Martedì, 27 febbraio 2018
Il “muro” è immagine, traccia dai molteplici sensi e sovra-sensi oppure
architettura data storicamente nello spazio, e ancora metafora
letteraria in testi, canzoni o opere d’arte nella mostra attualmente in
corso a Palazzo Belloni, “The Wall”. Un itinerario per farci riflettere,
una mappa concettuale che dirama come un labirinto e sfalda in molteplici
sfaccettature di pensiero da una sala all’altra, e ancora un viaggio
attraverso il video, le installazioni, i quadri e testi letterari. Perché
in fondo là è la dicotomia del suo essere, su due piani, a due facce, come
ciò che difende ma anche che separa e preclude l’accesso, o ancora la
barriera che qualora blocca lascia intravvedere una possibilità
nell’altrove, e nascondendo rivela se le sue pareti si trasformano in
superfici espressive, iscrizioni d’arte o architetture che dimorano e danno
vita allo spazio.
“Parole sui muri” (installazione gruppo Loup)
Parole come pietre, dense e stratificate si aprono dal loro guscio di
silenzio e incomprensibilità in diverse lingue nella prima sala come
citazioni letterarie da fonti tanto lontane nel tempo quanto ravvicinate
per la loro simbolica evocazione: le pietre sacre in cui fu eretto il
tempio di Gerusalemme nell’Antico Testamento, le mura di Uruk sulle quali
Gilgamesh incise le sue fatiche e riportò le storie del passato narrando
ciò che era segreto, Italo Calvino dalle “rosse mura di Parigi”, infine
E.Dickinson in avanzare è la condizione stessa dell’esistenza e le pietre
tombali solo un ristoro all'eterno fluire del tempo che le rende odiose
all’anima . Parole sacre o di poesia proliferano in caratteri verdi e ocra
fiammanti attraverso i filtri di plastica rossa, ora blu sul piastrellato
bianco e luccicante del fondo.
Se i muri sono da sempre mezzo o tramite attraverso cui i messaggi si
depositano, le parole si scrivono o si proclamano magari abusivamente o
nell’impeto di un momento, essi, da un altro punto di vista, appaiono come
ciò che separa, ostacola e preclude un reale scambio. Ci fanno pensare ai
muri di parole che non arrivano a destinazione, barriere di
incomunicabilità nella profusione dei messaggi inviati o ricevuti, ancora
ai muri virtuali su cui si scrive senza avere nulla da dirsi, infine al
silenzio di fondo che mormora nella sovra-produzione di messaggi, notizie,
cronache o delle parole urlate dai media al quotidiano.
Continua a leggere "The Wall, intorno e attraverso i muri, nota di Elisa Castagnoli"
Martedì, 20 febbraio 2018
Io, falena senza senso del giorno, non oso volare, per non incrinare il silenzio.
Y. N.
YONE NOGUCHI (Tsushima, 8 dicembre 1875 – Tokyo, 13 giugno 1947)
At Night
At night the Universe grows lean, sober
faced, of intoxication,
The shadow of the half-sphere curtains
down closely against my world, like a
doorless cage, and the stillness chained by
wrinkled darkness strains throughout the Universe to be free.
Listen, frogs in the pond, (the world is a pond itself)
cry out for the light, for the truth!
The curtains rattle ghostlily along, bloodily biting
my soul, the winds knocking on my cabin door
with their shadowy hands.
Di notte
Di notte l’universo cresce magro,
sobrio-brillo, di intossicazione,
l’ombra della mezza sfera cala il sipario
serratamente contro il mio mondo, come una gabbia
senza uscita e l’immobilità incatenata
da rugose tenebre forza in tutto l’universo per essere libera.
Ascolta, rane nello stagno, (il mondo anch’esso uno stagno)
grida di luce, di verità!
Le tende spettralmente sbattono a lungo, sanguinosamente stoccando
la mia anima, i venti bussano alla mia cabina
con le loro mani ombrose.
The Poet
Out of the deep and the dark,
A sparkling mystery, a shape,
Something perfect,
Comes like the stir of the day:
One whose breath is an odor,
Whose eyes show the road to stars,
The breeze in his face,
The glory of heaven on his back.
He steps like a vision hung in air,
Diffusing the passion of eternity;
His abode is the sunlight of morn,
The music of eve his speech:
In his sight,
One shall turn from the dust of the grave,
And move upward to the woodland.
Il poeta
Fuori dagli abissi e dall’oscurità,
un enigma di luce, una figura,
qualcosa di perfetto
viene come viene l’impulso del giorno:
qualcosa il cui alito è un’essenza,
i cui occhi mostrano la strada per le stelle,
brezza sul suo viso,
gloria dei cieli sulle spalle.
Avanza come una visione sospesa nell’aria,
spargendo passione d’eternità;
la dimora che abita è la luce del mattino,
il brano della sera il suo parlare:
dove porge lo sguardo
si viene dalla polvere della tomba,
si sale alla terra dei boschi.
Continua a leggere "Yone Noguchi - Poesie, a cura di Emilio Capaccio"
Giovedì, 15 febbraio 2018
In questo tempo si può collocare la poesia di Alessia Iuliano nell’alveo
del progresso letterario, infatti, l’autrice, tramite una spontanea
evoluzione dell’estetica e dello spirito, con l’opera “Ottobre nei viavai”
soffia emozioni alla vita per sanare coscienze con un raro farmaco poetico.
Palese come questa poesia sia un puro atto di generosità verso platee
meritevoli, che dovrebbero preferirla senza esito alcuno alla luce di una
visione di un amore universale che abbatte qualsiasi forma di cecità
poetica:
“… i cieli piangono risposte
sulle mezzelune dei colli ma
tu non puoi sentirle …”
“… Eppure senza punteggiatura giurava
col ventaglio delle vocali amo
amo, eternamente amo
entrambi …”
Nei versi del libro, essenziali e cangianti per l’iride, si scorge, senza
tema di errore, il colore di una poesia novecentesca, che ha segnato
quell’epoca, la cui riproposizione della Iuliano, potenziata e
inconsapevole, meriterebbe di segnare quella contemporanea: questo è
l’augurio più grande che le enuncio. (Francesco Palma)
Continua a leggere "Alessia Iuliano - Ottobre nei viavai, nota di Francesco Palma"
Giovedì, 25 gennaio 2018
norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre - Edizioni
alpha beta Verlag, Meran/Merano, 2017
Ci sono coni d'ombra, nella poesia italiana, zone in cui il lettore arriva
con grande difficoltà o per caso, paludi di oblio che spesso corrispondono
ad areali linguistici minoritari ma a cui non sfuggono nemmeno altri, se
non interessano all'accademia o all'editoria, un'ombra che a volte si
illumina per caso. Mi è successo, per fare un esempio, con Roberta Dapunt
(v.
