…VIAGGIO, RACCONTO, MEMORIA, attraverso le fotografie di Ferdinando
Scianna
All’inizio di questo viaggio per immagini nella retrospettiva “Viaggio,
Racconto, Memoria” ai Musei san Domenico di Forlì è la
miriade di scatti e storie, racconti e memorie legati all’universo
fotografico di Ferdinando Scianna: la quintessenza del suo stile, il suo essere attraverso la fotografia a stretto contatto con il mondo,
in presa diretta con la vita e parte in causa della storia che in maniera
estemporanea documenta nel lavoro di reportage. La selezione di immagini
dedicate a Bagheria nella prima sala rende testimonianza alla sua terra
natale, la Sicilia, luogo d’appartenenza e di radici, di fughe obbligate
nel corso degli anni ed ossessivi ritorni, di salti in avanti nel tempo al
presente e riecheggiamenti di un mondo arcaico e vagheggiato simile a
scintille di memoria dall'infanzia o dalla prima giovinezza ritrovate in
fulminei istanti di fuga dal presente.
“
Bagheria, l’odiato-amato paese in cui sono nato, dove ho passato la mia
infanzia, in provincia di Palermo, dove ho vissuto fin ai 23 anni,
dolce e terribile luogo dell’anima dove ho scattato ben più fotografie
di quanto non sospettassi. Ho continuato a fotografare a Bagheria nel
corso degli anni, negli innumerevoli, desiderati ora temuti, felici ora
dolorosi, qualche volta inevitabili ritorni”.
La questione ossessiva quanto inevitabile per Scianna sull’essere siciliano
si lega alla ragione prima, all’essenza stessa del fotografare che per lui
è indiscutibilmente un modo, forse il solo di approcciarsi alla realtà, di
esserci e guardare il mondo nel tentativo di comprendere, fosse solo
qualche istante decisivo, e di raccontarlo attraverso il mezzo fotografico.
Cosa significa essere nati in quel luogo, isolato e isolano, impregnato di
anacronismi e tradizioni, riempito di rituali e affondato in un immobilismo
fuori dal tempo, letargico e fatale, poi andare via, allontanarsene per
gettarsi nel maelstrom del vivente da Milano a Parigi collaborando con
un’agenzia internazionale e prestigiosa come Magnum o nei vari reportage in
giro per il mondo, eppure continuare a guardare, a esplorare la realtà con
occhi da siciliano.
“
Quando partiamo la nostalgia comincia a tormentarci, il lavoro di
trasfigurazione della memoria in un ritorno tanto sognato quanto reso
impossibile. Dalla Sicilia si scappa ma non si lascia mai l’ossessione
delle origini.”.
Origini, radici, la terra di Sicilia
Le fotografie della prima sala scattate negli anni ’60 dalle inquadrature
altamente cinematografiche ricreano ambientazioni, atmosfere, stati
emozionali dell’intrinseca identità dell’isola evocando in scorci
suggestivi immagini giunte dagli anni dell’infanzia o della prima
giovinezza in Sicilia. In “maestro d’acqua”: un uomo di età avanzata appare
seduto tra gli arroccamenti a ridosso del mare sulle coste palermitane
intento a sorvegliare un gregge. Solitario, asettico, inerte all’ azione,
il suo sguardo appare gettato lontano oltre gli altopiani, pensatore
estraniato dal presente. Palermo velata da una tenda è inquadrata in
un’altra fotografia. Dietro quella il profilo di una donna si intravvede
tenendo per mano il figlioletto in primo piano: tendaggi, schermi o reti
mediano lo sguardo e separano, oscurano, pongono dei filtri visivi alla
memoria rendendo quel mondo lontano e fittizio, più distante e remoto. Un
gruppo di uomini in un bar avvolti da una coltre densa e grigiastra di fumo
aspirano lentamente dai loro sigari mentre si soffermano indolenti e
solitari a giocare a carte e a scommettere sul nulla del proprio presente.
