norbert c. kaser - rancore mi cresce nel ventre - Edizioni
alpha beta Verlag, Meran/Merano, 2017
Ci sono coni d'ombra, nella poesia italiana, zone in cui il lettore arriva
con grande difficoltà o per caso, paludi di oblio che spesso corrispondono
ad areali linguistici minoritari ma a cui non sfuggono nemmeno altri, se
non interessano all'accademia o all'editoria, un'ombra che a volte si
illumina per caso. Mi è successo, per fare un esempio, con Roberta Dapunt
(v.
QUI
). Ed ecco, ringrazio per questo Francesca Corrias, un altro poeta che non
conoscevo. norbert c. kaser (sì, proprio così, tutto
minuscolo, come lui preferiva) è un caso del tutto particolare, che trova
in questa ottima pubblicazione (a cura di Toni Colleselli, traduzioni di
Werner Menapace, introduzione di Lorenza Rega) la collocazione antologica
che merita. Poeta e scrittore altoatesino bilingue, nato a Bressanone nel
1947 e morto a Brunico nel 1978, kaser ha avuto una breve
vita travagliata, vissuta in condizioni disagiate e solitarie, con vari
tentativi frustrati di essere e sentirsi parte di qualcosa, fosse la
religione cattolica (un anno in un convento dei Cappuccini), o la politica,
nel sindacato prima e nel partito comunista poi, oppure l'università,
abbandonata nel 1971. E poi vari lavori precari per sbarcare il lunario,
compreso quello di maestro di montagna, e il ricorso all'alcool, che ha
avuto una parte rilevante nella sua salute e nella sua morte. In mezzo una
presenza di polemista, di attivista politico, di feroce critico di un
rigido establishment sociale e letterario di cui soffrivano
indifferentemente artisti tedeschi e italiani (a questo proposito va
ricordato che kaser, al di là delle note vicende
separatiste dell'epoca, ha sempre sottolineato la sua italianità). Come kaser ebbe a dire (citato da Lorenza Rega): “Lentamente
svaniscono i pregiudizi nei nostri confronti. A noi spetta la parola! Qui
dalle nostre parti si aggirano ancora così tante vacche sacre che non si
riesce a vedere niente al di fuori di questa mandria. Ma la festa dopo il
macello sarà imponente. E vi parteciperanno anche gli italiani. Anch’essi
hanno una mandria di vacche sacre. I macellai hanno all’incirca la mia età.
Il Sud tirolo avrà finalmente la sua letteratura e di un valore e
importanza tali che nessuno può oggi immaginarseli.” Il rancore che kaser sentiva crescere nel ventre aveva anche queste
dimensioni, che forse possono apparire tra l'incendiario e il futurista, ma
che danno un'idea di una potente rivolta culturale, e che se
contestualizzate rispetto alla realtà altoatesina del tempo possono fare
affermare, anche a uno studioso attento come Claudio Magris, "atteggiamenti
letterari che in un contesto culturale diverso sarebbero puberali o
patetici, in Alto Adige hanno ancora un valore contestativo” (cit. da Toni
Colleselli). Il che, in un certo qual modo, è un giudizio parziale,
riduttivo, perché rischia di confinare kaser in una
posizione decentrata, locale, o appunto contestativa, mentre stile, temi,
qualità della scrittura e anche ricerca linguistica trascendono le
"occasioni" che hanno generato il suo lavoro.
Il libro, un corpus di 175 testi in versi e in prosa (le poesie sono 140 di
cui 15 scritte direttamente in italiano), ci restituisce un poeta di
assoluto valore, a cui non è difficile riconoscere la qualifica che gli
assegna Toni Colleselli di "maggior poeta italiano di lingua tedesca",
tutt'altro che un poeta a cui affibbiare quella specie di apolidia che si
associa alla letteratura di "confine". I temi sono molteplici, e certo kaser ha sempre in sé il concetto di heimat,
fondamentale in tutta la letteratura germanofona, portatore di un legame
non necessariamente costrittivo, ma anzi fecondo, con la tradizione; c'è
certamente il continuo rimando alla realtà anche locale, alla cronaca, a un
sentire politico e sociale, al paesaggio della sua terra spesso
interpretato come grande correlativo oggettivo di un inquieto sentimento
dell'esistenza; c'è una visione disincantata e certo pessimista della vita,
c'è l'amore, c'è un sotterraneo dialogo con Dio, c'è la visione poetica
delle città e dei luoghi visitati fuori dal Tirolo, c'è il gioco
linguistico e l'invenzione fiabesca nei testi che scriveva per i bambini a
cui insegnava. Ma quello che più colpisce in queste poesie è un rapporto
con il mondo forse pessimistico come si diceva ma non domo, non difensivo,
non ripiegato su di sé, non autocommiserativo, c'è semmai una pretesa di
risposte a molte domande, l'inesausto tentativo di superare una situazione
di "inceppamento" (Magris) culturale, sociale, generazionale. Anche se,
aggiungo, chiudendo il libro resta un finale drammatico senso di cupio dissolvi. C'è in questa voce, come giustamente nota Roberto
Galaverni in una nota apparsa su La lettura nell'ottobre 2017,
"qualcosa di duro e d'irrisolto, qualcosa come un'indignazione
fondamentale, come un'impossibilità di tregua [che] attraversano
dall'inizio alla fine i versi di questo poeta, tanto da porsi come il suo
carattere più distintivo e qualificante". E' questo carattere ad imporsi
sulla scrittura stessa, che può apparire alla prima con tratti
sperimentali, per aspetti visivi e linguistici, scrittura invece "motivata
da ragioni niente affatto letterarie ma immediatamente storiche ed
esistenziali" (ancora Galaverni). Un libro di così alto valore che, a
differenza di altre mie letture, c'è davvero l'imbarazzo della scelta (comunque sempre arbitraria e ingenerosa) nel
selezionare qualche testo esemplare da proporre qui. (g. cerrai)