Il “muro” è immagine, traccia dai molteplici sensi e sovra-sensi oppure
architettura data storicamente nello spazio, e ancora metafora
letteraria in testi, canzoni o opere d’arte nella mostra attualmente in
corso a Palazzo Belloni, “The Wall”. Un itinerario per farci riflettere,
una mappa concettuale che dirama come un labirinto e sfalda in molteplici
sfaccettature di pensiero da una sala all’altra, e ancora un viaggio
attraverso il video, le installazioni, i quadri e testi letterari. Perché
in fondo là è la dicotomia del suo essere, su due piani, a due facce, come
ciò che difende ma anche che separa e preclude l’accesso, o ancora la
barriera che qualora blocca lascia intravvedere una possibilità
nell’altrove, e nascondendo rivela se le sue pareti si trasformano in
superfici espressive, iscrizioni d’arte o architetture che dimorano e danno
vita allo spazio.
“Parole sui muri” (installazione gruppo Loup)
Parole come pietre, dense e stratificate si aprono dal loro guscio di
silenzio e incomprensibilità in diverse lingue nella prima sala come
citazioni letterarie da fonti tanto lontane nel tempo quanto ravvicinate
per la loro simbolica evocazione: le pietre sacre in cui fu eretto il
tempio di Gerusalemme nell’Antico Testamento, le mura di Uruk sulle quali
Gilgamesh incise le sue fatiche e riportò le storie del passato narrando
ciò che era segreto, Italo Calvino dalle “rosse mura di Parigi”, infine
E.Dickinson in avanzare è la condizione stessa dell’esistenza e le pietre
tombali solo un ristoro all'eterno fluire del tempo che le rende odiose
all’anima . Parole sacre o di poesia proliferano in caratteri verdi e ocra
fiammanti attraverso i filtri di plastica rossa, ora blu sul piastrellato
bianco e luccicante del fondo.
Se i muri sono da sempre mezzo o tramite attraverso cui i messaggi si
depositano, le parole si scrivono o si proclamano magari abusivamente o
nell’impeto di un momento, essi, da un altro punto di vista, appaiono come
ciò che separa, ostacola e preclude un reale scambio. Ci fanno pensare ai
muri di parole che non arrivano a destinazione, barriere di
incomunicabilità nella profusione dei messaggi inviati o ricevuti, ancora
ai muri virtuali su cui si scrive senza avere nulla da dirsi, infine al
silenzio di fondo che mormora nella sovra-produzione di messaggi, notizie,
cronache o delle parole urlate dai media al quotidiano.
Nell’era della globalizzazione assistiamo, come sottolinea la scelta
curatoriale di “The Wall” in un’altra sala, a una crescente presenza di
muri come sbarramenti reali o ideologici fra le nazioni del mondo: fenomeno
trasversale che interessa tutti i continenti e diversi tipi di paesi
democratici o meno, ricchi o in via di espansione. Di fronte al dilagante
fenomeno globale di scambio di informazioni, merci, risorse e individui,
virtualmente unificati negli andamenti delle borse e dei mercati su scala
mondiale è la disparità di un reale accesso alle risorse in un mondo solo
apparentemente interconnesso dove reali mezzi e ricchezze restano spesso
inaccessibili alla maggioranza e le risorse concentrate quasi
esclusivamente nelle mani di poche potenze economiche e militari e grandi
monopoli multinazionali. Flussi migratori di popolazioni nel mondo emergono
sempre più massicci dal sud al nord dall’est all’ovest dell’emisfero
fuggendo guerre civili, persecuzioni religiose o di minoranze etniche in
Siria, Afghanistan o Iraq, occupazioni indebite di territori o condizioni
di povertà e indigenza economica. La crisi di influenza o di potere delle
istituzioni nazionali e l’affermarsi di quella che è stata definita da
Baumann una “società liquida” pone come risposta politica dominante in
diverse parti del globo l’erigersi di muri, barriere difensive,
irrigidimenti anti-democratici di pensiero attraverso strutture solide e
impermeabili per gestire e contrastare questi flussi debordanti di
individui, merci e informazioni.
