Martedì, 10 luglio 2018
Sebastiano Aglieco - Infanzia resa - Il Leggio
Libreria Editrice, 2018
Il bambino sviluppa da subito un legame affettivo con l’insegnante, il
quale resta, comunque e da sempre, un punto di riferimento
affettivo/comportamentale e di vicinanza. Il fattore di attaccamento (vedi
teoria dell’attaccamento di Bowlby) garantisce al piccolo la sopravvivenza
in un ambiente sociale in cui il bisogno di protezione è prioritario quanto
la necessità di scaricare pulsioni e di alimentarsi. Nei primi scambi
insegnante-bambino possono manifestarsi momenti di sconforto/conforto e
segnali di richiesta di aiuto (contatto fisico, paura) esibiti dal bambino.
Quindi, la relazione tra i due diventa struttura portante per la formazione
cognitiva, psicologica ed emozionale del bambino, ma anche dell’adulto con
cui tutti i giorni il piccolo viene in contatto. Infanzia resa,
importante lavoro poetico di Sebastiano Aglieco, poeta e insegnante, non è
un libro fiabesco, anzi. Ci troviamo di fronte a una struttura acquisita
del conoscere la realtà semplice e affabile dei bambini in maniera civile e
visionaria. Il libro è introdotto dalla prefazione dell’acuto Massimiliano
Magnano e si conclude con una illuminante intervista curata da Vincenzo Di
Maro. Sebastiano Aglieco, nella sua nota e nell’intervista, ha premura di
accompagnarci nella lettura di alcuni testi e sezioni inserite nel libro
(Collana Radici, Il Leggio Libreria Editrice, 2018 diretta da Gabriela
Fantato); infatti, ci suggerisce, con tono pacato e naturale, di
approfondire e soffermarci sui colori di alcuni passaggi a lui cari e
mettendo a fuoco i piani universali della poesia, molto spesso persa nei
labirinti superficiali della disattenzione. L’ambientazione è la scuola e i
personaggi gli studenti: qui la poesia fa il suo ingresso come metodo di
comunicazione, descrizione e azione autentica per identificarsi con il
proprio e l’altrui animo. Un concreto nucleo di concentrazione del mondo
come riferimento straordinario per esaltare immagini e pensiero: la tecnica
espressiva del poeta ci educa al desiderio di indagare il vissuto
sensoriale di ciascuno di noi, lettori/allievi, usando toni sacri
dell’esperienza quotidiana al fine di evitare il rischio di allontanarci
dalla vita. Aglieco imbastisce un canto delle origini di declinazione etica
e umana in cui l’amore per la fedeltà al confronto assume sembianza
analitica e incrocio/fusione di identità. Non è casuale incontrare il poeta
bambino nell’adulto e l’adulto nel piccolo, una osmosi etica che riconsegna
vita alla vita per osare la via diretta della verità. (rita pacilio)
Continua a leggere "Sebastiano Aglieco - Infanzia resa, nota di Rita Pacilio"
Martedì, 3 luglio 2018
Pietro Roversi - I pinguini dei tropici - Arcipelago Itaca,
2017

Un libro singolare, questa quarta raccolta di Pietro Roversi, che offre al
lettore un'esperienza abbastanza inusuale. Che deriva innanzitutto da una
visione delle cose e del mondo parecchio metaforizzata, traslata in una
dimensione insieme altra e insieme "regolata", ovvero con un suo ordine
accettabile, cioè in ultima analisi di una realtà quindi sopportabile.
Voglio dire, intellettualmente sopportabile, una realtà su cui agiscono
cultura, capacità espressiva, primazia del linguaggio, addomesticandola. Le
cose (usiamo ancora questo termine generico su cui il prefatore Davide
Castiglione ha detto in passato la sua) non sono solo quello che
sono, ma anche e soprattutto quello che il linguaggio le fa diventare,
relazionandole all'uomo che le osserva e ad altri significati. Naturalmente
quando si parla di linguaggio si intendono messi in campo non unicamente i
mezzi strutturali, sintattici etc., ma anche e di più tutti gli arnesi
retorici e espressivi, a cominciare da una raffinata ironia che si affaccia
molto spesso tra i versi. E alla quale concorre un uso anche estensivo di
rime interne ed esterne e di un ritmo ben articolato ma a bella posta
zoppo, dall'aria non di rado canzonatoria.
Il linguaggio stesso è metaforizzato (e non solo metaforico in senso
stretto, non è quello l'importante), nel senso che non esprime tanto
l'accostamento o la distanza con le cose, quanto - anche per via lessicale
- la sua distanza da una visione ordinaria di esse, come se i fenomeni
registrabili, i pensieri, i concetti o anche le impressioni fossero in
larga misura oltre che descrivibili soprattutto riscrivibili, o
latori, a saperle vedere, di altre e diverse informazioni. In questo senso
opera anche una continua dislocazione semantica, con un uso fusion di linguaggi specializzati, scientifici o settoriali che
porta con sé una diversa prospettiva, insieme per forza di cose a una
irrinunciabile, ancora, traccia ironica. Va da sé che in questo operare c'è
un rischio implicito, che consiste qualche volta in un "innamoramento"
autotelico delle parole, del gioco a volte insistito di esse, a discapito -
diciamo per semplificare - del contenuto.
Già il titolo, come è stato notato, è un ossimoro. Il che non vuol dire che
non possa rientrare nel campo delle possibilità, o almeno, cosa più
importante, dei desideri, anzi dell'immaginazione desiderante. Dire questo
significa dire, tra le altre cose, che il poeta (Roversi come altri) ha il
potere di riorganizzare il suo dettato come vuole, soprattutto in direzione
del simbolo (cosa ci fa, ad esempio, come giusto si domanda Castiglione, ai
tropici un uccello inetto al volo e adatto al freddo? sarà immagine, si
suppone, di chi è costretto a migrare). La poesia di Roversi si nutre molto
(e molto restituisce) di questi salti di potenziale e delle risposte
implicite che offre al lettore disposto a vederle. Direi anzi che si
istituisce in gran parte su questo tipo di spostamento tra non mediato e
allegorico, tra reale e sur-reale. Si tratta anche, in relazione a quanto
si diceva sul linguaggio, di cercare e superare certi limiti, una vena
sperimentale che non riguarda quanto si intende con questo termine in
letteratura, bensì un atteggiamento mentale e culturale (l'autore è
ricercatore biologo) di messa in discussione dell'acquisito, provando e
riprovando, per dirla con il motto dell'Accademia del Cimento. Per
descrivere temi alti e bassi e anche, ma sì, filosofici: la vastità dello
spazio, il tempo, l'inesplorato, certe dinamiche della società, il luogo
comune, i rapporti sessuali o sentimentali o semplicemente il vivere,
magari quotidiano, il proprio esistere (specie nella sezione che titola il
libro). Cosa tutt'altro che semplice, ma Roversi ci mette una certa stoffa.
Il tutto è scosso da una domanda semi-serissima e insieme disillusa/elusa:
che cosa e come ci stiamo a fare qui, di certo noi, ma io personalmente? La
risposta è spesso, specie per via di quel monotonale basso continuo
satirico a cui allude anche Castiglione e che non sempre è diretto
all'esterno: non prendiamoci troppo sul serio, perché forse non ne vale la
pena. E come scrive Roversi: "Avrò pure diritto / allo sperpero, al mistero
fitto fitto / del desiderio, mio bilanciere, sonno e pudore". Ma è proprio
così?, si chiede chi legge. Paradossalmente, a volercelo trovare per forza,
in questa poesia un senso del tragico c'è, sta lì. In questo cogente riso
sardonico, in questa immanente puntuta vena epigrammatica, che forse
nasconde un dolore. O forse lo sperpera, sperpera la materia stessa di cui
questa poesia è (potrebbe essere) fatta. (g. cerrai)
Continua a leggere "Pietro Roversi - I pinguini dei tropici"
Martedì, 26 giugno 2018
Zhang Dalì, Meta-morphosis
(a Palazzo Fava a Bologna)
E’ una storia di metamorfosi, di transizioni e ri-creazioni quella che
l’artista cinese contemporaneo Zhang Dalì racconta nella mostra attualmente
in corso a Bologna a Palazzo Fava, una storia in cui il senso di
cambiamento è pervasivo e a diversi livelli: politico ed economico nella
Cina globalizzata d’oggi, urbanistico nelle demolizioni e rifacimenti
massici della capitale, poetico nella capacità dell’artista di dare voce e
corpo alla transizione del paese verso una nuova forma di capitalismo
globale con tutti i traumi e contraddizioni che in esso si riflettono. Il
“realismo estremo” di Dalì esprime per l’artista la necessità di guardare
alla realtà d’oggi del suo popolo, del suo paese, e riflettere, esaminare,
dare voce a una coscienza critica, nella frattura anche tra realtà e
individuo perché, come egli afferma: “l’arte ha il dovere di esprimere il
proprio scetticismo verso la brutalità che esiste nel mondo reale”.
“Penso che l’artista contemporaneo senza una presa di posizione netta
non possa creare nessuna grande opera. Deve prendere una posizione che
gli permetta di distinguere tra bene e male e dare un giudizio di
valore. La creazione artistica incarna un’ideologia così come
un’umanità. Se non c’è compassione, amore ma solo l’idea di arte come
giullare di corte allora l’artista sarà uno snob e uno speculatore”[1]
.
L’arte contemporanea in Cina dal suo punto di vista può solo essere un’arte
di ribellione, perché senza tale presa di posizione sarà l’interesse a
condurre il gioco o la pura logica del profitto. L’artista, secondo Dalì, è
colui che riesce a dare una voce, una coscienza critica e espressiva a
quello che sente manifestarsi intorno a sè nel mondo nella società, nella
vita che lo circonda e al quale i molti non possono dare voce. Di qui, la
necessità di comunicare, condividere con la maggior parte o dare visibilità
al massimo grado attraverso la fotografia, l’installazione o i graffiti in
modo da rendere palese una verità o una visione che viene dal profondo
senza incorrere in una mistificazione del reale che conduce a in un’arte
elitaria, complessa o distaccata dalle persone.
“AK-47”, auto-ritratto
Il mio volto è questo ritratto espanso e reso attraverso una miriade di
punti, unità luminose, pixel quasi dell’immagine elettronica nella
litografia stampata. Ricoperto dal marchio indelebile di un nome, logo di
un’arma da fuoco e cancellato dalla medesima come dall’ evidenza esposta di
una violenza innegabile per quanto celata, dissimulata in maniera sottile o
resa invisibile nella società d’oggi. Tuttavia, anche, è uno sguardo che
penetra e attraversa la fitta maglia di questa rete densa e occlusiva per
vedere attraverso e giungere, incisivo come un obiettivo al punto focale
dell’immagine, tale lo sguardo dell’artista sul reale.
