L'opera di Lucio Saffaro (triestino, vivente a Bologna, laureato in fisica
pura) si svolge parallelamente, e con stretti rapporti di interrelazione,
nell'area delle arti figurative (ricordiamo le metafìsiche geometrie delle
tavole del Tractatus Logicus Prospecticus, quelle per il Polifilo del Colonna, le recenti mostre, del 77, a Bologna e a
Milano), ed in quella delle arti del linguaggio, collocandosi in una
singolare posizione nel panorama culturale contemporaneo: una posizione,
cioè, insieme eccentrica e centrale, dal momento che il suo lavoro, mentre
appare isolato e distaccato rispetto alle sperimentazioni ed alle prove
delle più recenti avanguardie, risulta tuttavia motivato e strutturato
dalle tensioni intellettuali che più profondamente percorrono e sommuovono,
specie sul versante scientifico, la cultura novecentesca.
La singolarità della scrittura di Saffaro è anzitutto riconoscibile nel suo
porsi all'intersezione del modello-progetto scientifico con il
modello-progetto letterario: luogo critico per eccellenza, dal momento che
lì si scontrano e si confrontano due sistemi di funzioni diverse (opposte?)
all'interno delle strutture concettuali e operative del linguaggio, del
simbolo e della forma.
È noto che nel modello-progetto scientifico: 1) il linguaggio tende a
ridurre al massimo l'ambiguità e la polisemia per consentire un rapporto
univoco del significante con il significato, esaltando la funzione
referenziale; 2) il simbolo, di tipo logico-matematico, è un segnale
altamente convenzionale che garantisce il massimo di concentrazione e di
formalità; 3) la forma è una metastruttura che consente l'analisi razionale
e logica nella operazione cognitiva. Nel modello-progetto letterario
(poetico) invece: 1) il linguaggio è il luogo di produzione di sensi
multipli, l'equilibrio del segno si sposta dalla parte del significante in
una moltiplicazione e complessa articolazione di «significanti
supplementari» (Agosti), esaltandosi quella «funzione poetica» (definita da
Jakobson) che trattiene il messaggio su se stesso, essenzialmente
autoreferenziale, nello spazio di « assenza » del referente esterno; 2) il
simbolo (pur nelle diverse accezioni che determinano la sua storia) è
fondamentalmente « motivato », si fonda su una « eccedenza » volta a volta
del significato o del significante, si statuisce per lo più come
sovradeterminato; 3) la forma infine è l'insieme delle relazioni e dei
livelli che costituiscono la struttura dell'oggetto.
Nella diversità (e/o opposizione) dei due modelli, la cultura
contemporanea, specie nell'ambito delle scienze del linguaggio, sta
elaborando possibilità sempre più articolate di convergenza, e ciò nella
direzione precipua offerta dal metalinguaggio. I princìpi, cioè, del
metalinguaggio logico-matematico, altamente formalizzato, vengono applicati
alle strutture del linguaggio in genere ed a quelle testuali
(Ietterario-poetiche) in particolare (si pensi alla linguistica formale o
alla teoria logico-semantica di Tarski o Petöfi), tentando proprio di
formalizzare ciò che nel linguaggio poetico si presenta come non-formale
(allo stesso modo come la tradizione esegetica aveva da sempre tentato di
controllare ed arginare, attraverso l'interpretazione, la irriducibile
sovra-produzione di senso « non-razionalizzabile » [ancora Agosti], propria
del testo poetico). Ma questo progetto, che si affida al metalinguaggio,
trova anche in esso il suo punto critico: « non esiste metalinguaggio »
afferma Lacan e la psicanalisi post-freudiana, in stretto contatto con le
poetiche novecentesche: non si esce dal linguaggio, e i poeti l'hanno
sempre saputo.
Ponendosi, dunque, come dicevamo, nel luogo di intersezione di quei
modelli-progetti, Saffaro viene ad operare non sopra, ma dentro al linguaggio poetico, riconduce il metalinguaggio
all'interno del linguaggio e precisamente come linguaggio che si
autoriflette, linguaggio che si pensa, si figura, si rispecchia,
duplicazione e moltiplicazione del linguaggio in se stesso (nella figura
della mise en abime): infine come autologia.