Al di-qua del muro ( Be here)
“Esiste una inevitabile presenza del muro, la sua impenetrabile
consistenza”. La sua pesantezza oggettiva esclude, impedisce, blocca il
passaggio di individui, mezzi e merci, in senso lato del pensiero,
dell’informazione come fluido vitale. Prima linea di guerra, di confine o
di frontiera, la sua barriera non attraversabile ci rigetta indietro, la
sua materia arida e dura, ci graffia, percuote senza scalfirsi.
Il muro è cemento armato nell’installazione di Giuseppe Uncini: blocco, occlusione di un riquadro
massiccio e traforato fuoriuscente di viti, speroni e ferro ai lati.
E’ una distesa di piombo pesante che sedimenta sinistra su una base lignea
in Arnaldo Pomodoro e sfalda sulla superficie in strisce
scintillanti e auree di rame rilucente dall’interno impenetrabile.
E’ un manifesto stracciato, lacero ai bordi ma ancora oggetto di culto nel
volto di una diva anni 50 che si affaccia dalle labbra carnose e i tratti
pulp dell’icona popolare.
Il confine proietta verso un altrove, qualcosa al di là. Impedire, separare
fisicamente attraverso un muro induce la tensione di un superamento, la
necessità di oltrepassare, andare oltre l’ostacolo. Ogni muro porta in sé
una separazione, un’assenza e il desiderio o la proiezione oltre il suo
limite fisico innegabile.
I muri sono ciò che ergendosi non permette il fluire del pensiero, della
creatività in senso lato come forza spirituale unificante, universale linfa
vitale, d'amore quasi. Muri sono prima di tutto quelli del pensare e del
sentire lì dove il pensiero si blocca e si irrigidisce, si cancrenizza o si
ulcera in forme di rigidità e intolleranza, di aggressività e avversione
verso l’altro, il nemico, lo straniero o il potenziale detentore di tutte
le nostre rovine, svenute o infelicità. Forse è da quella barriera mentale,
difensiva e in parte rimossa alla coscienza che esso diviene poi barriera
fisica, di edificazione di muraglie o recinzioni e fortificazioni nello
spazio. Anche se per legittima difensiva, o semplice salvaguardia, pone un
limite invalicabile, apre una dialettica dell’esclusione verso un esterno
da cui difendersi, un “nemico” da contrastare, mettere a tacere, ridurre a
silenzio, al limite contro cui fare una guerra. Anche nel pensiero sono i
muri dell’apatia e dell’indifferenza, quella nebbia soffusa, tangibile ai
sensi che ci priva di una visione netta e chiara dei contorni, dissimulando
la verità dietro la patina densa e opaca della
manipolazione mediatica; l’ indifferenza generalizzata verso il vicino, l'a me “prossimo”, e ancora
l’apatia diffusa verso lo stato sociale di marginalità, indigenza ed
esclusione che ci circonda.
I Muri sono ancora quelli dei mondi virtuali dei “social” quando
monopolizzano e assorbono completamente il nostro spazio-tempo interiore
proiettando l’esperienza, la vita unicamente dentro una realtà simulata, in
sé stessa, compensativa e illusoria del reale.
Infine, evoca la prigionia di un meccanismo a ripetizione che ci attanaglia
o “mura” l’anima da qualche parte fino a farla fuggire, retrocedere e
nascondersi, perfino addormentarsi. Tale gabbia oppressiva e monotona del
“dover essere” dissolve i corpi nell’indifferenza grigiastra del quotidiano
e mette in fuga l’anima dalla sua reale dimora nella nebbia del pensiero,
nell’inerzia dell’azione.
Al di-là (Be-yond)
Lucio Fontana : “
Concetto spaziale”
Il verde compatto e rasserenante del fondo è tonalità soffusa e pacata nel
suo distendersi sulla superficie uniforme della tela. Il taglio inaspettato
e incisivo al centro è apertura o passaggio verso un’altra dimensione
spaziale, oltre la piattezza bidimensionale del quadro, ciò che apre verso
un’idea di spazio omnicomprensivo, tendente a un infinito in tutte le sue
dimensioni e visto qui come il passaggio di materia-energia attraverso un
varco inatteso.