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Mercoledì, 20 giugno 2018
Alcune poesie di Jean-Pierre Duprey, cometa del surrealismo che è bruciata in fretta (suicida a 29 anni nel 1959), di cui avevo già presentato qualche testo QUI (allo stesso indirizzo trovate una nota biografica ed altre indicazioni). Altre poesie da me tradotte troveranno collocazione in una prossima pubblicazione collettiva.
Verità è falso
Le stelle hanno sorelle gemelle negli occhi delle lupe
Io, non ne ho di stelle
Il cielo è immobile nel mare
Io, non ne ho di mare
Io, io non ho un corpo ma cerco un velo
Per velare la mia apparenza di corpo
Cerco un velo impermeabile
Agli sguardi della verità
Perché non so mentire e temo troppo uno di questi giorni
Che la verità m'insegni che io soffro
Perché allora non avrei la faccia
Per dirmi che è tutta una bugia
(settembre 1946)
Canzone nel vento
Ho scoperto un gran sogno di ricordi
I fiori mi chiamano, i fiori hanno odor di donne
Gli occhi dei fiori si colorano di lacrime
Le viole1 vanno e vengono all'intorno
Il vento a tratti cambia di canzone
Il tempo a tratti cambia di mantello
Ancora i fiori parlano
E io ho casa in un angolo di cielo
Caduto malato proprio in mezzo ai fiori
In quella sera, così come la vita è infinita
Io faccio una passeggiata sulla luna
(1946.)
Amara
Al sorgere del sole piscia una bruma blu
Lui spelacchia un sole
E si taglia un cantuccio di giorno
Vuole accomodarsi in poltrona
Ma prima si suicida
Disperato di non avere quello che non ha
il poeta
il poeta
Mescola i suoi singhiozzi e chewing-gum
Si agita davanti ai grani di sangue
Che abitano il suo sparato
Volle rubare i perduti amori
E fumarli come mozziconi senza gusto
(1946.)
Corpo a corpo
La storia del mondo risale il vuoto
- Mentre qui tutto è segreto - al cielo più leggero
La sera cadeva melmosa come mescolata a piogge,
Ceppi di rumori mortali, campi di blu dormivano
Grigi di gelo e come se la vita
Si fosse coricata troppo pesante da sopportare
L'animale passò, diafano e senza appello.
Le nuvole forgiavano la battaglia del cielo,
Troppe croci, il freddo crepava il mare,
Nessuno sapeva per dove trapassare il ferro,
I corpi colpiti all'urto di corazze
La fine passava tra loro come una fitta,
Campane di sogno, campane di Dio attraversavano serrature,
Tutto si schiantò, il mare e la lotta insieme
Scivolarono attraverso la carne, troppo duro
Il vento lanciava frantumi di frasi mozze
La terrà s'apri essendo il male troppo grande
E sotto il fuoco crepò l'albero finale.
(novembre 1946)
da
Premiers poèmes publiés et inédits (1945-1947)
(traduzione G. Cerrai - 2018)
1 Les pensées
ovviamente sono anche i pensieri, ma per un testo con molti fiori ho fatto
una scelta un po' più surreale (ndt)
Continua a leggere "Jean-Pierre Duprey - Poesie"
Venerdì, 8 giugno 2018
Joan Josep Barceló i Bauçà - Collegamenti covalenti - Aletti
editore, 2017

Joan Josep Barceló è un poeta catalano, anzi per la precisione
maiorchino, che ha intensi e frequenti rapporti con l'Italia e la sua
poesia. L'ho incontrato di recente a Bologna, dove era uno dei
finalisti del Premio "Bologna in lettere" per l'opera inedita. Ho
ascoltato le sue poesie in italiano, ho chiesto che le rileggesse nella
loro versione originale, in catalano. Lo scopo era ottenere proprio
quello che mi aspettavo, un senso/suono, una musica appunto
"originale", cioè qualcosa che filtra in chi legge o ascolta ad un
livello un po' più sub-limen, più vicino all'atto di creazione. La
poesia è anche questo.
In questo libro, tradotto in italiano (anzi riscritto, non vi è testo a
fronte) dallo stesso autore, ritrovo senso, suono e liricità di quelle
poche poesie ascoltate. La conferma di uno stile, di una disposizione
poetica che mi erano piaciuti, una poesia che sfuma le cose, le
percezioni, le esperienze, le avvolge in una atmosfera vagamente
surreale che le agita. Liriche soprattutto, sì, voci di un io molto
presente però non particolarmente egotico, capace di muoversi abilmente
tra altezze diverse, diciamo tra una terra tangibile, amorosa e
sensuale, e quindi grata e vitale (una "esegesi terrosa che crea la
vita"), e un cielo dove insieme collocare e da cui trarre la parte
volatile, la dimensione extrareale dei nostri pensieri, forse delle
nostre angosce o dubbi circa l'esistere. Come i legami covalenti a cui
allude il titolo (una proprietà chimica, una sovrapposizione, anzi una
comunione di atomi che annoda elementi) gli elementi materiali e
immateriali (come ad es. lo sperma e l'aura sentimentale delle
relazioni amorose) della poesia di Barceló si fondono, creano un
diverso o più forte oggetto. Non è tanto da dove si muove, questa
poesia, quanto dove giunge, dove si realizza - anche velocemente (i
testi sono tutti relativamente brevi), anche semplicemente se si vuole
- "l'artificio che gioca con l'aria". Mi pare che ci sia nella poesia
di Barceló una fiducia sia nel potere evocativo del suo particolare
linguaggio poetico, che per l'autore appare essere tanto più forte
quanto più esso è sfumato, o - come si diceva - "semplice"; sia nel
manifestarsi, con altrettanta immediatezza, dell' avvenimento
poetico in ogni momento, come un fatto naturale su cui
costruire il suo testo. Cioè per Barceló la poesia è ovunque e ovunque
determinata, per quanto molto di essa ruoti intorno a un centro in cui
l'io, poetico e autoriale, si colloca stabilmente. (g. cerrai)
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Mercoledì, 30 maggio 2018
Luigi D'Alessio - Louis - RPLibri 2017
Chi è Louis e che cosa cerca? E' una battuta ma
anche una domanda legittima, poiché Louis non è solo il titolo di questo
libro (esordio promettente della collana Poesia di RPLibri), ma è
soprattutto la presenza percussiva che si affaccia da ogni singolo testo di
questo libro e ogni volta si presenta indirettamente come personaggio
("Louis una sera...") o viene presentato ("Louis mi disse..."). E una delle
prime conseguenze per il lettore è che, essendo Louis sempre in scena,
perde di importanza il prima e il dopo nella sequenza delle cose e dei
testi medesimi, e non è un caso che come struttura questo libro non
presenti alcuna ripartizione in sezioni. Se da una parte, paradossalmente,
questo facilita le cose al lettore, libero da ogni sequenza, dall'altra
sembra calare le evenienze, gli avvenimenti ecc. in un tempo
indifferenziato nel quale gli eventi si manifestano come puri accidenti
incastonati in quel tempo medesimo, dal quale peraltro sono impossibilitati
a sfuggire. Accidenti che però "significano" e che, verso dopo verso,
finiscono per costruire, per punti e linee, un quadro, un insieme organico,
e quindi a tutti gli effetti un poema. Ed anche una storia, se si prendono
in considerazione sia l'uso costante di tempi verbali al passato che
determinano la "chiusura" e il sigillo degli eventi, sia il ricorso ad una
brevità aforistica dei testi che non concede margini né repliche e che dà
al tutto un'aria vagamente mitica. Così è, insomma, come una vita marcata
non tanto da epifanie, ovvero rivelazioni o agnizioni, quanto da conferme,
capisaldi, elaborazioni di evidenze guardate con occhio intellettualmente
smagato e forse un po' autotelico (c'è dietro questa scrittura una cultura
non indifferente e cosciente di sé che si esplica e si annota). La
registrazione del passato tuttavia, poiché disposto in frammenti, non è
necessariamente lineare, né impedisce, almeno come affascinante ipotesi, la
riscrittura e forse la revisione della storia stessa.
Louis e Luigi sono la stessa persona? Sì e no, ovviamente. Da una parte c'è
l'artificio di un non dichiarato eteronimo (in effetti non sappiamo davvero se e chi), dall'altra c'è la messa in gioco
dell'immaginazione, senza la quale nessuna opera d'arte è data. Possiamo
definire Louis un deuteragonista di un Luigi che passivamente ascolta o
registra, ma è più probabile che sia uno stratagemma, un camouflage
dell'io, un io forse antilirico e defilato e tuttavia abbastanza lontano
dal "tu" impersonale e proiettato su una parete che si trova in tanta
poesia nostrana, e questa distanza lo dota di una notevole originalità. Uno
scambio tra personae che alla fine, a pensarci bene, risulta
essere un io aumentato, un super io capace di scendere a maggiori
profondità. E che non è, per stabilire un confine, un doppelgänger
, un altro da sé di diversa polarità, il villain che dice cose che
Luigi non direbbe, anche se Louis talvolta prende il sopravvento, una
specie di superiorità intellettuale, di acribia ("Louis pronunciò quella
parola / spiegando la differenza / tra maiuscolo e minuscolo. / Come fossi
scemo scrisse Tempo e accanto tempo"). D'Alessio, che certo ha letto Borges (che vi si ritrova in certe circolarità labirintiche)
e anche Pessoa, deve aver ragionato sulla questione dell'eteronimo,
ritenendola insoddisfacente ("Louis cercò lungamente / - ma Louis disse a
lungo / un eteronomo. / Non lo trovò. / Louis si convinse di aver perso /
una opzione della morte") e Valentino Fossati, nella post fazione, afferma
che Louis "non è un alter ego in senso stretto...ed è limitante definirlo
escamotage e finzione". Lasciamo la questione aperta, ma diciamo di
inquadrare Louis almeno come deus ex machina, o macchina soltanto, inteso
come macchina teatrale. Su un paio di cose direi di essere d'accordo con
quanto dice Fossati più o meno esplicitamente: una riguarda il rapporto
diciamo psicologico tra l'io che scrive (non necessariamente
l'io/personaggio) e il personaggio Louis il quale permette di superare "il
pudore dell'abbandonarsi, del rivelarsi, ma anche del proprio stesso
(confessabile) narcisismo". E forse soprattutto, aggiungerei, di allargare
il campo dell'immaginazione e della fantasia/fantasticheria (si vedano gli
incontri/citazione di personaggi noti). L'altra annotazione riguarda un
elemento anche per me interessante, ovvero una doppietà diegetica (una voce
"dentro" e una voce "fuori", dislocazione di episodi, ecc.), e anche una
struttura a flash o scene brevi di una certa somiglianza con il linguaggio
per immagini cinematografico (Fossati a titolo di esempio cita
opportunamente Tarkovskij), qui riferibile soprattutto a "frammenti di
pensiero [che] sovrapponendosi, assemblandosi, diventano intercambiabili".