QUI
). Ed ecco, ringrazio per questo Francesca Corrias, un altro poeta che non
conoscevo. norbert c. kaser (sì, proprio così, tutto
minuscolo, come lui preferiva) è un caso del tutto particolare, che trova
in questa ottima pubblicazione (a cura di Toni Colleselli, traduzioni di
Werner Menapace, introduzione di Lorenza Rega) la collocazione antologica
che merita. Poeta e scrittore altoatesino bilingue, nato a Bressanone nel
1947 e morto a Brunico nel 1978, kaser ha avuto una breve
vita travagliata, vissuta in condizioni disagiate e solitarie, con vari
tentativi frustrati di essere e sentirsi parte di qualcosa, fosse la
religione cattolica (un anno in un convento dei Cappuccini), o la politica,
nel sindacato prima e nel partito comunista poi, oppure l'università,
abbandonata nel 1971. E poi vari lavori precari per sbarcare il lunario,
compreso quello di maestro di montagna, e il ricorso all'alcool, che ha
avuto una parte rilevante nella sua salute e nella sua morte. In mezzo una
presenza di polemista, di attivista politico, di feroce critico di un
rigido establishment sociale e letterario di cui soffrivano
indifferentemente artisti tedeschi e italiani (a questo proposito va
ricordato che kaser, al di là delle note vicende
separatiste dell'epoca, ha sempre sottolineato la sua italianità). Come kaser ebbe a dire (citato da Lorenza Rega): “Lentamente
svaniscono i pregiudizi nei nostri confronti. A noi spetta la parola! Qui
dalle nostre parti si aggirano ancora così tante vacche sacre che non si
riesce a vedere niente al di fuori di questa mandria. Ma la festa dopo il
macello sarà imponente. E vi parteciperanno anche gli italiani. Anch’essi
hanno una mandria di vacche sacre. I macellai hanno all’incirca la mia età.
Il Sud tirolo avrà finalmente la sua letteratura e di un valore e
importanza tali che nessuno può oggi immaginarseli.” Il rancore che kaser sentiva crescere nel ventre aveva anche queste
dimensioni, che forse possono apparire tra l'incendiario e il futurista, ma
che danno un'idea di una potente rivolta culturale, e che se
contestualizzate rispetto alla realtà altoatesina del tempo possono fare
affermare, anche a uno studioso attento come Claudio Magris, "atteggiamenti
letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o
patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo” (cit. da Toni
Colleselli). Il che, in un certo qual modo, è un giudizio parziale,
riduttivo, perché rischia di confinare kaser in una
posizione decentrata, locale, o appunto contestativa, mentre stile, temi,
qualità della scrittura e anche ricerca linguistica trascendono le
"occasioni" che hanno generato il suo lavoro.
Il libro, un corpus di 175 testi in versi e in prosa (le poesie sono 140 di
cui 15 scritte direttamente in italiano), ci restituisce un poeta di
assoluto valore, a cui non è difficile riconoscere la qualifica che gli
assegna Toni Colleselli di "maggior poeta italiano di lingua tedesca",
tutt'altro che un poeta a cui affibbiare quella specie di apolidia che si
associa alla letteratura di "confine". I temi sono molteplici, e certo kaser ha sempre in sé il concetto di heimat,
fondamentale in tutta la letteratura germanofona, portatore di un legame
non necessariamente costrittivo, ma anzi fecondo, con la tradizione; c'è
certamente il continuo rimando alla realtà anche locale, alla cronaca, a un
sentire politico e sociale, al paesaggio della sua terra spesso
interpretato come grande correlativo oggettivo di un inquieto sentimento
dell'esistenza; c'è una visione disincantata e certo pessimista della vita,
c'è l'amore, c'è un sotterraneo dialogo con Dio, c'è la visione poetica
delle città e dei luoghi visitati fuori dal Tirolo, c'è il gioco
linguistico e l'invenzione fiabesca nei testi che scriveva per i bambini a
cui insegnava. Ma quello che più colpisce in queste poesie è un rapporto
con il mondo forse pessimistico come si diceva ma non domo, non difensivo,
non ripiegato su di sé, non autocommiserativo, c'è semmai una pretesa di
risposte a molte domande, l'inesausto tentativo di superare una situazione
di "inceppamento" (Magris) culturale, sociale, generazionale. Anche se,
aggiungo, chiudendo il libro resta un finale drammatico senso di cupio dissolvi. C'è in questa voce, come giustamente nota Roberto
Galaverni in una nota apparsa su La lettura nell'ottobre 2017,
"qualcosa di duro e d'irrisolto, qualcosa come un'indignazione
fondamentale, come un'impossibilità di tregua [che] attraversano
dall'inizio alla fine i versi di questo poeta, tanto da porsi come il suo
carattere più distintivo e qualificante". E' questo carattere ad imporsi
sulla scrittura stessa, che può apparire alla prima con tratti
sperimentali, per aspetti visivi e linguistici, scrittura invece "motivata
da ragioni niente affatto letterarie ma immediatamente storiche ed
esistenziali" (ancora Galaverni). Un libro di così alto valore che, a
differenza di altre mie letture, c'è davvero l'imbarazzo della scelta (comunque sempre arbitraria e ingenerosa) nel
selezionare qualche testo esemplare da proporre qui. (g. cerrai)
Continua a leggere "norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre"
Venerdì, 12 gennaio 2018
Elliott Erwitt, “Personae”: un mondo in immagini (visto ai musei
S.Domenico a Forlì)
“Personae” retrospettiva che rende omaggio con un’ampia scelta fotografica
ai capolavori del fotografo americano Elliott Erwitt presso i musei S.
Domenico di Forlì è una molteplicità ironica, a tratti poetica o
umoristica, sempre tuttavia profondamente umana di ritratti: i volti delle
celebrità o quelli di gente ordinaria, cani che prendono spesso le loro
sembianze e fanno loro il verso, infine i volti delle città viste
attraverso punti di vista d’eccezione che li rendono unici, icone come tali
entrate nella storia della fotografia. Nella prima sezione in bianco e nero
fino alla metà degli anni ’70 Erwitt si sofferma in particolare sulla
distorsione del punto di vista, spesso prediligendo quello degli animali
che affiancano gli esseri umani e guardano quella stessa realtà dalla loro
postura, nelle loro dimensioni e posizionamento sulla terra con un
implicito risvolto ironico o parodico.
“
Le cose che mi divertono nella vita...le persone senza dubbio_i
paesaggi meno_ quello che fanno nella vita e come si comportano. Tutta
la mia fotografia riguarda questo. I cani sono un ottimo soggetto
perché sono universali e li trovi ovunque nel mondo. Non obbiettano ad
essere fotografati e non chiedono mai impronte..