Il testo saffariano che qui viene presentato, Est Elladico, risale
agli anni '67-'68, in stretto contatto con altri testi: Trattato del modulo (Firenze 1967), Diario autologico
(Bologna 1968) e Teoria dell'Est (Roma 1969), nei quali appunto si
precisa, si mette in opera e si teorizza il principio dell' autologia. Nelle « Osservazioni sulla Teoria dell'Est»
(in «Idee», aprile 1970) Saffaro scriveva: « L'autologia potrebbe sembrare
una limitazione del pensiero, come quella circolarità della meditazione che
medita la propria meditabilità; ma se per circostanze autologiche si
intendono quei fenomeni che [...] attengono a se stessi, apparirà in tutta
la sua evidenza l'intensità esistenziale che si concentra nell'evento
autologico ». Nella Teoria dell'Est (libro costruito secondo un
rigoroso canone matematico, componendo una « cartesiana architettura ») il
linguaggio « figura » se stesso attraverso il vertiginoso gioco numerico,
acrostico, anagrammatico, eidologico, si autodescrive nella propria
operatività e potenzialità, e, descrivendo il proprio funzionamento, anche
raddoppia sia la distinzione che il nodo inestricabile delle proprie
funzioni. Ed è proprio l'operazione del « raddoppio » (divisione,
scissione) che si costituisce in Saffaro come preliminare e radicale: quel
« raddoppio » scindente che fonda, insieme, tanto il segno quanto
l'immagine, per cui l'autologia diviene il segno-immagine di se stesso,
compatto ed inscalfibile enigma che nessun Edipo verrà a « ridurre »,
decifrandolo, e che indica e marca in se stesso la differenza, la barra,
che divide e unisce, alla radice di ogni procedimento del Logos.
(Ricordiamo quanto, nel suo ripensamento di Derrida, scrive Agamben: « Ogni
interpretazione del significare come rapporto di manifestazione o di
espressione [o, all'inverso, di cifra e occultamento] si pone
necessariamente sotto il segno di Edipo, mentre si pone invece sotto il
segno della Sfinge ogni teoria del simbolo che, rifiutando questo modello,
porti innanzi tutto la sua attenzione sulla barriera fra significante e
significato che costituisce il problema originale di ogni significazione »:
cfr. G. Agamben, Stanze, Torino 1977, p. 165.) Saffaro ha
recentemente pubblicato un testo che risale al '50: Il principio di sostituzione (Pollenza, Macerata 1977), assai
rilevante per la direzione del suo futuro lavoro, dove la « sostituzione »
è quella, globale, dell'esistente con l'ente, del concreto con l'astratto,
della « cosa » con il simbolo: il fondamento stesso sia del linguaggio che
della operazione razionale della logica e della matematica, la grande
operazione del Logos occidentale che ha sostenuto tanto la costituzione del
soggetto come unità e fondamento del Cogito, quanto la sua destituzione
nella scissione (béance) che lo traversa e lo sbarra, mettendo in
moto lo slittamento del senso lungo la catena dei significanti (a partire
dalla « mancanza » originaria) e costituendo insieme la struttura del
desiderio. In quelle pagine leggiamo: « Divido le cose da loro stesse e
così raddoppio con un solo atto del pensiero tutto l'universo; speculando
poi su questa separazione dell'oggetto da se stesso, trovo che posso
formare nell'intervallo privo di misura infinite estensioni immaginarie e
una sola reale che è la coincidenza; similmente all'infinità prodigiosa dei
logaritmi del numero ». Se la « divisione-raddoppio » iscrive l'operazione
del « simbolico » (e il « reale », che in Lacan si definisce come il
non-simbolizzabile, è l'impossibile coincidenza), lo spazio
dell'immaginario è lo spazio stesso della « separazione », dell’« entre-deux », della barra o piega. Il « modello disgiuntivo » si
iscriverà costantemente nella scrittura di Saffaro, sia a livello tematico,
sia a quello dei dispositivi testuali. Così si veda, in questo Est Elladico, per il primo livello: « Lo scambio era
allora soltanto un trionfo del modulo [...] »; « queste contrapposizioni astratte, erano piuttosto il modello disgiuntivo di figurate preferenze »; « la duplicità dell'esistenza »; « vuota divisibilità »; « Se
gli affetti si disgiungono [...] », fino alla pronuncia di quella
« angoscia distintiva » che si sottende a tutta la scrittura. A
livello testuale la duplicazione prende qui la forma della coppia IO/TU,