Si tratta, tutto sommato, di un atto di semplificazione, di semplificazione
della complessità, proprio a partire dal linguaggio, diretto, privo di
fronzoli.
Ma di che cosa parla Louis? Diciamo che parla principalmente del suo essere
al mondo, delle ragioni del suo essere al mondo, in altre parole di
esistere, di una sua autonomia rispetto alle stesse ragioni della sua
"invenzione". Attraverso il dialogo, peraltro molto sbilanciato a favore di
Louis rispetto all'io che qualche volta si affaccia, Louis racconta a
Luigi, a volta con toni surreali, i suoi pensieri, le sue considerazioni, i
suoi incontri intellettuali, i suoi amori, le sue "fissazioni" ("Louis
fotografava porte. / Più di una volta Louis / intraprendeva viaggi / per
fotografare porte") che a loro volta generano nuclei di pensiero, "schegge"
papiniane o aforismi peraltro spesso lasciati "aperti" in finali (o
"inattese uscite") che sembrano saltare qualche step di senso rimandando a
significati "altri" ("A Louis poi gli parlarono / dei neuroni specchio.
Così / Louis si convinse / di poter amare pure senza Dio") o a tautologie che nascondono una fascinazione logica: "L'ultima volta che vidi Louis / fu l'ultima volta che ci vedemmo". Testi insomma
che traggono molta della loro forza da brevità e sublimazione,
condensazione e spostamento, e da una scrittura lieve e robusta insieme. In
essi, e nella loro duplicità, si manifesta, si consuma e si esaurisce
soprattutto una serrata schermaglia con l'esistenza e il suo epilogo, con
la morte quasi mai nominata (se c'è somiglia a un indeterminato svanire, come
quello di Louis alla fine del libro: "alla fine Louis alla fine / era come
uno sperso Valéry"; "Louis alla fine ricordo mi disse / Louis non mi disse
niente"). Il doppio, comunque lo si voglia definire, è anche la possibilità (potestà)
autoriale del sacrificio, un agnello Louis da condannare al silenzio al
posto di Luigi. (g. cerrai)
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Venerdì, 18 maggio 2018
“Revolutija
”, artisti russi tra avanguardia e rivoluzione (al Mambo di bologna)
“Revolutija” dal titolo della mostra al Mambo di Bologna, è lo spirito
rivoluzionario che travolge e scuote nell’anno tumultuoso del 1917 una
Russia millenaria e zarista nello sguardo di artisti d’eccezione come
Kandinsky, Malevich, Chagall, Tatlin, Replin ecc. E’ ancora il fervore
culturale, lo spirito della modernità, l’anima dell’avanguardia nei suoi
diversi movimenti che tra il 1910 e il 1920 rinnovano profondamente il
volto dell’arte attraverso un’ondata di creatività che come una ventata
violenta e travolgente precorre il rovesciamento politico del paese, lo
esalta e lo condivide. Da un punto di vista artistico assistiamo al
concepimento di “forme creative che maturano attraverso i decenni” e si
inseriscono pur nella loro diversità in quel progetto di rinnovamento
estetico radicale delle avanguardie europee. Politicamente, la rivoluzione
è il centro nodale e l’apice di un pensiero nuovo, marxista e leninista di
ispirazione che sfocerà nel rovesciamento dell’ordine stabilito, la fine di
un mondo e l’inizio, brutale, incerto e imprevedibile di un altro per
giungere più tardi alla sua involuzione totalitarista negli anni ‘30.
Nell’immagine d’apertura “Che vastità” (1905) di Il’ja Repin in maniera
quasi surreale due giovani appaiono sospesi in un turbinio d’onde in mezzo
all’oceano; si lasciano trasportare, il cappello di lei svolazzante
trattenuto a da una mano contro le ondate tempestose e il vorticare
dell’aria marina, lui euforico con le braccia aperte e il torace portato
verso l’avanti come per accogliere o sfidare le forze incontenibili dei
mari e dei venti. Inebriati, quasi sospesi contro il vasto scrosciare delle
onde nel moto tumultuoso dell’oceano appaiono scivolare sulle acque
visibilmente rapiti dall’entusiasmo per la ventata di nuova libertà.
L’uragano spontaneo e travolgente come estasi ai sensi preannuncia un tempo
nuovo, una scintilla accesa nell’oscurità, l’idea di un movimento
sotterraneo se non emerso ancora , che come questi fiotti si approssima
impossibile ad arrestare.
Repin, “17 ottobre 1905”
Volti vividi, realismo e passione, Repin coglie in questo grande affresco
della classe liberare “il carnevale della rivoluzione russa pieno di
follia, colori e beatitudine” mentre si festeggia l’alba di un nuovo
secolo, agli albori di un moto del 1905 che sfocerà dodici anni più tardi
nella rivoluzione d’ottobre. Una folla di volti di diverse età e
provenienze, entusiasti e liberali, nobili o borghesi, studenti, operai e
ufficiali cantano versi rivoluzionari in primo piano nell’affresco di una
società in ebollizione che incarna euforicamente lo spirito del nuovo,
irriverente e vitale alle porte. I volti nitidi ed esuberanti appaiono
rapiti un una sorta di estasi collettiva di cui il fervore politico permea
l’ area e aleggia tra le linee, dietro gli sguardi, ovunque tacito
attraverso la scena.
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Lunedì, 14 maggio 2018
«Raccolta di trascrizioni» e aggregazione in forma di pastiche in
molti casi, «centone di compos izioni precedenti di uno o più
autori» (dal Dizionario enciclopedico della musica e dei musicisti UTET),
così ci informa l'autore nella Nota a fine testo, citando un passo di
Jolanda Insana sul «bisogno di fare e disfare», e mettendo a commento
Raboni della “poesia che si fa”, Gli esercizi platonici di
Pagliarani, i Palimpsestes di Genette, Zanzotto...
E in effetti questa raccolta, che si colloca dentro una tradizione
antichissima, mette a punto alcune considerazioni specifiche sulle modalità
del “fare poesia”:
- i rapporti di senso cambiano, ma reggono in altri modelli inediti e a
volte imprevisti, scombinando e ricombinando il materiale verbale («si
creano sbilanciamenti» osserva Insana a proposito di proprie esperienze
simili);
- è un modo per «giocare con ciò che si trova in giro» (ancora Insana),
quindi si pone attenzione alla disposizione a usare parole, oggetti, già in
circolazione, comuni;
- più che esercizi di scrittura sono anche e forse soprattutto «esercizi di
lettura», nel senso di lego (“leggere” e anche “scegliere”,
“raccogliere”);
- questo disfare e fare ci riporta alla poesia come a «un piccolo o grande
opificio» (Zanzotto).
La ricombinazione di significati ha tradizioni lunghe nel tempo e
consolidate nel Novecento, soprattutto in ambito francese, svizzero,
tedesco (Oulipo, dadaismo, parte delle Avanguardie) e angloamericano.
Nella raccolta di Rodolfo Zucco diventa materiale di creazione e di studio,
esercizi di scrittura in cui si sperimentano multiformi possibilità di
costruzioni linguistiche per indagare fin dove può arrivare la forza di
aggregazione del linguaggio, la sua disponibilità plastica. E parimenti
quali immersioni nei significati sono possibili, quali suggestioni si
agganciano a una forma di scrittura non empatica, distaccata, tenuta
insieme dalla misura delle parole, anche quando si tratti di linguaggio
arcaico, specialistico, gergale, colloquiale, plurilinguistico. Le
“restituzioni” ci offrono un testo sorvegliato, misurato, mai dirompente o
eccessivo. Come se l'intento primo dell'autore fosse stato quello di
mantenere un equilibrio interno, una proporzione nel dicibile, lavorando di
scelta ponderata, di presa di misura negli accostamenti. Questo
procedimento non diminuisce la creatività, ma libera la disposizione
autonoma alla ricerca, senza eccessi o sovraccarichi derivanti da un
surplus empatico.
Non sono giochetti fini a se stessi o al più legati a una sovraesposizione
di narcisismo (anche involontario), o di ironia, di quella arrischiata
sorpresa accattivante atta ad attrarre il lettore, una manipolazione
piuttosto superficiale che riveli bizzarrie, metta in luce la facilità del processo di invenzione, di imitazione, come in tanti
esercizi di scrittura contemporanei.
In questa raccolta l'esplorazione del linguaggio consente due direttrici di
percorso: una verticale, che entra nei gangli del processo creativo, si
cala nelle profondità del soggetto perché muove qualche lontana somiglianza
o reminiscenza o faglia sospesa che tende a risuonare nuovamente; un'altra
orizzontale, aperta e dinamica, che esplora le disposizioni della
lingua, le sue innumerevoli possibilità di combinazione da cui scaturiscono
nuovi o rinnovati sensi, tutti indagabili in altre esplorazioni.
E non perché il materiale usato appartenga spesso alla lingua antica o a
registri specialistici o comuni, a forme desuete o burocratiche, alla
letteratura, a dizionari, a copioni teatrali, a codici di legislazioni, a
resoconti di viaggi, alla produzione saggistica, a didascalie; e si
rincorrano, tra gli altri, i nomi di Dino Buzzati, Bruno Schulz, Stefano
Malatesta, Konrad Lorenz, Carlo Goldoni, si affacci forse Elena Ferrante.
Neppure perché si mantenga graficamente una separazione (tondo e italico)
nella scrittura a indicare intenzioni diverse e qualche volta si rimandi a
un gioco alterno, uno spostamento inaspettato nella “posizione” e
nell'ottica scrittoria. E neppure perché da spunti appena accennati nascano
per interna germinazione delle osservazioni, riflessioni, suggerimenti che
trascinano il senso a interrogarsi sul comune destino, sulla disponibilità
umana alla esistenza consumata nelle sue innumerevoli forme: come, in quali
modi storici e contemporanei, è data, si è manifestata.