Bagheria sono le case arroccate sugli scogli in prossimità del mare,
scavate dentro la pietra in un piccolo borgo solitario e resistente, lì da
secoli esposto alle intemperie e alle tempeste, alla durezza della vita dei
pescatori, costruite l’una a ridosso dell’altra a strapiombo sulla
costiera. È lo sguardo di una donna anziana lucido e acuto in primissimo
piano dagli occhi tempestati di nera ematite rilucente di ghiaccio. Sono i
volti di donne avvolti da veli neri nel sole accecante del mezzogiorno a
ridosso delle case del villaggio. Sono orizzonti, “dalla terrazza della
casa dei miei nonni si vedevano agrumeti fino al mare, dalla cappella di S.
Giusipuzzu la Villa Rosa si stagliava libera contro il monte Pellegrino”.
Le feste, ugualmente appaiono tra i soggetti più frequentemente fotografati e
affascinati per Scianna che già all’età di ventun anni collabora con lo
scrittore Sciascia pubblicando il suo primo saggio in immagini “Feste
religiose in Sicilia”. Patronali o liturgiche, barocche o religiose,
riferite a santi o patroni di un paese, un villaggio, o una contrada come
la notte del fuoco rigeneratore di S. Giuseppe, le feste ricorrono nelle
fotografie di Scianna come momenti catartici, eventi rituali nella vita di
un gruppo, momenti di estasi collettiva o insieme riti regolatori e
purificanti di una comunità, infine , nelle parole del fotografo: “ il solo
momento in cui il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, del suo
vigilante e doloroso super-io per ritrovarsi parte di un ceto, di una
classe, di una città.”
I volti estasiati e sorpresi di una folla di giovani e bambini attendono
con gli sguardi volti verso l’alto in un'unica direzione nella prima di
queste immagini l’accendersi del fuoco rigeneratore, l’inizio del falò
rituale che brucerà in ogni piazza, in ogni angolo di strada “mobilio e
roba vecchia” danzando per rigenerare speranze ed energie collettive nel
mezzo dell’inverno. Sono ancora le sfilate patronali con i volti celati
degli adulti e i bambini coperti da vesti sacramentali per riappropriare
l'evento della passione del Cristo, interpretata e ritualizzata come scena
di catarsi collettiva nelle strade del paesino.
A Lourdes, in contrasto sulla stessa parete un uomo porta tra le braccia in
primissimo piano un giovane probabilmente infermo e la dimensione della
fotografia sfiora d’un tratto l’altro estremo del rituale religioso tacito,
silenzioso e interiorizzato: il volto in cerca di redenzione, l’infermità
esposta in attesa della straordinaria presenza del divino, l’intervento del
miracoloso. Qui non è più la folla, il caos, l’esasperazione del rito
collettivo e catartico ma il gesto silenzioso dell’offrirsi totalmente per
questo singolo corpo infermo e senza difese al divino: l'abbandonarsi alla
grazia salvifica e rigeneratrice. Le due singole figure, una portando tra
le braccia l’altra, inerte, sembrano rischiarate da una misteriosa fonte di
luce giunta sulla scena come un’irradiazione del divino sullo sfondo
lasciato all’oscurità circostante.
Reportage di viaggio
“La speranza di vita a Kami, meno che un villaggio era un accampamento
di minatori aggrappato a quattromila metri sulle Ande boliviane, era di
31 anni. Distrutti dalla fatica, abbrutiti dalla chica e dalla coca,
quando rientravano, spesso troppo ubriachi per trovare il loro casotto
di lamiera, crollavano per strada..Eppure ogni giorno, soprattutto in
quelli di festa le donne passavano ore a pettinarsi i densi capelli
neri ed a agghindarsi per loro.
“Veniva da un villaggio lontano ed era arrivato con un mulo e un lama.
Il suo volto concentrato nella fatica e nella paura aveva sfaccettature
da scultura lignea medievale.” (
Scianna, Visti e scritti)
Sono le Ande boliviane dove ignoti individui, uomini e donne nei secoli
hanno scavato oro, argento, stagno e metalli per far risplendere i palazzi
e i gli splendori degli imperi colonizzatori che li hanno dominati. E,
ancora, in Etiopia nei campi profughi i bambini in emergenza di guerra e di
carestia morivano ogni giorno sotto gli occhi del fotografo, infine, tutte
le zone della terra colpite da emergenze politiche o umanitarie dove i
mandati documentari hanno condotto il fotografo nel corso degli anni.
