Viola Amarelli - Il cadavere felice - Edizioni Sartoria
Utopia, 2017
Torno a parlare di Viola Amarelli, che trovate su IE
in altri post
, perché mi piace come scrive e come pensa, semplicemente. Inoltre questo
"cadavere" è anche un oggetto che ha una sua presenza materica, essendo
stato cucito artigianalmente dalle Sarte Utopiche Manuela Dago e Francesca
Genti, e lo vedi sgomitare tra gli altri libri della libreria con lo
spessore delle sue cuciture. In più tende anche a sottolineare la magnifica
inutilità della poesia, perché vive in pochi esemplari ed è orgogliosamente
fuori da certi processi produttivi. È quindi, in questo senso, un oggetto estetico, oltre che artistico, qualcosa che si pone
consapevolmente fuori dalle mappe.
Ah, sì, le mappe. Perché lo dico? C'è qualcosa che assilla (o solamente
interessa) Viola Amarelli, e mi pare che sia la ricerca e possibilmente la
scoperta dell'essenziale che è possibile dire con il linguaggio che ci è
concesso in dote, depurando il linguaggio stesso dai fronzoli che ne
costituiscono il velame primario. Fronzoli che sono anche di fatto
culturali, prodotti di una esondazione del mondo sulla scrittura, in
sostanza alibi quando si rigetta la fatica di sezionare il reale
preferendone il topos o la mera rappresentazione. Scrive Viola:
[gli accademismi, le traduttologie, le lectiones serpentiformi,
i periodi uroborici, l'armamentario lulliano, il bilame
del computo binario, disegnassero almeno una traccia, una via di,
un sentiero, altrimenti di bravi, bravissimi, ce ne sono già tanti]
È evidente la critica, in primis della poesia stessa, ma anche la critica
della critica. Almeno come espressioni del linguaggio, non tanto come mezzi
in sé, visto che tuttavia alla poesia Viola ancora crede. È che
l'essenzialità dell'espressione è essenzialità del pensiero, soprattutto
nel momento in cui la rozza materia linguistica diventa, come una amigdala
di selce, uno strumento. Che deve essere infine consumato:
le parole sono pietre.
tu scheggiale
fino a che non diventano sabbia, polvere.
fine.
Be', qui entrerebbero in gioco altri fattori, diciamo così ideali, a parte
quella chiusa che può essere intesa in diversi modi. Uno di quei fattori è
che rarefazione del dire, frammentazione del verso, sospensioni sintattiche
e altro ancora non sono iconografia nichilista, o rappresentazione di una
realtà sfuggente e spappolata, o balbettio stupefatto dell'uomo. Sono
semmai ammiccamento, anzi avvicinamento al silenzio come perfezione
inattingibile, come forma d'arte suprema, o mistica. Naturalmente Viola sa
bene che esiste un punto di rottura in questo avvicinamento, un culmine
oltre il quale tutto precipita nel vuoto. Come scrittrice, perciò, cerca di
raggiungere semmai l'arte di avvicinarsi al limite e ritrarsi, e questo
significa, ancora una volta, depurare la parola mantenendone da una parte
intangibile il senso, per qualunque orecchio, e dall'altra dandole un
riverbero disvelante o sapienziale (ma siamo ormai lontani da Notizie dalla Pizia). Il limite fascinoso è, in altre parole, una
scarnificazione "pulendo all'ossoessenza / quello che resta, quel che
m'interessa". Processo consapevole quindi, mentre di converso il cadavere
felice, come spiega la poesia eponima, è chi non sa di essere morto, come
un arto fantasma che si illuda di afferrare brandelli di vita, mentre
invece ha subito o accarezzato "uno sciame di mediocrità". Nella visione di
Viola, critica del linguaggio e critica della mediocrità umana
("l'imbecillità dilagante") si sovrappongono, anzi sono indistricabili,
perché è nel modo di dire, nella costruzione facile, nel sintagma assestato
nella consuetudine (gli stessi che Amarelli talvolta destruttura
ironicamente) che precipita la dismissione del pensiero.
Composto di cinque capitoli ( narrazioni, cronache, dèmoni, fantasmata e cerchi), la
maggior parte dei quali inclusi, in tutto o in parte, in Fantasmata e altri inediti di cui avevo già parlato
QUI
(e quindi rimando anche a quel post, a quanto scrissi e alle poesie ivi
contenute), il libro appartiene a quel genere di poesia che se ne frega
altamente di essere lineare o assertiva, che cerca uno stile non autotelico
(lo scopo in sé) e che se fa ricerca (termine che noterete ho usato solo
una volta prima d'ora) è proprio per trovare qualcosa, non foss'altro, al
bisogno, come scrivere "una poesia semplice" (trovate il testo nel post
sopra citato) o il modo di confrontarsi a testa alta con le cose, ancora le
"nudecrude cose" che, loro sì, "se ne fottono o, più esattamente, restano
imperturbabili", o con la presenza sempre sotto traccia della morte, tenuta
d'occhio e di conto, ma da una distanza "spirituale" e tutto sommato disciplinata. Ecco, credo che questo sia un concetto appropriato,
applicabile su più versanti, sul lato soleggiato e sul lato in ombra della
collina, per dirla in termini che Viola potrebbe apprezzare. Ovvero su
quello della scrittura, per ciò che abbiamo detto prima ma non solo, la cui
sintesi espressiva, rarefatta e contundente insieme, non viene contraddetta
dai testi più lunghi, quelli ad esempio che è possibile leggere nella bella
sezione cerchi; e sul versante dello sguardo, specie quando
rivolto all'esterno, come alla sua città e alla gente (qualche esempio
ancora in cerchi e nelle poesie contenute ne La disarmata
- v.
QUI
), sguardo sempre selettivo negli elementi, pochi e fondamentali, che vanno
a comporre un'immagine che oserei dire compassionevole e partecipata di un
comune destino di impermanenza (purché non si parli di imbecilli,
naturalmente! o di certi orrori della modernità). È in fondo la disciplina della misura, che non è ritegno
né understatement, è caso mai consapevolezza dei limiti e dei
confini, anche di quel silenzio che la stessa parola poetica contraddice,
proprio nel momento in cui lo prefigura: "le belle parole / le giuste / le
sufficienti / quelle necessarie / finiscono nello stesso / punto dove
nascono. / il silenzio - sipario". Nel frattempo però... (g. cerrai)