E' una osservazione continua di frammenti, di particelle di realtà
accostati per moltiplicarne il senso, per dare significazione di una
complessità di sguardi, di scelte, di posizioni, di proprietà, di
accidenti, tutti oggetto di trasformazioni, mutazioni.
E lo sguardo combinatorio dell'autore sorveglia e scava la materia vitale
con la cura tenace dello studioso, con l'accudimento dell'amante. (gabriella musetti)
Continua a leggere "Rodolfo Zucco - Bubuluz, nota di Gabriella Musetti"
Domenica, 6 maggio 2018
Dal 18 al 20 maggio prossimi si svolgerà a Villa Gallia a Como l' VIII edizione del Festival Internazionale di Poesia "Europa in versi", con il tema "La poesia e il viaggio". Il programma (v. il comunicato stampa completo QUI) comprende, oltre la premiazione dei vincitori del “Premio Internazionale di Poesia e narrativa Europa in versi” (giuria composta da Milo De Angelis, presidente, Roberto Galaverni, Laura Garavaglia, Mario Santagostini, Elisabetta Broli, Andrea Tavernati e Wolfango Testoni), anche un reading di poeti provenienti da diversi paesi (Ion Deaconescu, Metin Cengiz, Dmytro Tchystiak, Claudio Pozzani, Francoise Roy, Massimo Daviddi, Gian Mario Villalta, Müsser Yeniay, Luciano Monti, Maddalena Lotter e Kabir Yusuf Abukar); e, per la prima volta al Festival, un poetry slam, coordinato da Dome Bulfaro, anch'esso con artisti di varia provenienza, i campioni nazionali di Usa (Regie Gibson), Francia (D' De Kabal), Sud Africa (Tania Haberland), Svezia (Olivia Bergdahl), Italia (Simone Savogin) e Spagna (Dani Orviz). Come tutte le volte che mi è possibile pubblico per gli amici di IE una discreta selezione di poesie dei partecipanti, ringraziando con l'occasione Laura Garavaglia, presidentessa del Festival e della Casa della Poesia di Como, e gli autori per la concessione dei testi.
I POETI DEL READING
Ion Deaconescu
nasce nel 1947, è poeta, scrittore, romanziere, critico letterario e
traduttore. Si è laureato alla Facoltà di Lettere dell'Università di
Bucarest e alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Craiova. È
docente presso la Facoltà di Scienze Sociali della stessa città. La sua
poesia affronta spesso il tema dell’amore con toni lirici. Il suo sguardo
si allarga anche a riflessioni sul senso della vita e sull’esistenza di
Dio. È stato tradotto in moltissime lingue tra cui: francese, italiano,
portoghese, serbo, macedone, inglese, turco, ungherese. Ha pubblicato oltre
cinquanta volumi tra poesie, romanzi, critica letteraria e traduzioni,
ottenendo numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali, quali il
premio Racin e il premio Trieste Poesia. È presidente dell’Accademia
Internazionale “Mihai Eminescu” e direttore del Festival di poesia omonimo.
Esiste veramente
Lei c’è, esiste veramente…
Semplice come fuoco di stelle nel cielo d’estate
La senti invadere selvaggia
Sopra di te
Un’altra volta calma ti accarezza le guance
E le ferrite della fiducia
Dopo il cessato divertimento dei cacciatori
E la preda è dimenticata, quasi ignorata.
Lei c’è.
Esiste veramente,
Cambia il silenzio
E frana il ponte sul quale l’arcobaleno passa
Il cuore della voce palpita in un’incerta speranza
E grida lo stesso silenzio in una lingua
Degna, profonda.
Sulla trasparente pianura dei sogni
Lei e l’ombra hanno sbagliato la stagione
E il corpo nato dallo spazio.
Lei c’è. Esiste veramente.
All’improvviso
Le cose intorno
stavano invecchiando
senza una spiegazione.
I vocabolari stavano avvizzendo.
All’improvviso la freccia dei tuoi occhi
che mi trapassa e poi mi fa risorgere.
Era una sera un poco strana, confusa,
Troppi versi detti in piazza
in un paese di cui ho perso il nome.
Metin Cengiz
nasce il 3 maggio 1953 a Göle/Kars (ora Ardahan), in Turchia. È poeta,
editore e scrittore e, tra l’altro, membro del Sindacato degli Scrittori
della Turchia. Dopo il golpe militare del 12 settembre 1980, è stato
imprigionato per due anni perché dissidente. Durante gli anni di
insegnamento della lingua francese nelle scuole di varie città turche, è
stato mandato due volte in esilio e sospeso dal lavoro per le sue idee
politiche. La sua poesia propone temi di grande attualità come le guerre in
Medio Oriente, le contraddizioni di etnie e religioni, l’esistenza
miserabile dei poveri nella società, l’ingiustizia e la compassione, la
libertà e la sua perdita. I suoi versi sono un atto di pace, ma con una
straordinaria potenza nella difesa della libertà, della giustizia e della
fraternità. Oltre che per i suoi libri è famoso per i suoi articoli sulla
poesia. È diventato uno dei pionieri del periodo poetico post 1980 in
Turchia.
Gaza
Ieri ho visto la morte, era senza ali
Era nell’aria, pioveva
Qui, tu sei a Gaza dove si è accampata la morte
L’aria sembra lacerata da un coltello
Il sole è un urlo cieco
I suoi occhiali tacciono
Gli alberi sono cadaveri
I minareti non si slanciano verso il cielo ma verso il nulla
I bambini, bambini, bambini di Gaza
Strade, mercati, case piene di bambini
Gaza con le sue sagome di bambini è un gigante che combatte il nemico.
Bambini che cantano nel grembo della morte
Bambini silenziosi come santi, religiosi come musulmani
Aspettano che si plachi la voce delle pallottole
Riempiranno i campi
e abbracceranno le loro morti senza ricordare la fame
Vecchie donne con tuniche
Case, strade, sorvegliano la vita spalla a spalla
La pazienza è dipinta sui loro volti
Senza speranza, arrabbiati, tristi, vendicativi
Come un urlo che si leva al cielo
Come promesse
Stanno come una parte di cielo
Qui, sei a Gaza
La morte a Gaza è come un gioco da bambini
È come mangiare pane e olive a colazione
È come l’amore dei giovani
La morte a Gaza è come una statua di bronzo
A cui guardano tutte le finestre
La morte lavora come la mente di Gaza
Qui, tu sei a Gaza
In fiamme
Dove la morte ha ingoiato la lingua
Gaza è come un palloncino esploso
Cosa possono fare i poeti Arabi
le canzoni puzzano di bruciato in Galilea
Gaza è un limone giallo in mezzo al deserto
Da un lato, è spremuto da mani invisibili
Con una pressa d’acciaio
Dall’altro, stanno i nemici
Come una nuvola di morte
Gli occhi di Gaza si sono asciugati per il pianto
Così ora da Gaza esce il cadavere di Dio.
Dmytro Tchystiak
ucraino, trentenne, è poeta, scrittore di racconti, critico letterario e
traduttore, accademico e giornalista. La sua poesia è caratterizzata da una
vena surrealista che coinvolge il lettore in una dimensione onirica, dove
l’inconscio affiora con immagini di forte impatto emotivo. È professore
alla National Taras Shevchenko Kyiv University, PhD, editore presso le case
editrici ucraine “Raduga” e “Summit-Knyga” e lettore di alcuni editori
francesi e belgi. Ha pubblicato quarantacinque libri, che gli hanno portato
alcuni premi nazionali e internazionali in Ucraina, Francia, Belgio,
Germania, Grecia e Romania. Ha tradotto molti scrittori slavi e francofoni
in ucraino e circa cinquanta scrittori in francese. È membro dell'Accademia
Europea delle Scienze, delle Arti e delle Lettere (Parigi) e membro
corrispondente dell'Accademia delle Scienze dell’Istruzione Superiore
dell'Ucraina.
Fiori
Ecco l'alba nel riflesso delle magnolie
tremante ti elevi nello spazio
ti alzi dal letto, dove siamo annegati
nel diluvio morboso (con questo dolore bianco,
e il grido rosso del viburno che trafigge i giovani,
i notturni), anzi non ti alzi,
fluttui come questo suono di clarinetto
così alto che la nota raggiunge la morte,
e al di là gli uccelli si svegliano e rispondono
e si direbbe che una mossa sia sufficiente
per esempio, aprire la finestra e tremare
oltre questo taglio di luce
per creare
l’alba!
Acacia
Camminavi sui fiori d’acacia
Senza sentire le voci della notte di primavera
Le mani incendiavano l’orizzonte
Passi tra i fiori d’acacia
e risuoni di notte e di maggio
il fuoco ha preso la tua voce per agitare una candela
Il vento è calato, canta solo
Un usignolo insoddisfatto
Le mani bianche tendono alla luna piena
E I fiori d’acacia fluttuano dolcemente tra le stelle.
Claudio Pozzani
nasce a Genova nel 1961, è poeta, narratore e musicista; è apprezzato in
Italia e all’estero per le sue performance poetiche nei più importanti
festival letterari e nei Saloni del Libro. La sua è una poesia performativa
e teatrale, dove emergono i temi dell’amore, della ricerca della propria
identità, in un continuo fluire tra dimensione del sogno e della realtà.
Nel 1983 fonda il Circolo dei Viaggiatori nel Tempo (CVT), un’associazione
culturale che si occupa di arte, poesia e letteratura. Tra le tante
iniziative promosse, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole
spalancate”. Nel 2001 crea la Casa Internazionale di Poesia sita a Palazzo
Ducale a Genova. Il suo CD di poesia e musica “La marcia dell'ombra” è
rimasto per oltre due mesi nella top 20 di preferenza delle radio
indipendenti italiane. Ha pubblicato inoltre il volume “Spalancati spazi –
Poesie 1995-2016” per Passigli Editore e le sue poesie sono tradotte e
pubblicate in oltre dieci paesi.