”
“New York city”, 1974 ( Taking the shot from a tiny dog perspective”)
Cosa significa essere o vedere la realtà dal punto di vista del piccolo e
del minoritario, del basso e non dell’alto, del micro e non del
macroscopico, portare l’attenzione ai piedi anziché alla testa, volgere le
prospettive come in questa immagine mettendosi nei panni di un piccolo
chihuahua umanizzato. La realtà percepita da quella prospettiva appare a
lui enorme, disumanizzante negli stivali neri di cuoio lucidi e militari e
in grandi zampe simili a quelle di un cammello che gli cammina accanto.
Erwitt gioca con i paradossi e si diverte a ribaltare la superficie
traslucida ed edulcorata, troppo educata delle apparenze per decentrare
costantemente con ironia lo sguardo del suo obiettivo, periferico
sull’animale; in particolare assume la misura dei vari prototipi di
cagnetti antropomorfi, abitati di umanità parodiando la medesima per
parlare del mondo che lo circonda.
Nella fotografia divenuta icona erwittiana di New York (1946) per esempio,
la città è vista esclusivamente attraverso un dettaglio fotografico portato
ed espanso in primo piano: i piedi della donna si mostrano enormi,
ingigantiti all’ennesima potenza attraverso i sandali neri sullo sfondo di
un viale alberato e di alti edifici in fuga prospettica verso il fondo. Il
contrasto appare evidente e scherzoso tra la minuscola postura del
Pittsburgh nano che fissa l’obbiettivo e di cui il fotografo assume il
punto di vista e le dimensioni di una realtà estranea, smisurata qui resa a
lui incommensurabile.
I volti delle città allo stesso modo sono filtrati attraverso lo sguardo
erwittiano di questi prototipi canini alter-ego dell’umano. New York è un
viale spazioso nei pressi di Hyde Park democraticamente visto assumendo il
punto di vista del piccolo o del periferico in primo piano. Londra (1966) è
l’interno borghese di un salotto ricoperto di moquette floreale, tappetti
decorati e un sobrio camino vittoriano al centro sul quale troneggia un
orologio a pendolo in suppellettile contornato da minuscole ceramiche e
grandi sontuosi candelabri. Nell’immobilità del luogo un bulldog appare al
centro tra il cinico e il derisorio spossato dal grigiore del lusso
circostante.
Continua a leggere "Elliott Erwitt - Personae, riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli"
Lunedì, 8 gennaio 2018
Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico con grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.
lalange
La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un resto che prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi sul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia.
Antonio Prete
lalange
1
ho dimenticato la lingua del pianto
e non so più i sapori che a cascata stanziano sotto il naso insalano le labbra guazzano il mento sbriciolano il silenzio e idioti mescolano muco e arcani vergognandosi
mi vergogno di queste parole liberate sconosciute forsanche blasfeme
2
dico te ma sento me
non ho lingua e preghiera tua che trapassi scorticata e venga fuori a brani gutturi inson miei
3
so che non c’è lingua
cantilena forse di passi d’altri contati in sonni non sognati in notti di prima che il tempo ha sottratto
so che di quella lingua cancellata
da qualche parte resta un chiodo una polvere bluastro il barlume
Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla
soglie
ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti
limiti che la verità buca con una sfrombolata e viaggiano e viaggiano viaggiano findove si spacca la terra si sfalda il muro di tufo precipitano gambe e braccia
i piedi ancora nella sabbia gli occhi già inghiottiti dal sale
quando tutta quest’acqua finirà di sole e vento, comincerà la conta
il margine
non lo aggiusti come ti pare la mattina che s’è placata la tramontana
non è la siepe che togli il dissuasore si apre nonostante le spine
il margine è maestro che si prende corrente garbino piene e rottami conta i passi e le infamità confida nei due gradoni del sottobanca raccoglie confidenze e segreti mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili
ma non lo aggiusti non si aggiusta
ti ci devi mettere davanti senza socchiudere gli occhi spegnere
libera
solleva questo piombo di cielo
contro la quarta parete che cade fitta di nubi a frastorno d’aria fogliame e rabbiume
- diciotto anni prima che ancora la luna s’avvicini tanto misure e percentuali calibrate il faccione di matto fisso lì che ci guarda
da qui a diciotto fanno un mazzo di steli l’erica svasata l’estate appena scorsa
l’estate che correva per mare e scollinava senza campo a cercare menta e rosmarino avvitata lì a una menzogna che rabbiosa e cattiva si urlava dentro la sete
la fame
che ha traversato il deserto e succhia le ossa che trova
ogni desiderio spento
te la figuri la notte che non s’accende quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli spersi nel deserto?
che calenda di tempo e sperpero che splendore d’occhi
tutto questo pianto disseminato
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Sabato, 6 gennaio 2018
Elia Malagò - Lalange - Ed. Fuocofuochino, 2017
Eccolo qua, un altro libriccino artigianale, quasi fatto a mano, un'esile
creatura di cinque fogli A4 piegati in due e spillati, stampati dalla "più
povera casa editrice del mondo", messa su da Afro Somenzari in quel di
Viadana ( www.fuocofuochino.it ), con un catalogo che, insomma, mica male. Se nel caso di Viola Amarelli
la tiratura si attestava su 120 esemplari numerati (v. post precedente),
qui siamo all'edizione speciale numerata in venti copie, tutte autenticate
da "un bollo IGE annullato da giduglia stellata che ne comprova
l’originalità". Ma non siamo al minimalismo, né allo snobismo, né al
samizdat. Sono "solo" entità poetiche che amano manifestarsi così ai nostri occhi.
