "messaggio" non ha niente di mistificante, topico o sbrigativo,
poichè quel che comunemente con ciò si intende è quanto di più lontano
ci possa essere dall'essenza stessa della poesia, che non deve dare
"messaggi" a nessuno. E' semmai il contrario, sembra dirci Ivano tra le
righe: e cioè che non è il poeta a dettare il messaggio ma è la poesia,
nel suo divenire spesso misterioso, a svelare qualcosa che l'autore
stesso non sapeva. Va da sè tuttavia che il "mistero" in questi testi va
di pari passo con una sicura artigianalità del verso, certo consolidata
nel tempo, e che è proprio quella che permette all'autore di
impegnarsi, senza mai perdersi, nei monologhi interiori di cui dicevo, e
di addomesticare (forse anche in senso etimologico) proprio quel chè di
misterico che ancora oggi è un alone residuale che qualcuno accosta al
concetto del fare poetico.
Addomesticare, rendere domestico, è la millenaria illusione
antropocentrica (e perciò biblica) che accompagna il destino dell'uomo
sulla terra. Ma addomesticare che cosa? Innanzitutto, partendo dal
titolo, il non domesticabile per eccellenza, il tempo. Per quanto nella
comune esperienza umana sia un tentativo destinato al fallimento, il
poeta sa, come Agostino, e lo sa più di tutti, che il tempo siamo noi.
Tempo salvato, tempo perso...benché possa sembrare banale richiamare
questa giustapposizione, vale la pena ricordare che è il tempo che
salviamo in memoria a costituire quel tempo "non spazializzato", fatto
di un flusso ininterrotto di momenti, che è il cardine della nostra
coscienza (Bergson), ma anche del nostro "esserci", come afferma
Heidegger, il nostro essere nel mondo, e perciò, in ultima istanza, la
nostra identità di uomini e donne. Ma soprattutto, dice Mugnaini nel
brano che dà il titolo alla silloge, il tempo salvato (quindi non
perduto) è quello "strappato con la vita alla vita", compreso ovviamente
quello dedicato alla poesia, quella "follia che ti spinge ad alzarti
prima / della luce cercando il senso, la parola". Nel valore etico del
tempo "salvato", perciò, per quanto esso possa essere "fragile,
imperfetto, / regolato da cronografi tarati male", si nobilitano, anche
poeticamente, le esperienze vissute, l'amore, gli eventi anche minimi ma
significativi, le pulsioni primarie. La domesticazione è riportare con
la poesia le cose all'interno della cerchia, non solo strettamente
personale, attraverso confini sempre aperti, osmotici, tra l'oggettuale e
il soggettivo. Ecco perciò che in questi testi si va dal piccolo al
grande e viceversa, dall'interno all'esterno, dall'io a un noi, non
sempre esplicito ma sempre presente, dalla concretezza delle cose
all'animo. Un continuo attraversamento affettuato con una apparente
composta serenità, o una disillusa ironia che ha anche illustri
ascendenti nella poesia del Novecento, ma che dà la dimensione di un
autore che si sente talvolta apolide rispetto al mondo, e nutre
felicemente la sua poesia di questo sentimento. Un procedimento che è
possibile cogliere in pieno, a titolo di esempio, proprio ne "Il tempo
salvato", in cui si passa da una constatazione del reale anche "dura",
anche arrabbiata, ad una riflessione dolente, una domanda sul senso di
sè e del proprio fare, anzi sulla "ipotesi di sé, la possibilità di
essere / immaginato come ente inesistente" (corsivo mio).
Ossimoro, contraddizione, aporia, estremo confine tra l'essere e il mero
accidente, ovvero qualcosa che - semplicemente - accade, o si lascia accadere.
(g.c.)
Continua a leggere "Ivano Mugnaini - Il tempo salvato"
Venerdì, 3 luglio 2009
Come si fa ad esprimere un dolore di vivere che si sente immenso e ingiusto? Come si fa a dire l'indicibile, - eterno dilemma del poeta - ?
Si scava il mezzo artistico di cui si dispone, in questo caso la lingua, lo si sfibra, lo si porta ai suoi stessi confini, lo si spoglia ed espropria del suo senso volgare, lo si accusa di essere inetto e incapace a dire, per poi rivestirlo con un significato nuovo e a tratti alieno come se fosse stato tradotto in una lingua ai più sconosciuta. Per dire vedete, la realtà delle cose è così..così....che non ci sono parole comuni per descriverla.
In questo agire artistico di Marina Pizzi non c'è niente di "ricercato" (sebbene col tempo anche lei abbia acquisito una sua speciale "maniera"). Nel senso che non c'è "experimentum", avanguardia o comunque la si voglia chiamare. Se piace a chi piace la poesia "di ricerca" (qualsiasi cosa ciò voglia dire) è per un fatto puramente circostanziale, di superficiale affiliazione. Il fare poetico di Marina ha radici molto più profonde della mera ricerca intellettuale, è mosso piuttosto da una condizione esistenziale - se non vogliamo dire psicologica - che trova nel linguaggio un limite, una insufficienza e, per quanto possibile, una salvezza, qualcosa che non è solo strumento espressivo, ma anche parte integrante del sé, identità, estensione del corpo e dell'anima sofferenti. In ragione di questo è chiaro come sia preminente, per dirla con Jakobson, la funzione emotiva, anche rispetto a quella poetica (da non confordersi, come sappiamo, con la poeticità di questi versi, indiscutibile). E' in questa funzione che Marina rinviene (e, certo, anche seleziona, lima, ecc.) le "sue" parole, i suoi personali nessi metaforici, scardina il rapporto naturale tra parole e cose, mette in crisi la relazione dei segni, recupera quella dei suoni. Impone il suo codice. E' per queste ragioni che, in altra sede, parlavo di una certa "prevaricazione nei confronti del lettore, a cui il poeta non lascia spazi di manovra (o di interpretazione, in senso attoriale del termine)". Il lettore deve, in altre parole, farsi parte diligente, imparare la lingua, come se sbarcasse sui moli di Ellis Island. Ma del resto è quello che faceva, se posso azzardare, anche Amelia Rosselli.
Tuttavia qui, forse più che altrove, il disegno di fondo, la filigrana, sono chiari. L'assenza, o anche la manchevolezza, di qualcuno, qualcuno che era "Michelangelo del corpo", che si innamorava di fragili peculiarità "ai bordi del mondo intero", "predone" e evanescente come un Puck shakespeariano per colei che si sente "mela da morso senza alcun fato", colei che "in nome di dio" lo chiama, per quanto "con la bestemmia in regola". Ma, di certo, questo non è un canzoniere d'amore, per quanto esso possa essere dolorosamente complicato, perchè l'amore, o la relazione interpersonale o con il mondo, le sue dinamiche invariabilmente diventano parametri della realtà circostante, elementi di misura della efficacia del linguaggio, della sua capacità di significare, di rendere, come dicevo all'inizio, appena più dicibile l'indicibile. Forse questo è il tratto originale del lavoro di Marina Pizzi.
Mi sembra in ogni modo importante rimandare, per un'idea più complessiva sul lavoro di Marina Pizzi, a quanto ho già scritto su di lei, nell'ordine qui, qui e qui
Marina Pizzi, L'inchino del predone, Ed. Blu di Prussia, 2009
Continua a leggere "Marina Pizzi, L'inchino del predone"
|