La marcia dell’ombra
Stanno cadendo corde dal cielo
e gelide catene ti danzano attorno
È un mondo di nodi
da sciogliere al buio
tra un lampo e l’altro
di fosforo e grida
È un groviglio di corde
che rifiutano forbici
E un pettine che s’incastra
dentro chiome che non pensano
È ombra... ombra
È un battito di ciglia ancora
Mi guardo attorno e vedo muri
persino il mio specchio è diventato un muro
sui tuoi seni è cresciuta una pelle di muro
il mio cuore, i miei sensi reincarnati in muri
E continuano a piovere preghiere e bestemmie
che evaporano appena toccan la sabbia
e continuano a strisciare in un silenzio velenoso
avverbi, aggettivi, parole senza suono
E ombra... ombra...
e un battito di ciglia ancora
Del sole vedo solo il suo riflesso
nelle pozze iridescenti di acqua piovana,
della luna indovino la presenza nel buio
dal lontano abbaiare dei cani legati
La mia pace non è la mancanza di guerra
La mia pace è l’assenza del concetto di guerra
Non ombra... ombra...
ma un battito di ciglia ancora
Sono
Sono l’apostolo lasciato fuori dall’Ultima Cena
Sono il garibaldino arrivato troppo tardi allo scoglio di Quarto
Sono il Messia di una religione in cui nessuno crede
Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto che non cede
Sono il protagonista che muore nella prima pagina
Sono il gatto guercio che nessuna vecchia vuol carezzare
Sono la bestia idrofoba che morde la mano tesa per pietà
Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto senza età
Sono l’onda anomala che porta via asciugamani e radioline
Sono il malinteso che fa litigare
Sono il diavolo che ha schivato il calamaio di Lutero
Sono la pellicola che si strappa sul più bello
Io sono l’escluso, l’outsider, un chiodo nel cervello
Sono la pallina del flipper che cade un punto prima del record
Sono l’autorete all’ultimo secondo
Sono il bimbo che ghigna contro le sberle della madre
Sono la paura dell’erba che sta per essere falciata
Io sono l’escluso, l’outsider, questa pagina strappata
Francoise Roy
nasce a Saint-Hyacinthe, Quebec, Canada, nel 1959. È poetessa, traduttrice,
scrittrice, geografa e fotografa. Bilingue. Cresciuta in francese ma
istruita letterariamente in spagnolo, Francoise Roy ha il tocco lieve e
preciso di chi sente la precarietà dell'esistenza e, scrivendo, osserva con
partecipazione gli impercettibili cambiamenti del quotidiano. Ha vinto
numerosi premi a livello internazionale. Ha tradotto più di sessanta libri,
pubblicato tre romanzi, due libri di racconti, tre plaquette e quattordici
libri di poesie. È stata invitata a molti Festival di poesia in tutto il
mondo.
Mamma, tanto dura, e la frutta
We have lived too close for love […]. [She] has grown to be my shadow.
Do our shadows love us, for all that they are never parted from us?
J.M. Coetzee (Foe)
1. Spaghetti le mie ossa, sotto le pietre levigate,
il canto rotolato dei tuoi quattromila occhi.
2. Il mio cuore di origami, piegato nell'istmo delle tue
fauci: marmorea carta, e sempre, da sempre tuo.
3. Cammello nel deserto, annuso la vicinanza di un
ristagno di acqua: mai un luogo del tuo affetto.
4. Il tuo coltello brilla nella notte dell'occhio: filo di luna
nuova, perfetta iperbole delle tue pupille.
5. Rimenbranza di me, perla viva nel suo astuccio di
calcio: quell’organo tuo, cristallizzato corpo dentro.
6. Palpavi il mio cuore, avocado nel tuo campionario.
Meraviglia di frutte fantastiche: una mela magica,
rossa e senza picciolo, dove occultare le mie arterie.
7. La tua bara, madre, con una pietra dentro, sola, dura,
quando la tua carne intorno si sarà dissolta.
Le labbra
Due lune di carne rosa tra ultimo quarto e luna
nuova, unite da quella strana parola, "commessura", piccola
cucitura di un solo punto per imbastirle al viso.
Tremanti orchidee del corpo, pelle scamosciata del petalo, orlo
delle parole, sì, ma estranee al loro picchiettio sonoro, al loro
torchio, al loro velluto, al loro acido muriatico, ai loro coloriti
sciami di note.
Il loro unico compito è il bacio. Quello di Giuda, quello dell'addio,
quello
del cuore che sotterrato nella sua gabbia di costole – fidanzato
di Afrodite –, sogna di sentire i loro bianchi sacramenti.
Forse Dio aprì di taglio all'uomo muto quella ferita
nel viso, dicendogli: “Parla!”.
Addendum: Sebbene possano essere descritte come la porta d’accesso
dell’apparato digestivo, l’apertura della bocca, o si possa dire di esse
che sono una membrana retrattile di pelle e muscoli, le labbra hanno prima
di tutto una funzione seduttiva. L’azione più connotata delle labbra, dare
un bacio, è un simbolo del dono di sé sul piano spirituale,
riconciliazione, tenerezza, amore o venerazione (da qui l’abitudine di
baciare i piedi, le reliquie e i vesiti dei santi). Le labbra simbolizzano
anche il parlare e il silenzio, sebbene la fonazione non si generi lì, ma
molto più in basso, e dentro il corpo.
Massimo Daviddi
nasce a Firenze nel 1954, trascorre parte della sua vita tra Milano e
Luino: da diversi anni risiede a Mendrisio, Cantone Ticino. Per Massimo
Daviddi la poesia è «quanto di più inutile esista, ma un’inutilità preziosa
perché costringe l’uomo ad aderire al mondo». La città, con i suoi
itinerari e le sue scoperte, diventa motivo di confronto tra le cose
abituali e l’uomo. La prima raccolta che pubblica nel 2000 è: “Zoo
Persone”. Grazie a “L’oblio sotto la pianta” del 2005, è stato finalista al
premio Viareggio Rèpaci. Testi inediti sono pubblicati nell’“Almanacco
dello Specchio” del 2007. Con “Il silenzio degli operai”, edizioni La Vita
Felice, gli è stato assegnato il premio Federale di letteratura. Ha
partecipato al Festival Internazionale della Poesia di San Benedetto del
Tronto e a quello di Genova. Ha tenuto letture a Milano, Roma, Heidelberg,
Ginevra. Il suo ultimo lavoro pubblicato nel 2017 è “Madre Assenza”.
Oltre la ramina
I
Bisognerebbe ascoltarli mentre vanno indietro uno dopo
l’altro a due passi dal confine, le ruote vicino alle pompe
di benzina, ai rilievi della montagna, migliaia di auto con
il profilo rovesciato dove il pensiero per sua natura torna
alle origini, si fa passato; seguirli è utile, là le prime case,
immagini devote, pietre e gradini su un piccolo giardino,
avventori al bar. Sapresti anche tu di più di te, conosceresti
il senso dello stare in fila, a macchia di leopardo senza nome.
II
Non abbiamo speranza, non conosciamo quale odore
spinga i cinghiali oltre la ramina, dove vanno esuli a mangiare
le bacche e come dicono molti a distruggere, non sappiamo
perché il carosello di branchi uniti dal desiderio venga vicino
alle nostre case, esca e scavalchi venendoci incontro, saltellando;
quale sia la pressione del sangue, le loro aurore, quale sia la violenza
vera, come dirla.
III
Le linee del campo di calcio sono state la nostra esistenza,
ho iniziato a Milano su un cortile fino a Pianazzo, segreto
tra le frontiere. Non si contavano le decine di maglie,
l’idea di tornare a casa che dava la vittoria e a Palone
grembiuli, fili di ferro, la terra e la notte.
Gian Mario Villalta
è professore di liceo, saggista e narratore. La poesia di Gian Mario
Villalta indaga il reale in modo guardingo, come se qualcosa stesse per
venire a mancare, o fosse appena venuto a mancare, ma forse nessuno se ne è
accorto. Il grande protagonista è soprattutto il tempo, un presente sospeso
tra passato irrinunciabile – pur senza deliquio nostalgico – e futuro
enigmatico. Il suo ultimo romanzo si intitola “Scuola di Felicità”
(Mondadori, 2015). Da molti anni segue il panorama poetico italiano e
dedica particolare attenzione all'opera di Andrea Zanzotto, collaborando al
Meridiano Mondadori e curando l'Oscar degli scritti letterari. Inoltre
scrive poesia e vince il Premio Viareggio 2011 con “Vanità della mente” (Mondadori). Il libro di poesia più recente è “Telepatia”
(Lietocollle, 2016). È direttore artistico di “Pordenone legge: festa del
libro con gli autori”.
Quando ero ragazzo, alla fattoria, dopo il ponte,
gli animali nella stalla, dentro il pollaio e il cane
alla catena tutta la notte intrecciavano i fremiti
sottopelle, i fiati, i sussurri al mio respiro,
fino a quando mi univo sommerso nell’onda
del loro sonno o quando un grido
avvertiva che altri animali, selvatici,
la donnola o il gufo, erano entrati nei nostri sogni.
Poi l'abbaiare, i tonfi, le imposte aperte
sul freddo. Il padre: “Inutile, a quest’ora,
tornare a dormire”. Il sonno invece avvolgeva
presto di nuovo me, i miei fratelli, gli animali,
e la casa e il fienile e il pollaio si incurvavano lievi,
lievitando verso l’alone della luna.
Ancora un minuto, un minuto.
Mi riconosce una fuga di echi.
La proroga tra l'essere
chiunque e il diventare me stesso
dura l'incalcolabile.
***
Ho una sveglia che ha il suono ostile
dei vecchi telefoni grigi, quelli
di quando abitavo nel mio paese,
con le cifre nella rotella dentro i buchi.
Una roulette dove punto ogni giorno
lo stesso numero e il sei esce storto.
L’ho presa dai cinesi: spero confonda
L’oroscopo – vergine e topo, bilancia e drago –
e ogni volta che squilla sogno qualcuno
che solleva al posto mio l’apparecchio
e sa cosa rispondere.
Müesser Yeniay
nasce a Izmir nel 1984. In Turchia vince molti premi letterari. I suoi
versi, studiati e calibrati, sono permeati di femminilità e ribellione e
tesi alla volontà di riaffermare la sua natura biologica e umana di donna,
la riscoperta del significato autentico e della reale diversità tra uomo e
donna. I suoi libri di poesia sono stati tradotti e pubblicati negli Stati
Uniti, in Ungheria, Francia, India, Colombia, Spagna e Vietnam. Ha vissuto
in America e a Hong Kong. Müesser è inoltre editrice della rivista Diirden.
Al momento si occupa del PhD in turco alla Bilkent University di Ankara.