Di Elia Malagò ho già parlato qualche volta (v. QUI), sebbene non quanto avrei voluto e dovuto sia per il suo valore sia per
l'amicizia che mi ha sempre dimostrato. Valore che questo libretto non
smentisce, nella estrema sintesi delle sue sette poesie, nella raffinatezza
del versificare, nella trasparenza della scrittura, sempre costante da
molti libri a questa parte. "Lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla", scrive Elia in una nota. Sappiamo a cosa
allude: in primis, al di là del rimando culturale, a quel "resto di una
lingua cancellata" di cui parla Antonio Prete nella brevissima
introduzione. Cioè qualcosa che va (come solo poeticamente è possibile
fare) oltre il neologismo di conio lacaniano che, come altre idee dello
psicanalista francese, si presta a interpretazioni ed equivoci che qui non
ci interessano. Il refuso/lapsus in questo contesto prende la sua
rivincita, guarda caso freudianamente verrebbe da dire, sulla "tecnica"
lacaniana (cioè qualcosa che è interno alla disciplina), perché viene da
qualcosa di più profondo e personale che nemmeno avrebbe bisogno di
definizioni, dalla memoria. Niente è per caso. Se lalangue è la lingua preverbale, quella abitata dal corpo e con cui il corpo si
parla, se è l'aspetto primevo e materno della comunicazione, il refuso ci
dice che la poesia ha già agito su di essa, raddolcendola e riportandola al
livello simbolico che è proprio del linguaggio. Qui lallazioni, incertezze,
regressioni non ce ne sono, o almeno non servono come idoli sperimentali. Ci sono eventualmente invenzioni/restauro di parole dai molti echi (frastorno, rabbiume, sfrombolata, calenda, garbino, verbi come guazzano, insalano), cioè - mi pare - recuperi di "antichi lallalli spersi nel deserto". C'è
ancora quello che avevo scritto a proposito di Golena, "è certo che in quanto a parole Elia lascia poco o nulla al caso, la sua
è una scrittura esatta", senza nessun tipo di compiacimento. C'è ancora la
limpidezza dello sguardo con cui Elia osserva le cose, la sua pianura,
sempre presente anche quando non espressamente evocata, e le idee. E
tuttavia la riflessione sulla lingua c'è ed è l'oggetto principale di
questi versi. Ma, a differenza di altri esempi rinvenibili nella poesia
contemporanea, Elia non ne fa metapoesia, cioè non pensa alla sua lingua
concettualmente. È semmai una riflessione radicale, proprio nel senso di
una "liberazione" alla radice della parola, di un suo "etimo" implicito,
perfino di una sua "blasfemia", ovvero di una rottura violenta del canone.
Il punto è che Elia sa, o si domanda, se da qualche parte c'è una lingua
cancellata, un idioma di cui rimane qualche segno, qualche "chiodo". Se
scrive "ho dimenticato la lingua del pianto" non vuole dire che non sa più
descrivere il dolore col linguaggio ma che il linguaggio del pianto non
risuona più a dovere in lei, e c'è necessità di qualcosa che potremmo
definire empatia del sé. La lalangue lacaniana? Forse, ma qui si tratta se permettete del primato della poesia,
come linguaggio specifico. Non si tratta di sciogliere un nodo psicoanalitico, si tratta di
attingere a profondità diverse da quelle meramente psichiche, scendere al
di sotto di certe superfici, recuperare un livello di comunicazione senza
orpelli salvandone nel contempo la carica poetica. La ricreazione di una
nuova lingua "esatta", ciò che ha tutta l'aria di essere un'evoluzione. (g. cerrai)
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Venerdì, 29 dicembre 2017
Viola Amarelli - Il cadavere felice - Edizioni Sartoria
Utopia, 2017
Torno a parlare di Viola Amarelli, che trovate su IE
in altri post
, perché mi piace come scrive e come pensa, semplicemente. Inoltre questo
"cadavere" è anche un oggetto che ha una sua presenza materica, essendo
stato cucito artigianalmente dalle Sarte Utopiche Manuela Dago e Francesca
Genti, e lo vedi sgomitare tra gli altri libri della libreria con lo
spessore delle sue cuciture. In più tende anche a sottolineare la magnifica
inutilità della poesia, perché vive in pochi esemplari ed è orgogliosamente
fuori da certi processi produttivi. È quindi, in questo senso, un oggetto estetico, oltre che artistico, qualcosa che si pone
consapevolmente fuori dalle mappe.
Ah, sì, le mappe. Perché lo dico? C'è qualcosa che assilla (o solamente
interessa) Viola Amarelli, e mi pare che sia la ricerca e possibilmente la
scoperta dell'essenziale che è possibile dire con il linguaggio che ci è
concesso in dote, depurando il linguaggio stesso dai fronzoli che ne
costituiscono il velame primario. Fronzoli che sono anche di fatto
culturali, prodotti di una esondazione del mondo sulla scrittura, in
sostanza alibi quando si rigetta la fatica di sezionare il reale
preferendone il topos o la mera rappresentazione. Scrive Viola:
[gli accademismi, le traduttologie, le lectiones serpentiformi,
i periodi uroborici, l'armamentario lulliano, il bilame
del computo binario, disegnassero almeno una traccia, una via di,
un sentiero, altrimenti di bravi, bravissimi, ce ne sono già tanti]
È evidente la critica, in primis della poesia stessa, ma anche la critica
della critica. Almeno come espressioni del linguaggio, non tanto come mezzi
in sé, visto che tuttavia alla poesia Viola ancora crede. È che
l'essenzialità dell'espressione è essenzialità del pensiero, soprattutto
nel momento in cui la rozza materia linguistica diventa, come una amigdala
di selce, uno strumento. Che deve essere infine consumato:
le parole sono pietre.
tu scheggiale
fino a che non diventano sabbia, polvere.
fine.
Be', qui entrerebbero in gioco altri fattori, diciamo così ideali, a parte
quella chiusa che può essere intesa in diversi modi. Uno di quei fattori è
che rarefazione del dire, frammentazione del verso, sospensioni sintattiche
e altro ancora non sono iconografia nichilista, o rappresentazione di una
realtà sfuggente e spappolata, o balbettio stupefatto dell'uomo. Sono
semmai ammiccamento, anzi avvicinamento al silenzio come perfezione
inattingibile, come forma d'arte suprema, o mistica. Naturalmente Viola sa
bene che esiste un punto di rottura in questo avvicinamento, un culmine
oltre il quale tutto precipita nel vuoto. Come scrittrice, perciò, cerca di
raggiungere semmai l'arte di avvicinarsi al limite e ritrarsi, e questo
significa, ancora una volta, depurare la parola mantenendone da una parte
intangibile il senso, per qualunque orecchio, e dall'altra dandole un
riverbero disvelante o sapienziale (ma siamo ormai lontani da Notizie dalla Pizia). Il limite fascinoso è, in altre parole, una
scarnificazione "pulendo all'ossoessenza / quello che resta, quel che
m'interessa". Processo consapevole quindi, mentre di converso il cadavere
felice, come spiega la poesia eponima, è chi non sa di essere morto, come
un arto fantasma che si illuda di afferrare brandelli di vita, mentre
invece ha subito o accarezzato "uno sciame di mediocrità". Nella visione di
Viola, critica del linguaggio e critica della mediocrità umana
("l'imbecillità dilagante") si sovrappongono, anzi sono indistricabili,
perché è nel modo di dire, nella costruzione facile, nel sintagma assestato
nella consuetudine (gli stessi che Amarelli talvolta destruttura
ironicamente) che precipita la dismissione del pensiero.