sia nella sua contrapposizione (« Tu conosci le grandi ruote del mondo
[...] io ti porto il significato delle azioni », ecc.) sia nella sua
combinazione in un NOI che non neutralizza l'interna scissione. La
scissione, anzi, non si apre solo fra la prima e la seconda persona, ma
nell'interno stesso del soggetto (nello spazio della «elongazione»: «spenta
alterità da me»), come pure all'interno delle percezioni, della memoria,
del pensiero, all'interno dello spazio e del tempo. Allora la « distinzione
» che si moltiplica, sottraendosi alla riduzione all'unità, sembra offrirsi
solo ad una protratta, astratta « numerazione », « catalogo », « raccolta »
(« Sull'elenco di tutte le azioni scegliemmo la duecentocinquantacinquesima
[...] poi ci accorgemmo di averla già tralasciata. L'intelligenza degli
atti trascendeva ogni possibile elenco »; « Alla ricerca del libro dei
libri componevamo il segreto catalogo dei concetti: così il dizionario
astratto cresceva come un'algebra universale », ed è facile, qui, il
richiamo a Borges, del resto proposto da vari critici; ed ancora: «
radunammo le immagini del mare »; « Così il continuo simulacro da te
aggiunto alla vuota divisibilità, riprende la numerazione della statua
sostanziale »). In realtà l'elenco, la numerazione delle scissioni e delle
differenze, l'astrazione stessa su di esse operata sotto « la trionfale
tenda algebrica », non vale né a ridurle né ad eluderle: ogni operazione
formalizzante si scontra con qualcosa di irriducibile all'unità,
all'identità e alla presenza: precisamente con l'immagine-simulacro (« Mi avevi chiesto l'immunere Trattato, la
nozione assoluta, lo scritto invariabile; io non sapevo darti che
l'immagine necessaria »): quell'immagine-simulacro (oggetto, paesaggio,
evento, persona, statua, architettura) che non partecipa né del reale né
del simbolico, resto in consumato dell'astrazione del pensiero, di là dalla
distinzione vero/falso, indecidibile, la cui connotazione è l'angoscia («
Lontano dall'esistenza [...] distinguo chiaramente preannunci di angoscia
[...] si inviluppa entro se stessa la luce fluendo senza forma verso
manifestazioni virtuali di immagini poste oltre il concetto di
luce-tenebra, luogo senza limiti né orientamento », Principio di sostituzione). L'opera di Saffaro appartiene a questo
spazio di violenza e di angoscia del simulacro. Ricordiamo quanto di esso
affermava Deleuze: « Il simulacro è quel sistema ove il differente si
rapporta al differente attraverso la differenza stessa» ( Différence et répétition, Paris 1968, p. 355); e quanto scrive
recentemente J. Baudrillard in « Précession des simulacres »: « non si
tratta di irreale, ma di simulacro, vale a dire di un'immagine che non si
scambia più con del reale, ma si scambia solo con se stessa, in un circuito
ininterrotto in cui né la referenza né la circonferenza sono in alcun luogo
» (in « Traverses », 10 febbraio 1978). Il simulacro è esso stesso
autologico, autospeculare, ripiegato sulla propria « differenza »,
convoluto su se stesso nella torsione dell'anello di Moebius (ed è
significativo che questa figura della moderna topologia, che emerge
frequentemente nella scrittura di Saffaro, sia stata utilizzata da Lacan
per la formalizzazione della struttura del soggetto, e compaia anche nello
scritto di Baudrillard sul simulacro). Una torsione che, superando la
contrapposizione dell'ossimoro, rende, in Saffaro, reversibile e
indecidibile qualsiasi coppia antitetica, sia concettuale (vero/falso,
tempo/eternità, sensibile/intelligibile) sia operativa l'opposizione delle
aree lessicali, ad esempio: scientifica/letteraria (iper-letteraria, anzi,
nel recupero di una tradizione aulica che va dalla « tragedia » dantesca e
cavalcantiana, attraverso il rinascimento, il neo-classicismo e il
decadentismo — l'attacco di Est Elladico ha addirittura
inflessioni dannunziane - fino al surrealismo metafisico), oppure
l'opposizione dei modelli di enunciati (logico-scientifici dimostrativi e
asseverativi gli uni, prevalentemente illocutori gli altri, addirittura di
tipo mistico-profetico, alternati con strutture periodali di tipo
narrativo), fino alla opposizione-duplicazione stessa di
linguaggio/metalinguaggio.