Scianna in un’intervista a proposito degli scatti in Etiopia ricorda la
stretta atroce che lo paralizza, nell’impossibilità di fotografare di
fronte all’ineluttabile evidenza della sofferenza atroce dei molti, della
morte toccata con mano in quel campo profughi dove a migliaia, soprattutto
bambini, morivano ogni giorno di stenti e malnutrizione nelle condizioni
più miserabili. Come Scianna afferma ciò che lo spinse ad attraversare quel
muro di silenzio, a superare la parete invalicabile della sofferenza atroce
di quella realtà e ritrovare così una motivazione al suo lavoro fu la
risposta immediata e intuitiva del corpo nel suo innato sapere, il suo
grido primordiale verso la vita più impellente e pervasivo di ogni
fragilità o blocco psichico vissuto di fronte alla tragedia dei molti.
Come egli afferma a questo proposito:
“Nelle fotografie metti il tuo dolore, la tua pietà. Non cercare di
fuggire, non tentare di cambiare il mondo. Usa la tua fragilità, il
corpo nel suo bisogno primordiale, nel suo istinto primo di vita più
forte dell’angoscia o della paura del momento”
.
La necessità fisica quasi, l’impulso alla vita in quel faccia a faccia
diretto e inequivocabile alla morte. I volti di Kami (1986) in questo senso
non sono la semplice documentazione di sfruttamento o miseria per i
minatori delle Ande Boliviane ma inseguono negli scatti più belli questo
grido alla vita, svelando una forma di sorprendente bellezza insita nel
volto di una giovane donna colta di profilo nell’atto di pettinarsi o
sciogliersi i capelli scuri sulla pelle olivastra, ondeggianti al vento.
Lei avvolta in uno scialle di lana di tessitura indigena appare in una
sorta di innata sensualità come il ragazzo nell’immagine accanto in una
inesorabile malinconia, ben al di là del reportage giornalistico sullo
sfruttamento in atto.
Ossessioni: gli oggetti al centro della fotografia
“Se queste fossero le fotografie, immagini fuggite dagli specchi per
vivere di vita propria. Un tentativo della cultura occidentale di dare
una risposta sulla domanda fondamentale relativa all’ esistenza, al
mondo e a noi stessi”.
“Forse le fotografie sono davvero le memorie di tutti gli specchi che
hanno riflesso le cose, i volti o le immagini di tanti uomini(..) Per
una volta non siamo noi che abbiamo rotto gli specchi per andarvi a
cercare dentro chissà quale verità nascosta di noi stessi o del mondo
ma è la labile verità delle immagini che è uscita per invadere il
mondo, per invadere i nostri album di famiglia, per problematizzare il
nostro rapporto con la memoria sino all’inflazione nullificante che
oggi viviamo”.
Le cose rappresentano per il fotografo un modo di guardare il mondo nella
sua miriade di sfaccettature che rimandano spesso proiezioni conflittuali o
contradditorie, e, a partire da quelle, di ricostruire un’idea unitaria di
sé stesso rispetto ad esso. Le immagini di Scianna nascono in una
continuità tra il vedere, sentire e pensare, convocando spesso citazioni
visive di imprescindibili maestri come Cartier-Bresson. Le cose, gli
oggetti del mondo, ciò in cui ci si imbatte o che si incontra
accidentalmente fino a divenire “occasione” in senso poetico per la
fotografia restano sempre al centro del suo lavoro: “piccole cose di poco
prezzo, senza importanza. Le cose raccontano, ci raccontano, le fotografie
fanno parte di questo racconto”.
Foglie viste con sguardo ravvicinato ci avvolgono come un panno
avviluppante di bianco tessuto che diventa fogliame, lenzuolo in filigrana
di madreperlacea, avvolgente memoria su un fondale oscuro. Uova di struzzo
come bianche rotondità candide e preziose su una terra inaridita di siccità
a Djibouti sono ammonticchiate in primo piano ai piedi consunti dal cammino
di una donna africana. Accanto è un paniere ricolmo di cannucce.