Composto di cinque capitoli ( narrazioni, cronache, dèmoni, fantasmata e cerchi), la
maggior parte dei quali inclusi, in tutto o in parte, in Fantasmata e altri inediti di cui avevo già parlato
QUI
(e quindi rimando anche a quel post, a quanto scrissi e alle poesie ivi
contenute), il libro appartiene a quel genere di poesia che se ne frega
altamente di essere lineare o assertiva, che cerca uno stile non autotelico
(lo scopo in sé) e che se fa ricerca (termine che noterete ho usato solo
una volta prima d'ora) è proprio per trovare qualcosa, non foss'altro, al
bisogno, come scrivere "una poesia semplice" (trovate il testo nel post
sopra citato) o il modo di confrontarsi a testa alta con le cose, ancora le
"nudecrude cose" che, loro sì, "se ne fottono o, più esattamente, restano
imperturbabili", o con la presenza sempre sotto traccia della morte, tenuta
d'occhio e di conto, ma da una distanza "spirituale" e tutto sommato disciplinata. Ecco, credo che questo sia un concetto appropriato,
applicabile su più versanti, sul lato soleggiato e sul lato in ombra della
collina, per dirla in termini che Viola potrebbe apprezzare. Ovvero su
quello della scrittura, per ciò che abbiamo detto prima ma non solo, la cui
sintesi espressiva, rarefatta e contundente insieme, non viene contraddetta
dai testi più lunghi, quelli ad esempio che è possibile leggere nella bella
sezione cerchi; e sul versante dello sguardo, specie quando
rivolto all'esterno, come alla sua città e alla gente (qualche esempio
ancora in cerchi e nelle poesie contenute ne La disarmata
- v.
QUI
), sguardo sempre selettivo negli elementi, pochi e fondamentali, che vanno
a comporre un'immagine che oserei dire compassionevole e partecipata di un
comune destino di impermanenza (purché non si parli di imbecilli,
naturalmente! o di certi orrori della modernità). È in fondo la disciplina della misura, che non è ritegno
né understatement, è caso mai consapevolezza dei limiti e dei
confini, anche di quel silenzio che la stessa parola poetica contraddice,
proprio nel momento in cui lo prefigura: "le belle parole / le giuste / le
sufficienti / quelle necessarie / finiscono nello stesso / punto dove
nascono. / il silenzio - sipario". Nel frattempo però... (g. cerrai)
Continua a leggere "Viola Amarelli - Il cadavere felice"
Sabato, 16 dicembre 2017
La parola liberatoria nasce nella nostra coscienza. Si accresce,
ininterrottamente, di epoca in epoca, per superare i luoghi comuni della
confessione personale e trasformarsi in coralità conoscitiva della materia
linguistica. È la ricerca del vero che muta e (incupisce o illumina?) il
patema di essere vivi nell’estro creativo dell’esistenza. Per questo motivo
occorrono simboli autentici e spontanei per ipotizzare e/o negare esempi
tematici e stilistici. Alcuni autori viventi mantengono valido e saldo
questo assunto senza manifestare il narcisismo di artista, né
manomettere il moralismo. La parola detta di Stefania Di Lino – La Vita
Felice, 2017, ne è testimonianza. Il ricordo, il tempo, la resilienza, si
connettono con la sperimentazione del verso che va oltre il noto e
prevedibile schema novecentesco. La lingua prende forma e definizione in
una tensione narrativa e narrante come una trasformazione genetica: il rigo
contiene l’essenzialità del reciproco senso quotidiano e, nello stesso
tempo, pause/respiri (la punteggiatura ha il suo perché) dettati dal
mistero dell’interiorità e dal suo movimento verso l’esterno. Poesie pregne
di problematiche umane sentite/lette nello stato profondo delle cose, con
impegno etico, con grazia, riconoscenza.
pianta casuale caduta dal cielo / negli interstizi angusti di una crepa
/ tra sassi inerti / depositati tra rotaie / che stringono attorno /
come fosse lapidazione / eppure in alto va / eppur si muove nell’atto
leggero del volare / che non si adegua al passo greve della terra / se
orizzontale è il gesto largo della semina /orizzontale fui io /e mi
feci letto e mi feci sponda / pronta ad accogliere il seme
orizzontale dunque fui / e parallela alla terra /ma verticale è la
pianta nata / che in alto il suo stelo tende / ed è albero che come
mani / in alto allunga i suoi rami / infinita ingenuità c’è nel
crescere / e nel portarsi avanti con la vita / una gentilezza tenera e
sacrale / una proiezione che si nutre del domani / e nel domani crede e
spera,
Stefania Di Lino
nata a Roma, dove vive e lavora. Allieva dello scultore Pericle Fazzini, e
del poeta, critico d’arte Cesare Vivaldi, presso l’Accademia di Belle Arti
di Roma, si specializza alla Calcografia Nazionale del Ministero dei Beni
Culturali e Ambientali, e si abilita all’Insegnamento per i Licei,
occupandosi anche di formazione. è presente da anni in numerose
manifestazioni artistico letterarie, coniugando spesso la parola con
l’immagine in opere di Visual Poetry. Da anni partecipa a reading pubblici
di poesia. Nel 2012 pubblica la sua prima raccolta di poesie Percorsi di vetro (DeComporre Edizioni). è presente in numerose
antologie e riviste letterarie, tra cui I fiori del male (2016). Con un suo
testo critico partecipa al X Festival Mondiale di Poesia, Caracas, in
Venezuela; nel 2014 alcuni suoi testi vengono selezionati dall’unesco di
Torino, per la giornata de «Etica Globale e Pari Opportunità: il contributo
delle donne allo sviluppo dell’Europa e del Mediterraneo», pubblicati e
tradotti in diverse lingue. Nel 2015, nell’ambito del programma dedicato
alla Rassegna Poetica, presso la Galleria Biffi di Piacenza, con il poeta
Franco Di Carlo, partecipa con una sua performance denominata Dialoghi poetici
Continua a leggere "La parola liberatoria, nota di Rita Pacilio"
Domenica, 10 dicembre 2017
Strenna natalizia, e per di più gratis: Bloatware I - Incrostazioni (o dell'amor molesto), un libretto. Trattasi di giuoco o sberleffo se preferite, di/a/da/in/con/su/per/tra/fra la poesia come materia più malleabile di quanto possa sembrare e contemporaneamente materiale di scarto, garbage, déchet, rumenta - sia detto con tutta la simpatia possibile verso i poeti, me compreso. Un minuscolo cut 'n' paste nato da perplessità, soprassalti e divertimenti ricevuti nella maggior parte dei casi da poesie di terzi che mi è stato chiesto di leggere in varie occasioni. Frammenti autentici estrapolati e rimontati a piacere ironicamente et sine iniuria. Non so se avrà un seguito, ma roba ce ne sarebbe.
Trovate il pdf QUI. A tutti auguri di buone feste.