Lo spazio della duplicazione e del simulacro (della « scrittura » in senso
« derridiano ») è centrale e genetico nella cultura novecentesca, ma
percorre sotterraneamente tutta la tradizione occidentale, affiorando
singolarmente in area tardo-rinascimentale e meno marcatamente in ambito
tardo-romantico. Le citate parole di Baudrillard a proposito del simulacro
contengono, leggermente alterata, l'antica definizione dell'ente divino
attribuita ad Ermete Trismegisto: « un cerchio il cui centro è ovunque e la
circonferenza in nessun luogo ». Effettivamente il richiamo più persuasivo
che si possa proporre per l'operazione di Saffaro è quello alla grande
tradizione ermetica, particolarmente nelle sue emergenze rinascimentali
(Ficino, Pico, Delminio, Bruno), nelle sue connessioni con la Cabala, il
pitagorismo, l'alchimia, le teorie della figurazione simbolica (si pensi
alla « summa » di questa cultura riscontrabile nel Settenario del
Farra e nella sua « filosofìa simbolica »), tradizione che Saffaro combina
alle ricerche ed ai risultati più recenti della matematica, della
geometria, della fìsica moderne (si veda in questo senso il suo scritto di
fisica: Dai cinque poliedri platonici all'infinito), e che investe
anche tutto l'insieme di quei « giochi linguistici » che si connettono
direttamente alle sperimentazioni rinascimentali e medievali. A questa
tradizione, appunto (le ruote, gli alberi lulliani, le artes memoriae di Delminio e di Bruno, le « statue » bruniane del Lampas triginta statuarum, il recupero simbolico delle immagini
degli dei degli antichi del Ripa o del Cartari, i geroglifici, gli emblemi
e le imprese, il classicismo esoterico di Pirro Ligorio, i calcoli e i
giochi prospettici), appartiene gran parte della imagerie e dei décors saffariani (erme, architetture, idoli, statue, paesaggi
costruiti come i giardini simbolici del Rinascimento), sì che leggendo
certe pagine sembra inoltrarsi tra i simulacri di pietra del « bosco sacro
» di Bomarzo. Ma nella stessa tradizione si inseriscono anche i
procedimenti di scrittura (giochi verbali e numerici, pitagorismo e Cabala)
e soprattutto la costante componente di « ritualità » che caratterizza sia
le operazioni descritte nei testi saffariani, che la operazione stessa
della scrittura del testo. Riti di iniziazione o di purificazione, di
augurio o profezia, di contemplazione, di « attesa », gesti e percorsi
rituali (evidentissimi in questo Est Elladico, ma anche nello
pseudo-romanzo che è Fars, tracciato proprio su un percorso
rituale): questa lenta, densa, assorta e lucida ritualità simbolica
costituisce la sostanza stessa degli atti, delle azioni, che non conoscono
altro margine di esistenza se non quello appunto del rito o della
trasformazione nelle « operazioni » logiche ed autologiche della
riflessione. La trama pseudo-diaristica di queste 24 epistole, come quella
del Diario autologico, costituisce in realtà lo spazio di una
radicale « dislocazione » (« Dislochiamo arditamente questi giorni nelle
araldiche di metafisiche incompiute », leggiamo nel Diario):
dislocazione nello spazio del simulacro e dell'autologia. Questo è il rito
che si celebra anche, punto per punto, in Est Elladico, dove lo
spessore del simulacro (« la densa ramificazione dell'identità ») resiste
alla « logica assoluta » e continua a promuovere, nella sua corsa
metonimica, il desiderio. Il titolo stesso è costruito come un geroglifico
complesso, un emblema verbale. Lo statuto « logico », « allegorico » ed «
estetico » dell'EST verrà dichiarato proprio nella Teoria dell'Est
: « L'oggetto fondamentale è l'epistasi della realtà, il suo coronamento
immaginario assoluto ed infinito; costituito di Esistenza, Spazio e Tempo;
e l'EST ne è il simbolo proprio », che si raddoppia a sua volta in
Estetica, Sapienza, Teoria. Le tre lettere che lo compongono rimandano
inoltre a TRIESTE, non soltanto luogo di nascita dell'autore, ma luogo
reale al quale si riferiscono queste 24 epistole (numero rituale, come poi
le XXIV Tesi della Diateca, testo esemplare per la struttura del
simulacro: della lenta, impercettibile torsione dell'identico nel diverso).