Conversazione continua con l’amato
Mi sono aperta a te
come i denti di
una cerniera
uno per uno
mi sono spezzata
a metà
quando mi hai toccata
ho visto la gloria
della terra
[nelle tue mani
ci sono piccole
fate volanti]
hai visto quel
dolce vuoto in me
il mio corpo come neve che si scioglie
fuso con il tuo corpo.
Amore
Ho un altro corpo
fuori di me
lo chiamano
amore
(ma questo è dolore)
se ti ho tenuto nel mio corpo
solo dopo ho sentito
così tanto
la tua esistenza
Continua a leggere "Europa in versi: il festival e alcuni testi degli ospiti"
Sabato, 28 aprile 2018
Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie -
Edizioni Pietre Vive, 2016 - Illustrazioni di Giovanni Munari
Ogni tanto si parla di poesia civile, che non è una cosa che amo
particolarmente, perché secondo me è una non categoria, perché spesso
semmai è un concetto che tende ad giustificare un approccio retorico non
all'altezza della materia che tratta, perché come sviluppo delle tematiche
tende altrettanto spesso a prendere un andamento stilistico tra l'epico e
l'elegiaco un po' da ballata. Ciò non toglie tuttavia che ci possa essere
una tensione verso una scrittura politica, oppure "sociale", nella quale
l'autore si fa portavoce di problemi o tensioni di cui può anche non essere
protagonista diretto, ma magari spettatore sensibile, e comunque informato
dei fatti. Insomma, in parole povere, la poesia civile, come la scrittura
sociale a cui questo libro si riferisce, non è una cosa facile da fare,
soprattutto senza rinnovarla un po', come linguaggio e forse, perché no,
come prospettiva ideale e politica (nonchè umanista) dello stesso scrivere,
al di là dei temi specifici. (Rimando volentieri a questo proposito a un
autore che ha punti in comune e differenze con Silva, Fabio Orecchini - v.
QUI
)
L'adatto vocabolario di ogni specie
, tra l'altro opera prima di Alessandro Silva, parmense,
classe 1976, prende in esame un tema del tutto particolare, tentando di
farne un poema: si tratta dell'Ilva di Taranto e di ciò che vi ruota
intorno, drammi, dolori, lavoro duro, malattia, morte. Un tema, per dirla
tutta, quanto mai ambizioso, e certo coraggioso, tanto più se lo si vuole
rendere in poesia. Silva chiarisce subito i termini per così dire
cronachistici della vicenda, e lo fa per sommi capi nelle prime pagine in
prosa, una forma di giornalismo poetico dei fatti dal 1980 al 2014 circa,
che illumina lo sfondo su cui si muovono gli attori della successiva parte
in versi del libro, che è la sostanza del lavoro. Di corredo le belle
tavole di Giovanni Munari, che fungono un po' da storyboard, tendendo,
nell'intenzione degli autori, verso la graphic novel (mentre la Light Poetry, citata nel risvolto, mi pare che sia un'altra cosa).
A parte queste considerazioni marginali, il valore del libro (ma di opere
in genere mosse da una spinta di tipo etico) sta nella capacità, ove si
verifica, di universalizzare la narrazione e il dramma che descrive,
renderlo dolorosamente umano senza tuttavia - diciamo - omologarlo,
mantenendolo cioè unico ed eminente, quindi esemplare, nel vero
senso della parola. La sorte di Marcello (un operaio morto sul lavoro) è
sua ma è di tutti e viceversa, ed è appunto qualcosa di destinale a cui chi
legge per una serie fortunata di circostanze (il qui, l'ora ecc.) è
sfuggito, senza però poter sfuggire ad una coscienza a cui è richiamato, ad
una intima consapevolezza.
Silva ci riesce in varie occasioni, usando bene registri diversi che si
danno la voce all'interno di una struttura in versi sciolti privi di metro
e spezzati a volte bruscamente, e quindi sostanzialmente narrativa ma
divisa in episodi brevi (i testi in genere non vanno oltre la pagina), con
tratti discorsivi che qualcuno ha accostato a Pavese, ma senza il suo
ipermetro di derivazione anglosassone. Registri e tonalità che spesso e
saggiamente fanno ricorso al pedale emozionale e affettivo, sostenuto da un
tono complessivo tra il lirico e l'elegiaco, ma sempre evitando qualsiasi
accento retorico. Non so se la materia che Silva si è scelto derivi o meno
da una esperienza diretta, ma certo tutto il lavoro trasmette un impegno
(anche di studio, immagino) e una notevole sensibilità. E c'è anche, in più
di un testo, un interessante io/personaggio, c'è un io che però è del tutto
narrativo, o immaginativo se preferite (questo sì pavesiano), cioè "altro"
da quello dell'autore, e perciò finalizzato ad allargare il cerchio di
vicinanza empatica verso le vicende descritte. Che naturalmente non sono
solo quelle dell'individuo di fronte al lavoro, alla sua durezza e al
tragico che nel lavoro pesante è connaturato, ma anche al peso che il
lavoro stesso ha, la presa che ha e che non molla, sulla vita al fi fuori
della fabbrica, sugli affetti, su chi sta accanto. Sono forse le cose che
più hanno luce in questo libro, che più esprimono una vena intimamente
lirica che dà forza epica alla storia, che forse soffrono meno, se mai ce
n'è, di qualche vaga traccia di didascalismo, o di qualche "distanza" là
dove il linguaggio aderisce, volutamente credo, più al "vero" anche
cronachistico che ad una trasfigurazione metaforica di esso, o simbolica di
una situazione sociale più vasta, di un cancro più esteso; o che meno vanno
alla consapevole ricerca del "poetico".
Direi, per chiudere questi appunti, che il libro/progetto, l'idea
ambiziosa di cui parlavo all'inizio, di costruire qualcosa
di organico e strutturato attorno ad un tema forte, mi pare che sia
approdato ad un esito maturo e interessante, una sorta di "poema della catastrofe", certamente con i suoi pregi e i suoi (pochi) difetti ma una poesia di cui si deve tener conto. Un esito che lascia aperte diverse
aspettative riguardo a Silva e alle sue eventuali opere "seconde", spero
altrettanto feconde e coraggiose. Staremo a vedere. (g.cerrai)
Continua a leggere "Alessandro Silva - L'adatto vocabolario di ogni specie"
Martedì, 17 aprile 2018
Gabriele Galloni corre da solo
Metto le mani avanti. Non sono giovane e non sono poeta, benché qualche mio
verso sia stato tempo addietro (tanto!) fortuitamente accolto in riviste
come Nuovi Argomenti o Paragone – e chi si ricorda la
gloriosa Il cavallo di Troia?
Non sono dunque poeta, ma appassionato lettore indubbiamente sì. E ancora
oggi, tra acciacchi di ogni tipo, mi avventuro quotidianamente nella
giungla delle nuove pubblicazioni poetiche. Prediligo i giovani, perché di
leggere i quarantenni o i miei coetanei poco mi frega.
Leggo i giovani perché cerco, leggendoli, di provare ancora un poco
l'invidia che a vent'anni mi spingeva a voler superare tutto e tutti.
Io non ci sono riuscito mai. Gabriele Galloni sì.
In che luce cadranno
(RPlibri, 2018) è stato, dapprincipio, il consiglio svagato di una
cara amica poeta. Poi, a lettura ultimata, il libro che ha ridefinito per
me il concetto di Sacro. E non esagero: per giorni ho meditato
sulla musica di Galloni come qualcun altro avrebbe potuto meditare sul
Libro dei Salmi o sul Talmud. Meditazioni circolari, da sbronza apollinea
più che dionisiaca.
Possibile, mi sono detto, che un ventiduenne, un millennial come
si dice oggi, sia stato in grado di sondare queste profondità? E chi gli ha
permesso di portare con sé questi detriti di lune sconosciute? A quali e
quante divinità ctonie ha chiesto udienza?
Invidio profondamente Galloni, non lo nascondo. Molto ho rimesso in
discussione con il suo libriccino. Ho pensato che una qualunque Verità
ultraterrena, su noi e sui nostri predecessori, l'avesse colta ed espressa
meglio lui in quaranta brevi poesie che migliaia di filosofi pensatori e
teologi in tomi e tomi d'angoscia. Ma un poeta non è portatore di Verità –
e sono certo che a Galloni dispiacerebbe questo mio volo pindarico; forse
ne riderebbe.
La cosmogonia galloniana non ha universi altri di riferimento.
Immagino quante salme, sue e solamente sue, lo abitino giorno e notte. I
suoi amati corpi che, ritornati alle cellule, rinascono nella luce
abbagliante di un verso perfetto, di un fulmen in clausola che tutto
ribalta come nel gioco dei dadi, nello scherzo tragico di un baro
caravaggesco.
In che luce cadranno
parte dall'epigramma (sfiorando sovente la narrazione), attraversa
l'idillio e approda a un obliquo teatro della coscienza. Su tutto il libro,
inestinguibile, quella che Baeumker teorizzò come Metafisica della Luce. Non mi sovvengono paragoni contemporanei
con il lavoro di Galloni. Forse i suoi parenti più prossimi sono i lirici
greci da bambini; forse certi mistici medievali le cui opere non sono mai
giunte a noi.
Un libro importante, In che luce cadranno. Tra i più rilevanti di
questi ultimi anni e della sua generazione. Poi staremo a vedere. Per ora, la poesia italiana ricomincia anche da qui. (Giovanni D.V.)
***
I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l'indicibile
della conversazione. Sanno amarci
con una mano – e l'altra all'Invisibile.
***
Si parlava dei morti. Sulla tavola
i resti sparsi della cena – quelle
bistecche appena cotte. Il frigorifero
in segreto colloquio con le stelle.
***
Così un giorno, per caso,
i morti costruirono
il primo cimitero sotto il mare.
Se ne dimenticarono
in un tuffo soltanto.
Gabriele Galloni
è nato a Roma nel 1995. Studia Lettere Moderne all'Università La Sapienza.
Ha pubblicato Slittamenti (Augh Edizioni, Viterbo 2017) con una
nota di Antonio Veneziani.