Mercoledì, 29 novembre 2017
Writing-Surrealism (suggerito dalla mostra "I Rivoluzionari del 900",
Palazzo Albergati, Bologna)
Uno degli aspetti più interessanti della sperimentazione surrealista_ tale
che essa appare rivisitata nella mostra bolognese, "I Rivoluzionari del
'900" attualmente a Palazzo Albergati_ è la ricerca di un automatismo nella
creazione, nella “scrittura automatica” per esempio, modalità che libera
l’artista o il poeta dal controllo della ragione intesa come quella gabbia
di pensiero positivista borghese o del retaggio asfittico di una certa
tradizione estetica in inizio ventesimo secolo. L’automatismo, permettendo
di eludere il controllo della coscienza, costituiva una via privilegiata
per attingere a una sorgente più antica, perlopiù inconscia e liberare in
questo modo radicalmente l'arte dai vincoli della realtà quotidiana.
L’artista doveva semplicemente limitarsi a lasciar affiorare le linee e le
forme quasi casualmente nei disegni automatici di Arp e Masson,
nell’universo di segni primitivi di Joan Mirò o diversamente nelle
solarizzazioni e sovrapposizioni fotografiche di Man Ray. Il surrealismo,
liberando in tal modo il potere dell’immaginazione, intendeva riallacciarsi
direttamente alla sfera del sogno, dell’inconscio, in qualche caso
all’allucinazione prodotta dalla follia o al tutto possibile del gioco
d’infanzia.
Nella scrittura automatica, secondo Breton, l’intento surrealista del poeta
è quello di ottenere “ la rivelazione istantanea di tracce verbali la cui
carica psichica si comunica direttamente al sistema percettivo-cosciente”.
Gli accostamenti sorprendenti di soggetti su una tela, la scrittura
prodotta da sensazioni, memorie o idee in libera associazione o gli
incontri fortuiti con gli “oggetti trovati” sono alcune delle vie percorse
dal surrealismo per infondere nuova linfa vitale alla creazione artistica
di inizio novecento. Vorremo leggere qui di seguito alcune delle opere
viste a Palazzo in senso surrealista giustapponendo immagini e parole con
una simile libertà espressiva scaturita dall' incontro fortuito tra la
scrittura le linee, le forme i e colori.
Joan Mirò, “Women and birds”
“Comincio a dipingere e la forma diventa indice di qualcosa”
“E’ la traccia grossolana lasciata da un colpo di spatola nero, una
pennellata spessa e corposa su una tela bianca. La neve si riempie di forme
guizzanti, colorate e libere in un mare cromatico e gioioso, fluttuante
sullo sfondo. Chiazze di colore primario entrano in lotta tra loro come
degli opposti attraendosi e respingendosi senza sosta: rosso ardente e
infuocato, verde genuino, giovane e rigenerante, giallo vivido e
splendente, blu intenso e oltremarino. Al di sopra, una nera impronta si
avvolge a spirale, la trama di un gioco avverso del destino; una nuvola
oscura si propaga attraverso la tela, sopra il taglio netto di una corda
avvinghiante che si annoda su sé stessa fino a soffocarla. Si viaggia
attraverso i sensi nel campo magnetico creato sullo sfondo dai colori
primari: giallo, sensuale forza di vita, rosso essenza-radice, blu
oltremare, azzurro etereo, celestiale come il vagare di una mente nel
sogno, poi la traccia nera a raso, esposta e barrata in esterno sul bianco
candore. Esplosione violenta di un tratto che marca irreversibile e
essenziale.
Continua a leggere "Writing surrealism, nota di Elisa Castagnoli su "I rivoluzionari del 900", in mostra a Bologna"
Domenica, 26 novembre 2017
Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo - Marcos y Marcos, 2015
Di Spigno, come ad esempio De Lea (v.
QUI
, - ma con altri esiti, altre tonalità, un diverso uso plastico della
lingua), è poeta in cui la scrittura è ricerca di rassicurazione e
identità. Lo è per diversi aspetti, a cominciare dal suo "sforzo di frenare
o addirittura di arrestare il flusso del tempo, di illuminarne una fermata" (Umberto Fiori in prefazione), il che mi pare significhi,
anche alla luce dei testi di questo libro, non solo una ricognizione per
momenti e luoghi topici della propria vita, ma anche la ricerca in essi del
proprio essere attuale. E' in altre parole un ragionato ritorno a casa
(dovunque in realtà essa sia), in cui però la nostalgia ha un'importanza
relativa, è più motivo lirico/elegiaco che epico o tragico, poiché mi pare
vi manchi un'eco lancinante, come se Di Spigno di quella "casa"
riconoscesse più la forza evocativa e identitaria che la sua mancanza.
Luogo che tuttavia certamente non "sembra proprio una casa qualunque e
indolore" (in La nudità, Pequod, 2010, v.
QUI
), una specie di disperso, molteplice e personale "posto delle fragole" su
cui Di Spigno posa uno sguardo essenzialmente rivolto al passato, facendo
un po' il punto della propria vita. Se il tempo ha un senso, quindi, - e
qui sta parte della rassicurazione - , è per il suo essere storia e replica
(come rappresentazione) di eventi e luoghi (Roma, Gaeta, Napoli, Anzio, la
Calabria...) per così dire filogenetici, di cui cioè il poeta reca traccia
in sé. E poiché storia è narrazione di sé stessa e di chi
trascina con sé, ecco che ne consegue naturaliter la scrittura che
Stelvio ritiene più adatta, un flusso di cui avevo già parlato brevemente a
proposito de La nudità, appunto narrativo, a volte ipertrofico, a
volte predittivo, e in cui, come accennavo prima, trova talvolta il suo
spazio anche l'elegia pura, quasi foscoliana, come ad esempio in Faville, ma con un certo equilibrio (ha ragione ancora Fiori in
prefazione) e poco timore di lanciarvisi pur col rischio calcolato di
qualche sbandata, conoscendo come un pilota il suo mezzo, le sue parole. In
un certo senso Di Spigno cerca e trova un'altra rassicurazione proprio in
questa lingua in cui quel che devi dire e la forma in cui lo dici sono
indissolubili, nella quale cioè elemento fàtico e funzione poetica sono
così fusi che il carattere lirico/elegiaco vi trova la sua collocazione
naturale, non extra ordinaria. Ne è così convinto che a volte si allunga e
dilunga, come già avveniva ne La nudità, non è poeta che lavori
per sottrazione, tende semmai a non buttare via niente di quel che ha da
dire, fossero anche i nomi di persone e luoghi che risuonano, per ovvie
ragioni, solo per lui. Sia i luoghi che la scrittura sono per Di Spigno, a
mio avviso, spazi mentali o ricordi "affidabili", che è necessario in
qualche modo non tradire, omaggiando e rinovellando i primi con la seconda,
anche con una certa maestria lessicale, con una capacità connotativa e a
volte esornativa del "fatto" che tende a dare una certa aura "mitica"
all'oggetto del poetare, ma che crea in definitiva una tessitura di
rilievo. Quando Stelvio riesce ad allentare un po' la pressione
sull'acceleratore del dire, a favore di una emotività meno mediata,
consegue gli esiti più alti come quelli (v. Il distacco) contenuti nella sezione Generazione mortale, a mio avviso la migliore del libro insieme a Le radici sepolte.