Come punto cardinale indica l'oriente: insieme origine e termine della «
occidentale meditazione » (« La ricerca dell'occidente non aveva fine [...]
l'orlo ammetteva circolari soluzioni »), delle « vicende occidue » che «
nascondono le nascoste proprietà dell'immaginazione », di contro alla «
luce orientale » delle « assorte geometrie del pensiero »; mentre il
riferimento all'Eliade indica il luogo e il tempo della nascita stessa del
Logos, « dei fasti primitivi dell'idea ». Ma il sintagma Est Elladico è
anche uguale e diverso (simulacro) dall'altro, diversamente ripartito:
Estella Dico, che in esso si iscrive letteralmente e semanticamente, dal
momento che Estella è il nome del TU presente nel testo, insieme
destinataria delle lettere-epistole e « oggetto » del « dire » da parte del
soggetto dell'enunciazione, personaggio femminile che diviene così,
mediante la radicale « dislocazione », da persona biografica (ma pur
rimanendo tale, nella sua iscritta nominazione) «oggetto assoluto»: quel
«coronamento immaginario della realtà » di cui l'Est è il simbolo proprio.
La scissione stessa si sposta nel corpo verbale, duplicandosi, vi
moltiplica i « bivii » del senso, si avvolge su se stessa nella propria
auto-affermazione: « dire Estella » è allora « dialogare », accedere alla «
divisione » del dialogo: « Ma se dividi, lasciami questa definizione che ci
trattiene in erti dialoghi indeclinabili ».(adelia noferi)
Il nome di Adelia Noferi (Firenze 1922-2014) è forse sconosciuto specie ai più giovani, ma stiamo parlando di una fra i critici più eminenti del Novecento italiano, docente presso l'università di Firenze, studiosa in grado di esaminare una varietà impressionante di autori e periodi letterari, come Petrarca, affrontato in più di un libro, Dante, il Seicento, il Romanticismo, Foscolo, Leopardi, nonché autori contemporanei come Montale, Luzi, Ungaretti, Bigongiari, a cui aveva dedicato l'ultimo libro e di cui era amica, e che di lei aveva scritto definendola "uno dei maggiori ingegni critici di oggi". Dotata di uno stile personalissimo, che è possibile apprezzare anche in questo piccolo saggio, aveva affinato nel tempo i suoi strumenti critici partendo da insegnamenti di maestri diretti o indiretti come Contini, che aveva apprezzato il suo primo lavoro dedicato a D'Annunzio, De Robertis, lo stesso Bigongiari, ma costruendo poi un approccio scientifico al testo che teneva conto sia dei "mezzi" più classici, sia di quanto di più interessante e fecondo per lo studio critico proveniva dalla semiologia, dalla linguistica, dalla filosofia, soprattutto di scuola francese, senza dimenticare le suggestioni di tipo psicoanalitico. Per cui non è infrequente trovare nei suoi scritti riferimenti a Jakobson, Lacan, Barthes, Kristeva, Blanchot, Derrida, Deleuze, Baudrillard, ma anche Agamben o Gadamer. Alcune delle sue opere principali sono L’esperienza poetica del Petrarca (1962), Riletture dantesche (1988), Soggetto e oggetto nel testo poetico (1997), Frammenti per i fragmenta di Petrarca (2001), Piero Bigongiari. L’interrogazione infinita. Una lettura di «Dove finiscono le tracce» (2003)
Lucio Saffaro
è nato a Trieste nel 1929, si è laureato in fisica pura all' Università
di Bologna, città nella quale ha vissuto dal 1945 e dove è morto nel
1998.E
stato pittore, scrittore e matematico. Dagli anni Sessanta si è
affermato come una delle figure più originali e inconsuete della cultura
italiana, ricevendo ampi riconoscimenti in ciascuno dei campi in cui ha
operato. Le sue ricerche sulla determinazione di nuovi poliedri sono
state oggetto di numerosi saggi e conferenze, tenute da Saffaro in
Italia e all'estero. Queste ricerche a loro volta sono state commentate
da autorevoli studiosi e più volte apparse negli annuari della
Enciclopedia della Scienza e della Tecnica di Mondadori, oltre che in
riviste scientifiche. Ha pubblicato oltre cinquanta opere letterarie,
recensite e presentate da critici prestigiosi, per Lerici, Scheiwiller,
La Nuova Foglio, l'Almanacco dello Specchio di Mondadori e le Edizioni
di Paradoxos da lui stesso ideate. Nel 1986 ha pubblicato a Parigi Teoria dell'inseguimento,
con un saggio introduttivo di Paul Ricoeur. Maggiori notizie e una
bibliografia completa sono reperibili sul sito della Fondazione Lucio
Saffaro (v. QUI).
Un importante contributo, con scritti di Saffaro e note di Gisella Vismara e Rosa Pierno è reperibile su Diaforia.org (v. QUI)
Testi tratti da Almanacco dello Specchio 8/1979. L'opera a stampa a cui riferirsi è Est elladico: XXIV epistole, Paradoxos, Bologna 1973, oggi purtroppo introvabile.