Scintillanti si stagliano come oggetti preziosi investiti di un’aurea fuori
dall’ordinario, quasi reperti archeologici bizzarri e introvabili, preziosi
e magnificenti nel loro bianco candore.
Fotografare i dormienti
Al sonno ci si abbandona quasi di nascosto, in luoghi protetti, al riparo
dallo sguardo d’altri per trovare quiete, riposo, rigenerarsi dopo una
lunga giornata di affannoso vorticare del corpo e nello spirito, magari per
proiettarsi in sogno o svegliarsi invece tormentati da intrusioni insidiose
della mente, dai margini oscuri di una psiche risvegliata da inusitate
intrusioni dell’inconscio. Nelle fotografie di Scianna ci si abbandona
letteralmente al sonno, e in uno o nell’altro versante; gli scatti rubano
momenti in cui il flusso della vita si interrompe e il tempo in divenire di
un eterno presente si arresta e attende di fronte al miracolo della quiete
naturale ritrovata.
Un bambino dorme in Mali avvolto sulla spiaggia e cullato dalle onde di una
bassa marea lentamente avanzante, avvolto e cullato quasi da un lenzuolo
intessuto sulle acque che lo avviluppano come una grande foglia nel palmo
di una mano. Una natura primordiale e matrigna qui pare ancora accoglierlo,
lui parte di quella unità totalizzante.
Si dorme trovando quiete, una donna in un luogo di detenzione su una panca
di legno intagliata da scanalature di acciaio opache. Si dorme ancora sulla
panchina di un parco a New York per un ragazzo nero della strada trovando
qui per un attimo pace dallo stridore e frastuono di un intollerabile al di
fuori. Si dorme sui sedili delle metropolitane o dei parchi, nelle
stazioni, nei luoghi meno avvenenti in Scianna, nei margini di abbandono, a
lato degli spazi pubblici mondani contro la ricchezza platealmente esposta
di un capitalismo che esilia e marginalizza gli individui rimasti esterni
all’ingranaggio del sistema. Oppure si dorme sulle rive del mare in Malì
abbracciati alla forza primordiale di una natura benigna in continuità con
il vivente, distaccati dal tumulto invadente del mondo altro, esterno
all’inquadratura. La fotografia, allora, salva istanti di vita nel momento
stesso in cui li arresta, li fissa e li immobilizza in immagini che portano
in sé ciò che non è più come scriveva Barthes: il divenire di uno sguardo,
un volto o l’apparire di un evento in un istante unico e irripetibile,
l'immagine offerta al mondo in luogo di una reale sparizione del soggetto.
I luoghi
“Ho sempre pensato che faccio fotografie perché il mondo è là…questi
luoghi non mi sembra di averli cercati, li ho incontrati vivendo, poi
ho scelto tra le fotografie realizzate alcune in cui riconoscermi”.
Riconoscere quasi, intuitivamente qualcosa dei luoghi, scorci che lo
connettono alla sorgente dell’immagine e della memoria, in qualche modo del
fare fotografia per Scianna. Il camminare è parte integrante del lavoro del
fotografo, cioè il vagare attraverso i luoghi e le cose cercando momenti
significativi per cogliere “ il sentimento che il mondo, la vita in quel
momento ci offre ."
Viaggiare, camminare, percorrere a piedi, perdersi e ritornare sui propri
passi; la ricerca non è mai semplicemente documentaria ma ontologica,
esistenziale in questo ossessivo, insensato e necessario vagare.
Come afferma Scianna: “
ogni viaggio è sempre anche un viaggio spirituale se andando altrove si
viaggia anche dentro sé stessi”.
I luoghi parlano di identità, posseggono la tacita consapevolezza d’essere
insieme viventi e abitati, propagano il sentore delle persone, degli eventi
che li attraversano, qualche volta l’afflato disperante di una scena di
morte o distruzione. Così vediamo il volto di un giovane boliviano dagli
occhi e capelli corvini con addosso un cappello e una giacca nera ai
margini della foto contro il miraggio dall’altra parte della strada di una
vetrina con tv, stereo, manichini e oggetti della cultura consumistica
occidentale.