A pensarci bene più che di nostalgia o di ritorno ai lari, di tratta di
malinconia/rimpianto, spesso con uno schema classico e abbastanza
ricorrente di enunciazione/ipotiposi del ricordo seguita da una ripresa
attualizzante/riflessiva ("Eppure quando torno...", "E ora eccomi qua...",
"Ma intanto passano i treni...", "Qui ho vissuto tra gente...", "Ora io ti
penso...", "L'alba ride come allora...", "Ecco cosa ripetono i miei
anni...", "Li rivedo in lontananza...") con un andamento leopardiano, come
ne La quiete o ne La vita solitaria per capirci, che si
ritrova anche in un uso esteso del verso libero ipermetrico che già avevo
notato a suo tempo, segnato più da spezzature che da enjambement
significativi (ma vale la pena rimarcare anche qualche eco pasoliniana,
come in Trastevere ore quindici). Tutto sommato quello di Di
Spigno non è un mondo particolarmente complesso, perché non è
particolarmente moderno (e nemmeno postmoderno), descrive - spesso molto
bene - dinamiche intime su sfondi che, al di là della geografia, da un
punto di vista lirico potrebbero essere ovunque, salta a pie' pari (per
fortuna) tutti i mugugni della crisi dell'uomo di oggi di fronte al nulla,
preferendo cantare le sfumature di un esistenzialismo semplice. Entro il
quale, in una prospettiva ben definita, contenuta nelle due direttrici
passato/presente che tendono a riprodursi (il presente è già un passato),
l'individuo/poeta si pone come custode di una memoria che aspira ad essere
"non per rimpiangere, piuttosto per sapere dove andare". Cioè una memoria
non lapidaria, malleabile. Ma, dice l'autore, "siamo una specie senza
predizione", cioè senza futuro, senza contare che "il tempo non avanza di
un momento". Solo la poesia (ed è la fede di Stelvio) può sperare di
risolvere una tale aporia. (g.cerrai)
Continua a leggere "Stelvio Di Spigno - Fermata del tempo"
Lunedì, 20 novembre 2017
Henry Bataille
, ovvero Henry Felix Achille Bataille, nasce a Nîmes, nella regione
dell’Occitania a sud della Francia, il 4 aprile del 1872.
Il padre, Léopold Bataille, e la madre, Alice Mestre-Huc, erano di famiglie
borghesi e originari del dipartimento dell’Aude. All’età di 11 anni, mentre studia a Parigi, perde prematuramente il padre,
che in quel periodo ha un incarico di magistrato presso la corte di appello
di Parigi, e 2 anni più tardi perde anche la madre. Il giovane Bataille viene allevato dalla sorella, Marguerite e dal marito,
Ernest Blagé, direttore di una delle più antiche compagnie ferroviarie
francesi. Dimostra fin da bambino un talento per il disegno e la pittura. Con l’aiuto dei suoi tutori intraprende a Parigi gli studi artistici,
presso l’‘École nationale supérieure des beaux-arts’ e l’ ‘Académie
Julian’, ma al contempo si appassiona anche di letteratura e di poesia.
Pubblica nel 1895, su incitamento dell’amico Marcel Schwob, la sua prima
raccolta di poesie dal titolo: La Chambre Blanche, caratterizzata
da uno stile che oscilla tra decadentismo e simbolismo, tra malinconia e
disillusione del soggetto poetico. La vera svolta avviene nell’ambito teatrale, in particolare con opere
contraddistinte da grandi drammi passionali e conflitti morali, come:Maman Colibri (1904), La Marche Nuptiale (1905),La Femme Nue (1908), Le Scandale (1909), La Vierge Folle (1910), L’Enfant de l’Amour (1911), che
gli valsero una grande popolarità, la rappresentazione nei teatri più
prestigiosi di Parigi e a Broadway, oltreché molte trasposizioni
cinematrografiche.
Si lega sentimentalmente a grandi attrici di teatro dell’epoca. Spesso
furono proprio queste donne a interpretare le sue opere, come nel caso di
Berthe Bady e soprattutto di Yvonne de Bray che gli resterà accanto fino
alla morte. Molti intellettuali della Belle Époque ammirano il suo teatro, primo fra
tutti Louis Aragon, che si ispira a lui per il personaggio del suo romanzo: Les Cloches de Bâle (“Le Campane di Basilea”), pubblicato nel
1934.
Tra le raccolte poetiche di Bataille, si ricordano,
oltre La Chambre Blanche (1895), Le Beau Voyage (1904), La Divine Tragédie (1907), La Quadrature de l’Amour
(1920).
Muore in seguito a un’embolia, a Rueil-Malmaison, nel dipartimento
dell’Hauts-de-Seine, nella regione settentrionale della Francia, presso la
sua tenuta: “Vieux Phare”, il 2 marzo del 1922. Viene sepolto nella cripta di famiglia a Moux nel dipartimento dell’Aude.
