Venerdì, 5 dicembre 2008
Credo di partire da una posizione di leggero vantaggio nel parlare di "Interno, esterno" di Salvatore Della Capa. Per due ragioni: la prima è che Salvatore è già stato presente su questo blog nel 2006 in due diversi post e quindi non è per me uno sconosciuto; la seconda è che alcuni dei testi che pubblicai (v. qui e qui) sono stampati ora in questo libro. E' inevitabile quindi che per prima cosa saltino agli occhi (almeno a me) alcune varianti tra quei testi e questi pubblicati in questo libro. Per quanto sia un pò troppo presto per dedicarsi allo studio filologico del lavoro di Salvatore, bisogna almeno dire che, quasi con certezza, esse sono opera dell'editore (e in questo caso editor) Gian Franco Fabbri. Un lavoro teso essenzialmente alla leggerezza del verso, alla limatura di certi spigoli. Non è il caso di dilungarsi, ma rilevo la cosa perchè mi interessa ribadire che l'editing è operazione necessaria tanto più per i poeti che, essendo le persone con la più alta autostima, giudicano intoccabili anche le congiunzioni da loro scritte. Per quanto ne so, Fabbri ha però avuto la fortuna, con la sua piccola casa editrice, di avere a che fare sempre con autori intelligenti, e della Capa è tra questi. Ma vediamo il libro, brevemente.
E' lo stesso Fabbri che suggerisce (v. qui), più incisivamente di quanto a mio avviso faccia il prefatore Guido Monti, una possibile lettura del libro di Salvatore, orientata sulla violenza che permea i testi, anche quando il dettato è sintatticamente "quieto". Una "bestia" sotterranea e presente, a volte "sensuale" nell'accezione piena del termine (e quindi animale), che agisce ed è agita all'interno e all'esterno di sè, violenza osservata, subita, qualche volta eticamente compassionata. Ma è anche, va rilevato, una violenza nello stesso tempo continua e rapsodica, presente e frammen/taria/tata come una cluster bomb. Non elevata a simbolo o metafora (nella sezione "parabellum" avevo invece intravisto a suo tempo -cito- "l'inizio perfino di un poemetto intensamente civile"), si coagula in testi tassello vaghissimamente eliotiani, stilisticamente limpidi, "quieti" appunto o "passivi" come nota Fabbri, in una sorta di antologia di momenti o, se vogliamo, in una poetica della latenza, o della coabitazione, in cui si rischia di parlare di violenza come qualcosa che "si sa", cioè quella violenza che più che esperire, grazie a Dio, come intellettuali e poeti percepiamo e soffriamo nondimeno e la denunciamo moralmente. In un certo senso, è quando l'esperienza si fa più personale che il registro cambia, come si avverte leggendo, in chiusa al libro, la bella oasi lirica di "Eleonora", dove anche in gesti quotidiani il dolore si cancella per qualche momento in versi luminosi. Solo qualche momento: l'autore ripristina l'allerta, i suoi "sensi da felino", e ansia, paura, sangue sono le parole che ci colpiscono dall'ultimo brano del libro.
Salvatore Della Capa, "Interno, esterno", Ed. L'Arcolaio, collana I Germogli, 2008
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