Lunedì, 9 aprile 2018
John Taylor - L'oscuro splendore - Mimesis Edizioni, collana
Hebenon
Secondo libro di poesie, questo di John Taylor, tradotto
in italiano dopo Gli Arazzi dell'Apocalisse, a parte il libro di
prose brevi Se cade la notte (Joker Edizioni), tutti nella
versione di Marco Morello. Bisogna ricordare brevemente, per chi non lo
conoscesse, che John pur essendo nato negli States è uno scrittore molto
europeo, non solo perché vive in Francia dal 1977 ma soprattutto perché ha
con la cultura europea un rapporto strettissimo e profondo, che non è
azzardato definire di vero amore. Traduttore di autori francesi o
francofoni come Jaccottet, Dupin, Perros, Jourdan, Calaferte e altri,
Taylor ha anche un forte interesse per la poesia italiana, che negli ultimi
anni si è concretizzato in due eccellenti volumi antologici in inglese
dedicati a Alfredo de Palchi ( Paradigm: New and selected poems, 2013 - v. anche
QUI
) e Lorenzo Calogero ( An Orchid shining in the Hand: Selected poems 1932-1960, 2015),
entrambi Chelsea Editions. Da ricordare anche nella bibliografia di Taylor,
sempre in riferimento al suo legame con la cultura europea, i suoi
importanti lavori Paths to Contemporary French Literature, in tre
volumi, e Into the Heart of European Poetry, tutti pubblicati da
Transaction, oltre al più recente A Little Tour through European Poetry (2015).
Dunque come si vede John è davvero, sotto molti aspetti, uno scrittore
europeo. E non solo per i suoi studi, ovviamente, o perché vive in Europa
da lungo tempo, ma anche perchè quella cultura e quelle frequentazioni
letterarie le ha accolte, quegli stimoli li ha fatti permeare nella sua
scrittura creativa. Questa raccolta ne è una buona testimonianza, poiché mi
pare vi si possa rilevare per prima cosa, almeno ad una prima lettura, una
distanza dalla poesia contemporanea americana (per quanto essa sia una
categoria troppo generica) non minore di quella che c'è tra le due sponde
dell'Atlantico. Naturalmente questa affermazione va presa con una certa
cautela, poiché John, al di là delle suggestioni culturali, elabora in
questi versi una sua personale idea di poesia, una sua visione delle cose
che certo trasmettono nei versi anche le sue origini ("frammenti di patria
sbiadita") e i suoi studi, ma indubbiamente accoglie in pieno (poiché la
ama) la lezione soprattutto dei suoi prediletti autori francesi. Una
influenza che è sostanzialmente lirica e forse, sullo sfondo, simbolista,
orientata a gettare sul suo personale mondo uno sguardo attento ma
sufficientemente disilluso, che non guarda tanto gli "oggetti" quanto
l'atmosfera, anche interiore, nella quale essi e l'autore sono immersi e si
trovano ad esistere. Manca qui, tornando a quanto appena detto, quella
"concretezza" anche un po' pragmatica che si ritrova in tanta poesia
americana, quel confronto dell'uomo con la natura e l'ambiente, sia esso
quello dei vasti spazi o quello urbano delle strade di New York (e tuttavia
nelle "cose" - things - che qui troviamo c'è un pizzico di imagismo
statunitense). L'uomo europeo, e con lui Taylor, guarda soprattutto dentro
sé stesso, anche per tradizione filosofica e, per tradizione letteraria,
almeno fin da Baudelaire e dai suoi eredi. In Taylor ci sono certo queste
suggestioni e potremmo ritrovare anche molta della leggerezza malinconica e
venata di ombre di Paul Verlaine, trasfusa in un linguaggio trasparente e
aereo (talvolta un "verso scarno", come lo chiama Marco Morello) che ben
trasmette inquietudini e interrogativi sospesi, alla ricerca di qualcosa
che penetri l' "oscuro splendore". In questo ossimoro si cela il mistero
stesso dell'esistenza di ciascuno, sempre esposta ad un imperscrutabile
destino o al caso, al calare di una notte anche in pieno giorno, di una
"luce striata di nero", che tuttavia, portando appunto in sé un arcano, non
può che essere splendida per la mente del'uomo, e ineludibile per
l'artista. Una dimensione crepuscolare (ma non nel senso letterario del
termine, o non solo) in cui è presente la coscienza "che questo crepuscolo
sarà oscurità / alla fine // un'assenza di luce // non questa mezza luce
consolante / sopra la neve". C'è spesso nella poesia di John uno sguardo
che tenta di penetrare l'incerto, trapassare una foschia reale o
metaforica, andare oltre una marea che svela e nasconde fondali o scogli
anch'essi simbolici, giungere fino a decifrare "iscrizioni / sul fondo del
lago deserto" (Il fondo del lago è la sezione principale del
libro) che ha sommerso "qualcosa che era prezioso // i suoi bordi incerti
smussati / dall'acqua". Come in un cerchio creativo, quell' "incerto"
nebuloso (che è in ultima istanza ricerca di senso) che John cerca di
diradare con i suoi versi, è lui stesso che lo tratteggia per mezzo di una
scelta appropriata di termini "blurred", sfumati, deittici "vaghi"
(qualcosa, talvolta, forse, tutto questo, come se solo allora) o interi
versi ("eppure le onde // sono questo / e quello // e nessuno dei due // e
uniche // anche se / vengono / e vanno"; "o semplice ombra // o miraggio // cosa si trova oltre // ma è difficile da guardare") che concorrono a dipingere questo
"incerto" (vago, indefinito) e che, soprattutto a un lettore italiano,
richiamano inevitabilmente certi stilemi, questi sì, del decadentismo, che
tuttavia devono essere ricompresi in una matrice simbolista a cui tutta la
poesia francese e europea attinge. C'è da dire che nella traduzione
italiana questo senso di indeterminatezza viene in qualche minima misura
accentuato, sia per una naturale scelta di termini legati alla cultura di
chi traduce, sia - per fare un piccolissimo esempio - per l'eliminazione di
elementi determinativi come gli articoli o i pronomi soggetto, in inglese
sempre presenti. Ma, al di là di queste marginali considerazioni, la cosa
importante è che il verso tayloriano derivante da tutto ciò è assai
suggestivo, limpido, efficace nell'espressione e tutt'altro che incerto sui
suoi obbiettivi, anzi perfettamente consapevole riguardo a ciò che intende
dire a chi legge. Qualità che da un certo punto di vista risultano ancora
più evidenti nei testi in prosa poetica, come John aveva già dimostrato ne Gli Arazzi dell'Apocalisse dove erano una gran parte, o nei
frammenti (qui presenti nelle sezioni Il boschetto e Il recinto), brevi aforistici lampi illuminanti nei quali con
grande piacere ho ritrovato echi e suggestioni di Pierre-Albert Jourdan, un
grande autore a cui Taylor ha dedicato molto del suo lavoro ( The Straw Sandals: Selected Prose and Poetry - Chelsea Editions,
2011). Testi nei quali, potremmo dire per concludere, John trova una intensa rarefazione. (g. cerrai)
Continua a leggere "John Taylor - L'oscuro splendore"
Martedì, 27 marzo 2018
Il suono del mondo
Mia piccola ammaliatrice non respingere il mio amore Sappi comunque che non ti amo. E se ti hanno cantata I poeti di ogni tempo, se ti hanno celebrata Sulle loro cetre dalle corde di crine Sappi dunque che i poeti sono tutti segaioli Altrimenti non si lascerebbero Chiamare poeti. Posa La tua mano delicata d'acqua e di vento - Non ti dicevano così i buffoni? - Sulla mia fronte. La febbre La temperatura naturale di un corpo Che orina sull'alloro e dispregia il fruscio Dello spirito che esala. Posa Il tuo capezzolo sulle mie labbra E lascia che la mia lingua lecchi silenziosa Il vaso del tuo brivido. Piccola ammaliatrice Con le poesie non si raggiunge l'orgasmo Neppure i babbei che intorno a te rovesciano Gargarismi di parole. Ascolta Il muggito, il fragore, il pianto: Di simili suoni è fatto il mondo. Ascolta Il gracchiare - o il ruggito Del leone che è il mondo. Ascolta Il rombo dell'oceano; il rombo; Non il canto spensierato dei pescatori.
Genesi
Quanto più procedevo nella luce Impallidivano i colori Si addensavano, vorticavano come un disco Diventavano Quel colore che non era più Colore.
Nel cuore della notte un diramarsi di strade Un aprirsi a nuove combinazioni Dissi "buio" ed ecco generata La terra con le sue piante i suoi animali Invisibili enormi delicati Che mi somigliano.