Presentazione e traduzione a cura di Emilio Capaccio
Continua a leggere "Henry Bataille - poesie, a cura di Emilio Capaccio"
Lunedì, 13 novembre 2017
L’incendio dell’amore
di Antonetta Carrabs, LVF, 2017
Versi, luoghi intimi, sonorità sono gli elementi portanti che costituiscono
la raccolta poetica di Antonetta Carrabs dal titolo L’incendio dell’amore, LVF, 2017. La messa a fuoco del sentimento
più nobile, l’Amore, segnala il bisogno di considerarlo come un valore
sociale, etico, eterno. È la coscienza di tutti i tempi che si mette al
servizio del corpo e viceversa per favorire il massimo grado di
concentrazione sull’interno/esterno, divino/materia, un circuito che
avvampa e si prende cura, in versione poetica, delle stagioni che
fioriscono e rifioriscono grazie alla fiammata
dell’illuminazione/ispirazione. Questi versi sono torce analogiche in cerca
di struggimento e passione, in continuo cammino verso luoghi e atmosfere
emozionali. Il vessillo del sangue aleggia potentemente sul mistero che
accosta lo spirito alla carne. Un emblema che trasmette al lettore
l’elevazione dal quotidiano in maniera certa, grazie all’incontro
straordinario, che inevitabilmente accade, tra persone/personaggi che si
amano. Affini. Autentici, fragili. (rita pacilio)
Continua a leggere "Antonetta Carrabs - L'incendio dell'amore, nota di Rita Pacilio"
Martedì, 31 ottobre 2017
Un'occasione in questi giorni per prendere due piccioni, anzi tre, con una
fava. Ricorrono i morti (e lasciamo perdere le barzellette al riguardo), è
il centenario della disfatta di Caporetto e, tertium datur, le due cose si
combinano in un poeta che ha avuto alterne fortune, come gran parte della
poesia dialettale italiana. Parlo di Delio Tessa e della
sua
Caporetto 1917, «L’è el dì di Mort, alegher!», Sonada quasi ona
fantasia,
contenuto in L'è el dì di mort, alegher ; De la del mur e altre liriche, a cura
di Dante Isella, Einaudi 1985, che peraltro è possibile reperire in rete,
anche se privo di apparato critico. Tessa, come afferma P.V. Mengaldo
includendolo nel suo Poeti italiani del Novecento, è "uno dei più
grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio", aggiungendo
che "il disinteresse per questo poeta è una vergogna per la critica
italiana" (ma si era nel 1978 e a quel tempo Isella, uno dei massimi
studiosi della letteratura lombarda, stava ancora lavorando sull'opera di
Tessa). Sta di fatto che questi giudizi possono essere ancora in parte
sottoscritti, poiché è certo vero che Tessa è un eccellente poeta, basta
leggerlo anche solo nelle "traduzioni" in lingua italiana per rendersene
conto, ma è anche vero che Tessa, come la poesia dialettale in genere (ma è
categoria però piuttosto generica, basti pensare alla reinvenzione
dialettale di Scataglini e la rilevanza particolare che assume un poeta che
amo, Emilio Rentocchini), rinnova qualche interesse nella critica. Cito a
mero titolo di esempio l'edizione della stessa opera a cura di Mauro
Bignamini, per i tipi delle Edizioni dell'Orso, 2014, che prende in esame
le concordanze dell'opera di Tessa a partire proprio dall'edizione
iselliana; e in ambito più generale, sempre a titolo di esempio, citerei i
volumi
L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre
lingue minoritarie tra Novecento e Duemila
, a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava
e Christian Sinicco per i tipi di Qwynplaine, 2014; e inoltre (ma qui siamo
decisamente sulla produzione attuale) Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto
(LietoColle 2011). Il Sud, come sempre, è minoranza nella minoranza, con
buona pace degli "eredi" di Pierro e Buttitta, sebbene non manchino anche
oggi voci molto interessanti (ad esempio gli apprezzabili Giuseppe Samperi
- v.
QUI
, o Marco Scalabrino - v.
QUI
), tanto che per la poesia dialettale sembra quasi inevitabile parlare di
linea settentrionale. Da ricordare infine, facendo un passo indietro,
Franco Brevini, autore dell’antologia Poeti dialettali del Novecento (Einaudi, 1987), coeva dell'impegno
di Isella, e i tributi seppur non esaustivi che a Tessa hanno dedicato
Pasolini, Fortini, Loi, Giuseppe Anceschi, Cases e altri.
Il libro L'è el dì di mort, alegher è l'unico pubblicato in vita
da Tessa, nel 1932, ma la "sonada" risale al 1919, appena un anno dopo la
conclusione della Grande Guerra, e nello stesso anno della dannunziana
"vittoria mutilata" dal Trattato di Versailles che secondo Salvemini
rientrerà a pieno titolo nella mitologia patriottica fascista. E questo è
un fatto già abbastanza singolare, leggendo quanto e come il testo mette in
scena. Non c'è nessuna vittoria da celebrare, per Tessa, c'è semmai da
ricordare l'impatto fortissimo sul sentire popolare della tragedia di
Caporetto, di quella "inutile strage" della Lettera ai capi dei popoli belligeranti di Benedetto XV, un
centenario anche questo (1 agosto 1917), se proprio vogliamo ricordarcelo.
E proprio il punto di vista popolare che Tessa cerca di interpretare, un
punto di vista forse poco patriottico, di gente comune anche preoccupata
delle sue cose e della sua vita, quella stessa gente che ha fornito i
fantaccini mandati al macello, "quelli che marciscono là... che hanno
finito la guerra e, se Dio vuole, sotto terra, a macero...", e che teme
perfino che i tedeschi arrivino fino a Milano. Da lì viene questa lunga
corale intrecciata di voci, la sua ispirazione e la sua giustificazione
anche morale: "Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla.
Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre
vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo", scriverà Tessa nella
"Dichiarazione" che precede la prima edizione del libro. Da lì, quindi, dal
popolo, per Tessa giunge anche una patente di verità, di realtà, in qualche
modo un mandato, e insieme una forma e una sostanza, un metro e una lingua
adatta allo scopo, ordinaria, disarticolata come un cicaleccio, dialogica,
idiolettale, scenica e fortemente icastica, anche in forza del ritmo
sostenuto e insieme sincopato che la innerva, come una piazza affollata e
inquieta in cui tutti parlano tutti insieme. E' un popolo tutto sommato
senza speranza, che di lì a qualche anno sarà inquadrato nelle adunate
oceaniche del fascismo, del quale Tessa, fondamentalmente anarchico, sarà
un oppositore fino alla morte, avvenuta nel 1939, prima di vedere
l'ulteriore immensa "macelleria" della Seconda Guerra. Considerato da
alcuni un bozzettista, da altri un crepuscolare, tuttavia, come aveva
notato Fortini, il recupero di certi motivi e stilemi e il ricorso ad una
lingua popolare - peraltro, più che sorgiva, secondo me abilmente
manipolata - va considerato, specie nelle opere seguenti, pubblicate tutte
postume, anche come una posizione antiretorica, "quanto più la
contemporaneità gli si presentava con i tratti odiosi del fascismo"
(Mengaldo), venata, sembra chiaro, del "radicale pessimismo antropologico"
che gli attribuisce Fortini. Ma forse, leggendo Tessa, il carattere che più
sembra colpire è l'espressionismo che Pasolini aveva individuato, se non
erro in Poesia dialettale del Novecento, un espressionismo
europeo, per le tinte anche forti (bisognerebbe leggere ad esempio La mort della Gussona) che richiamano Dix, Grosz, Kokoschka; e per
lo stile fonico-ritmico, l'imitazione del parlato, la frattura linguistica
e lessicale fino talvolta a segnare un passaggio "dal semantico
all'asemantico" (Gibellini), la narrazione per frammenti trasposti e
rimontati, e così via (e non bisogna dimenticare che, a quanto sembra, era anche un abile performer delle sue poesie). Non è difficile immaginare, al di là del
confinamento, specie nei primi anni, in una cerchia ristretta e della
questione lingua/dialetto talvolta usata in funzione ghettizzante, quanto
fosse e apparisse moderno Delio Tessa. (g.c.)
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