Christo: “Running fence”
( 1976 , progetto per un’installazione pubblica)
La siepe corre, come un percorso in divenire, circumnaviga e avvolge come
un manto bianco e rilucente per una quarantina di kilometri il paesaggio
californiano da est a ovest nell’installazione di “land art” qui vista
nella sua fase iniziale di progettazione. Ricopre quasi la parete in
rilievo e i suoi declivi con un nastro bianco-argenteo, lucido o nitido a
seconda del passaggio della luce sul fondo ocra e beige delle asperità
collinari retrostanti. Scivola, corre, lungo tutta la sua frontiera
deviando l’ostacolo, lasciandosi portare da quel fluido magnetico e lunare.
La bianca traccia di luce si disegna come una pennellata sullo sfondo
rossiccio e stagnante del territorio.
Scritte sui muri
Impronte, disegni, scritte, graffiti, murales o bacheche virtuali sui
social oggi, dai muri fisici a quelli digitali si è sempre scritto e si
continua a scrivere, lasciare un’esclamazione di gioia o di rivolta,
lanciare un grido di rabbia o una parola maleducata tra l’indifferenza o
l’attenzione casuale dei passanti, oggi dei lettori sulle bacheche
digitali. Tali muri di parole divengono un’opera interattiva nella mostra
bolognese “the wall” perché riempiti di citazioni e graffiti ai quali si
aggiungono le firme lasciate "in itinere" dai visitatori invitati
a prendere parte all’installazione. Luci di un proiettore ne illuminano una
o un’altra nella massa caotica di tratti che affollano la parete.
Sono scritte colanti di vernice, parole rotte, spezzate, striscianti, o
marcate ad inchiostro, scritte di un momento di rabbia o di incomprensione, spesso deposte
casualmente da sconosciuti. Disegni scherzosi divengono occhi, ritratti
accennati, dediche o preghiere. Le parole si illuminano nei corridoi in
penombra stretti e oscuri: un cerchio di luce a tratti compare , balugina e
si sofferma come la sfera luminosa di un proiettore al centro di una scena
vuota. Sono cunicoli di parole nei quali si resta intrappolati scivolando
in dialoghi e conversazioni inutili o in parole consumate di un non-senso
urlato. Divengono ora corridoi di scrittura dove esse prendono vita dalla
loro precedente, profonda sordità per riallacciarsi all’esistenza
sensibile.
Hitomi Sato,
“Sense of field”
Rompere un muro, spostare una pietra, vedere lo scomporsi di una massa
solida e immutabile attraverso un varco, un passaggio di luce che fatica ad
attraversare, e incerta, liquida, ora limpida taglia il bianco immobile e
diademato del fondo.
Dentro un muro un’apertura soffusa, uno squarcio inatteso di luce per
vedere e sperimentare attraverso il corpo questo passaggio o corridoio
aperto alla percezione nell’installazione “sense of field”.
Contro l’immagine di una barriera o di uno sbarramento metaforico, dell’
isolamento e oppressione convocati nella sala precedente dal video “The
wall” (Pink Floyd) emerge qui l’idea di aprire uno di questi squarci
metaforici di luce, volgendo il termine “repressivo” in “espressivo”.
Nella pratica meditativa buddista cui si ispira l’artista giapponese,
infatti, l’annullamento di ogni forma di ego, lo svuotamento della mente e
dell’individualità ricondotta a uno stadio zero simile a una parete bianca
permette esso solo l’affiorare di un’esistenza più pura e primaria,
ancorata alla verità dell’essere e precedente ogni mutazione transitoria e
effimera dei sensi.
Nella citazione a lato dell’ installazione : “
Fare in modo che la tua mente sia come un muro e entrare dentro la
vita. Meditare di fronte al bianco muro, annullare l’illusione del
vero, ritornare all’essere.”
I muri si squarciano e lasciano entrare la luce, creano percorsi visivi e
spiragli di energia densa e vuota, vie d’uscita ai sensi e
all’immaginazione. Sentire attraverso quei varchi di bianco contro il
grigiore del fondo l’aprirsi di strade, di porte e sentieri. Soffuso
scintillante corridoio dove l’anima attraversa, corre verso la propria
dimora, divino istante di folgorazione. E riluce di immenso splendore. (elisa castagnoli)