Continua a leggere "Antonis Fostieris - Nostalgia del presente"
Lunedì, 19 marzo 2018
Villa Dominica Balbinot mi ha mandato questi testi qualche tempo fa,
chi edendomi che ne pensassi. Li ho letti con un certo interesse, perché
indubbiamente escono un po' dagli schemi, se si va oltre una impressione
non del tutto peregrina di forme crepuscolari innestate con dosi massicce
di simbolismo. Il primo appunto che ho preso, scritto a margine, è stato
per la verità "poesia barocchetta". Volendo forse significare con questo
non solo una scrittura con forti circonvoluzioni e priva di spazi aperti ma
anche dove il paesaggio, inteso in senso lato sia come naturale che umano,
si defila, a favore della costruzione, o si rappresenta come un fondale o una quinta, in una maniera che mi
ricorda l' Isola dei morti di Arnold Böcklin. In realtà qui, restando al barocco, c'è sì molta
complessità ma poco capriccio, perché il tema o quanto meno l'atmosfera prevalenti sono compatti e
concentrati, tendono a dare al lettore (e qui si torna al simbolismo) il suggerimento di una visione assai convinta e personale del mondo. Che è certo, coma
annota Anna Maria Curci (altre poesie appartenenti a questo blocco sono
state presentate su Poetarum Silva) un "mondo dissestato, funestato", per
quanto di "straniata bellezza", su cui Balbinot getta "una luce che non
teme di essere cruda". Sulla crudezza possiamo essere d'accordo, almeno se
si tiene conto del lessico e relativi annessi usati dall'autrice in
funzione espressionistica (e vale il breve accostamento che ancora Curci fa
a Gottfried Benn - si parva licet però): qui troviamo silenziato omicidio, acque fresche e pericolose, carnarie mosche, eterno gennaio, terreno
insanguinato, bagliori lucidi e freddi, qualcosa...di cruentemente esatto,
patiboli reconditi, leucemica fragilità, narrazione del sangue, consuntore
morbo, dissezione delle cose maestose, anni di espiazione e delle cerimonie
esequiali, esasperata desolazione, degenerativo stato, camera dei suicidi in un albergo, l'innominata carne ferita dei morti, e così via. Ma non è tanto una questione di sintagmi quanto di
costruzione anche sintatticamente complessa di un testo che definirei, per
usare parole della stessa autrice, "livido e sontuoso e torbido" (quindi se
barocco c'è, verrebbe da dire con una battuta, è barocco spagnolo). In
aggiunta a queste ultime parole citate, a volte si ha l'impressione che in
un certo qual modo Balbinot parli criticamente di sé quando scrive di
"estetismo nero e profetico" (o forse profetizzante, direi), o di "vasto mondo
crespuscolare". Ma anche in questi rari casi di espressioni didascaliche e
forse un po' ingenue l'obbiettivo è il tratteggio di una atmosfera
perturbante in cui il lettore deve accettare di permanere o no. Possiamo
aggiungere a queste cose un uso programmatico del lei (terza persona) come soggetto sostituto del tu (che come sappiamo è un ulteriore camuffamento dell'io poetico) e a volte
forme verbali al passato che accentuano abilmente uno straniamento di tipo
temporale e un senso di definitivo e tuttavia attuale. Immagino che questa lei sia l'autrice, immersa nel suo "mondo", che è di volta in volta "della
realtà", "crepuscolare" ma "aperto da ogni parte" (corsivo dell'autrice), "di silenzio", "bluastro", ma più che altro
"grigio" o di una "debole colorazione ossidata - di un metallico paesaggio" (c.vo aut.) e di svariate altre connotazioni. Ma soprattutto un mondo in
cui si avverte come una presenza di forze esterne non del tutto chiare né
del tutto controllabili, un mondo molto poco popolato, solo da lei, e da essi che se capisco bene non sono tanto "altri" quanto un "noi", cioè un plurale
di quello stesso lei, una condivisione dell'angoscia e forse il dolore che pervadono l'ambiente
e di cui l'ambiente è proiezione. E poi i morti, evocati non solo
direttamente ("nella loro innominata carne ferita") ma anche sotto forma di
aggettivi (morti occhi, vie, fiori, foglie, cime), o come correlati
semantici (mortalità, uccisioni, ad esempio). Insomma Balbinot ha
sviluppato un suo stile, con una certa accuratezza linguistica, con molti
echi, che aderisce bene alla tematica che si è scelta, e che in pari
misura, va da sé, può generare interesse o respingere. Per concludere: se
si aggiungono caratteri anche indubbiamente romantici come un certo senso
dell'assoluto o una certa irrazionalità o un'idea di sublime che sovrasta
l'uomo, allora cos'è che tiene insieme e fonde il barocco, il crepuscolare,
il simbolista, l'espressionista, il romantico? in altre parole cos'è la
poesia di Villa Dominica Balbinot? Ma è ovvio: è poesia gotica. (g. cerrai)
Continua a leggere "Villa Dominica Balbinot - inediti da I FIORI ERANO FERMI - E LONTANI"
Lunedì, 12 marzo 2018
Luigi Fontanella - Lo scialle rosso - Moretti e Vitali, 2017
Nove poemetti o racconti in versi, scritti tra il 1999 e il 2014, ci dice
in una nota lo stesso autore. Con una buona misura di anglosassone understatement, direi. E in effetti la prima cosa che salta agli
occhi alla lettura di questi ampi testi lirici è come una necessità non
solo di narrare una serie di eventi ma anche quella di fissarli, prima,
come sopra una lastra e piegarli poi, modificarli e in sostanza gettarli
sotto una nuova luce. Come si sa, infatti, ogni fenomeno varia e si
modifica sotto l'occhio, magari innamorato, del suo osservatore. E' quello
che fa sempre la poesia, la poesia buona, come atto di ricezione di ogni accidente, di ogni brandello di vita: diventare qualcosa d'altro,
se non addirittura qualcosa di altri. Niente, per un poeta,
trascorre inutilmente. Vige insomma, come scrive Paolo Lagazzi nella
prefazione al libro, una "intermittente, appassionata, tenace memoria".
Ricordare che sono tutte connotazioni che ci rimandano tra diversi altri a
Montale è pleonastico, tanto più per Fontanella, tra le altre cose
professore di Letteratura italiana alla New York State University (Lagazzi
cita anche Savinio e Landolfi). Insomma, è la sua materia ed ogni eco non è
altro che un indizio culturale scevro da qualsiasi epigonismo, uno
strumento che si adatta perfettamente allo scopo. Come anche naturale, mi
pare, è la vicinanza di Fontanella ad una consolidata tradizione letteraria
non solo novecentesca, lirica soprattutto, ma che tiene ben presenti tutti
gli sviluppi stilistici, appunto anche in senso narrativo e di aderenza al
quotidiano, che soprattutto nel Novecento sono avvenuti.
Se i richiami, più o meno soffusi, possono essere quelli che abbiamo detto,
[tuttavia] qui non c'è molto di "occasionale" e non solo per la dimensione
testuale delle poesie, che denota una articolata elaborazione del materiale
poetico di partenza, ma anche perché questa poesia nell'evento non si
conclude, non diventa epifenomeno di qualcosa che ha colpito l'autore,
dirottando magari verso un esercizio di stile, è decisamente antirapsodica,
come se esplicitasse la convinzione che l'occasione, se vi è, contiene una
"storia" (statica, diciamo) e un seme (dinamico), in altre parole rimanda
ad altre e ben diverse considerazioni, non necessariamente soltanto
"poetiche". Per quanto la memoria, in tutto il libro, sia elemento naturale
fondamentale, essa non è pura rimembranza, sia per l'apporto della rêverie, come annota Lagazzi, in costante dialogo con una realtà
oggettuale, sia perché Fontanella ha chiari i suoi obbiettivi poetici. Che
mi pare siano quelli di evidenziare una dimensione spirituale degli eventi,
per quanto eminentemente laica, e un loro ethos, cioè,
letteralmente, un luogo in cui vivere, in altre parole (e non è certo un
truismo) la vita medesima. Per cui il fatto, nella dimensione poetica,
diventa qualcosa di rizomatoso, per dirla con Deleuze, il fatto,
per sua definizione "passato" e tuttavia non muto, rivive di un'altra vita.
A me pare che si tratti di qualcosa di diverso dall'epifania,
dall'agnizione o da un momento meramente ispirativo. Non è qualcosa di cui
l'autore dice ah, bene, ecco un frammento di vita di cui può valere la pena
scrivere, o non soltanto. Mi pare che questa scrittura diffusa, così
fortemente fàtica, che descrive le cose nel loro aspetto sensibile e in
quello meno evidente, sia un tentativo di ridefinire certi confini, che
sono soprattutto tra la vita stessa (vissuta e - scrivendo - rivissuta) e
la morte come luogo in cui non è più possibile dire. Potremmo definire
tutto ciò semmai come una rivelazione, un disvelamento di implicazioni che
però non provengono da nessun iperuranio, o da un''ispirazione di tipo
romantico. Semplicemente già c'erano, sotto lo sguardo niente
affatto passivo del poeta, che è facile che magari impropriamente ci ricordi, nel suo peregrinare per le strade di Firenze o New York, una certa flânerie baudelairiana. Uno sguardo inoltre che in molti di questi
componimenti è condiviso, non solo con il lettore ma anche con chi, quasi
sempre, è testimone dell'evento insieme all'autore. E se non ci sono
testimoni, in queste narrazioni, ci sono personaggi letterari, gente
incontrata per strada, amici e colleghi citati, exerga e rimandi letterari,
che concorrono ad ampliare lo sguardo sulle cose. Sotto questo punto di
vista potremmo dire che in questi testi non c'è una visione strettamente
"privata", poiché mi pare che Fontanella non vi cerchi una catarsi
personale, o una purificazione dell'esperienza dal prosaico a beneficio di
un ipotetico lettore, ma che dia voce, per tutti, al possibile,
soprattutto al possibile significato delle cose. In altre e diverse parole,
non estetizza il suo materiale, e questa è una delle caratteristiche del
suo stile.
Il poemetto eponimo, Lo scialle rosso, è emblematico
dell'approccio di Fontanella alla sua materia. In una piovosa e ventosa
giornata di fine Aprile, lo scialle rosso della accompagnatrice del poeta
vola giù da un ponte di Ottawa. L'accadimento si esaurisce subito, lo
scialle rosso scompare dalla scena, per fare posto in sostanza ad un
sentire, a un sentimento del tempo che poi lo scialle, che
riappare negli ultimi versi, avvolgerà simbolicamente, proteggendolo e
chiudendo il cerchio. In mezzo Fontanella sviluppa una canzone sulla
fragilità, rispetto al caso, al mondo o all'essere altrove, la fragilità
individuale, e tuttavia la resistenza, della poesia soprattutto, come
emblema di un nucleo forte dell'uomo. Le intemperie, anche simbolicamente
intese, sul ponte di Ottawa "sbriciolano" il gruppetto di amici poeti (e
testimoni, si diceva), lì presenti, come Davide Rondoni, Plinio Perilli,
Irene Marchegiani, e scomparsi, come Giovanna Sicari, e lontane evocazione
italiane. Ma sappiamo che tutti, o almeno la poesia che rappresentano, si
ritroveranno. Lo scialle rosso quindi appare essere, come dicevo, non tanto
un elemento epifanico e nemmeno un correlativo, quanto un potente marcatore
mnemonico, in più carico dei segni del colore e del volo, da cui l'autore
procede a costruire il suo impasto di narrazione e sogno. Nel quale la
memoria non si esaurisce ma si rinnova come rappresentazione e
immaginazione (lo stesso Fontanella rammenta, in una nota, il "connubio,
che mi è caro, oscillante tra immaginazione e memoria, così come ne parla
André Breton nel saggio Situazione surrealista dell'oggetto"), pur
essendo questa poesia, va detto, ben lontana da territori surrealisti o
anche simbolisti. Naturalmente questo registro, che si ripresenta anche in
altri poemetti importanti come Dittico praghese e The old town, non è l'unico di cui dispone l'autore. In altri
testi, che per alcuni aspetti preferisco, come Lettere al padre e Canto del distacco, il tono è più eminentemente lirico/elegiaco, o
forse nervaliano come dice Fontanella, ma certo più venato di un intimo e
privato sentimento di rimpianto, una affettività che in un certo senso ci
avvicina maggiormente al poeta, testi in cui si allenta un poco la vena
descrittiva, meno assiepati di "oggetti" e di nomi, un linguaggio che non
ha necessità di articolarsi in narrazione o di dire "tutto" (come ad
esempio in Old Town e Efemeridos) perché lavora sul piano
di una percezione pura o se volete di un'empatia in cui
gioca più il cuore che l'intelletto. (g. cerrai)
Continua a leggere "Luigi Fontanella - Lo scialle rosso"
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