È l’immagine di un bambino morente in Etiopia stretto al seno della madre
sullo sfondo di un campo profughi durante l’emergenza umanitaria della
carestia etiope dell’1984.
Uno scenario da sogno in un elegante giardino parigino è visto attraverso
lo schermo distanziante di una finestra, come si trattasse di un sogno
guardato attraverso le linee nere degli infissi che separano e filtrano
l’immagine proiettandola in una dimensione surreale e psicanalitica. La
giovane coppia elegantemente abbigliata in bianco è vista abbracciarsi,
stingersi intrappolata nello specchio al di là del nostro sguardo. Ancora
Milano appare avvolta nella nebbia, e un tracciato di tram è inciso a terra
sulla distesa bianca e incontaminata dopo una nevicata imminente.
Valencia è l’abbraccio appassionato e clandestino, la stretta sensuale di
due giovani amanti contro un muro scrostato, trasudante di scritte in
vernice contro le inferriate della cella di una prigione o un vecchio
edificio di reclusione. Infine New York appare nell’immagine emblematica
dall’interno di un fast-food frequentato dai neri d’America in primissimo
piano. Al suono tintinnante di un banco di fronte a un cassiere un uomo
nero ordina hot dogs e un altro se ne sta seduto, espanso e magnificente
nella sua carnalità, obeso e inerte dall’altra parte del tavolo, sazio e
impassibile di fronte a un piatto vuoto.
“Se parli della vita, la vita ti regalerà le fotografie”
“La fotografia contro l’indeterminato del flusso mediatico” rappresenta per
Scianna l’arresto, il punto nodale, la presa di posizione critica e
poetica, l’interrogarsi e insieme la scelta, anche se mai completamente
consapevole su quello che la realtà offre o espone ai suoi occhi al momento
dello scatto.
“
Prima viene il tuo rapporto con la vita, poi la fotografia: ciò che ti
parla, ti preme, ti indigna o ti fa reagire, ciò che tu come artista
vuoi raccontare. Usi la fotografia per dirlo perché se parti dalla vita
e non dalla forma la vita ti regalerà le più belle fotografie”
.
Sono immagini trovate o ritrovate secondo Scianna e non costruite, scoperte
vagando attraverso gli oggetti o gli eventi del quotidiano oppure che
risvegliano in lui, come in noi spettatori, una qualche intrinseca memoria,
antica, forse a noi stessi a priori inconoscibile. Le stesse hanno il
potere di raccontare una storia attraverso un istante fissato sulla
pellicola come una “verità delle immagini uscita per invadere il mondo” al
di là della volontà del singolo di manipolarla o arrestarla_ quello che
Cartier-Bresson chiamava l’istante decisivo.
Egitto, (1989)
Nata come foto di moda l’immagine esula dai limiti del mandato commerciale
e coglie nell’istante stesso dello scatto la quintessenza di un moto verso
la vita. Traspare immediatamente l’ebrezza leggera della libertà nella
corsa della donna attraverso l’arido deserto, nel gioco e nelle risa dei
bambini sullo sfondo. L’insostenibile leggerezza dell’essere al centro
della fotografia, essa in primis arte dell’istante, dell’effimero
e del transitorio fissato come impronta di luce sulla pellicola in
negativo: istantanea traccia sul fluire indeterminato del vivente.
8
La giovane donna in tailleur bianco aperto a v si avanza nella corsa in
sospensione aerea quasi sollevando i piedi calzati da saldali e a metà
immersi ancora nella sabbia del deserto egiziano. Nel salto gioioso e
leggero celebra la bellezza dell’istante sradicando i piedi dalle sabbie
immote del deserto accompagnata dalla grazia di questi bambini egiziani
forse del vicino villaggio. Il movimento traspare sullo sfondo del deserto,
delle rocce e dei rilievi, contro il villaggio visto a distanza, sulla
povertà che trapela tra le linee, sullo sfondo dei promontori, delle case di terra dissecata e della sabbia arida del
deserto. (elisa castagnoli)