Martedì, 31 ottobre 2017
Un'occasione in questi giorni per prendere due piccioni, anzi tre, con una
fava. Ricorrono i morti (e lasciamo perdere le barzellette al riguardo), è
il centenario della disfatta di Caporetto e, tertium datur, le due cose si
combinano in un poeta che ha avuto alterne fortune, come gran parte della
poesia dialettale italiana. Parlo di Delio Tessa e della
sua
Caporetto 1917, «L’è el dì di Mort, alegher!», Sonada quasi ona
fantasia,
contenuto in L'è el dì di mort, alegher ; De la del mur e altre liriche, a cura
di Dante Isella, Einaudi 1985, che peraltro è possibile reperire in rete,
anche se privo di apparato critico. Tessa, come afferma P.V. Mengaldo
includendolo nel suo Poeti italiani del Novecento, è "uno dei più
grandi del nostro Novecento senza distinzione di linguaggio", aggiungendo
che "il disinteresse per questo poeta è una vergogna per la critica
italiana" (ma si era nel 1978 e a quel tempo Isella, uno dei massimi
studiosi della letteratura lombarda, stava ancora lavorando sull'opera di
Tessa). Sta di fatto che questi giudizi possono essere ancora in parte
sottoscritti, poiché è certo vero che Tessa è un eccellente poeta, basta
leggerlo anche solo nelle "traduzioni" in lingua italiana per rendersene
conto, ma è anche vero che Tessa, come la poesia dialettale in genere (ma è
categoria però piuttosto generica, basti pensare alla reinvenzione
dialettale di Scataglini e la rilevanza particolare che assume un poeta che
amo, Emilio Rentocchini), rinnova qualche interesse nella critica. Cito a
mero titolo di esempio l'edizione della stessa opera a cura di Mauro
Bignamini, per i tipi delle Edizioni dell'Orso, 2014, che prende in esame
le concordanze dell'opera di Tessa a partire proprio dall'edizione
iselliana; e in ambito più generale, sempre a titolo di esempio, citerei i
volumi
L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre
lingue minoritarie tra Novecento e Duemila
, a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Rossella Renzi, Giuseppe Nava
e Christian Sinicco per i tipi di Qwynplaine, 2014; e inoltre (ma qui siamo
decisamente sulla produzione attuale) Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto
(LietoColle 2011). Il Sud, come sempre, è minoranza nella minoranza, con
buona pace degli "eredi" di Pierro e Buttitta, sebbene non manchino anche
oggi voci molto interessanti (ad esempio gli apprezzabili Giuseppe Samperi
- v.
QUI
, o Marco Scalabrino - v.
QUI
), tanto che per la poesia dialettale sembra quasi inevitabile parlare di
linea settentrionale. Da ricordare infine, facendo un passo indietro,
Franco Brevini, autore dell’antologia Poeti dialettali del Novecento (Einaudi, 1987), coeva dell'impegno
di Isella, e i tributi seppur non esaustivi che a Tessa hanno dedicato
Pasolini, Fortini, Loi, Giuseppe Anceschi, Cases e altri.
Il libro L'è el dì di mort, alegher è l'unico pubblicato in vita
da Tessa, nel 1932, ma la "sonada" risale al 1919, appena un anno dopo la
conclusione della Grande Guerra, e nello stesso anno della dannunziana
"vittoria mutilata" dal Trattato di Versailles che secondo Salvemini
rientrerà a pieno titolo nella mitologia patriottica fascista. E questo è
un fatto già abbastanza singolare, leggendo quanto e come il testo mette in
scena. Non c'è nessuna vittoria da celebrare, per Tessa, c'è semmai da
ricordare l'impatto fortissimo sul sentire popolare della tragedia di
Caporetto, di quella "inutile strage" della Lettera ai capi dei popoli belligeranti di Benedetto XV, un
centenario anche questo (1 agosto 1917), se proprio vogliamo ricordarcelo.
E proprio il punto di vista popolare che Tessa cerca di interpretare, un
punto di vista forse poco patriottico, di gente comune anche preoccupata
delle sue cose e della sua vita, quella stessa gente che ha fornito i
fantaccini mandati al macello, "quelli che marciscono là... che hanno
finito la guerra e, se Dio vuole, sotto terra, a macero...", e che teme
perfino che i tedeschi arrivino fino a Milano. Da lì viene questa lunga
corale intrecciata di voci, la sua ispirazione e la sua giustificazione
anche morale: "Riconosco ed onoro un solo Maestro: il popolo che parla.
Squisitamente parla ancora un suo mutevole linguaggio sempre ricco, sempre
vario, sempre nuovo come le nuvole del cielo", scriverà Tessa nella
"Dichiarazione" che precede la prima edizione del libro. Da lì, quindi, dal
popolo, per Tessa giunge anche una patente di verità, di realtà, in qualche
modo un mandato, e insieme una forma e una sostanza, un metro e una lingua
adatta allo scopo, ordinaria, disarticolata come un cicaleccio, dialogica,
idiolettale, scenica e fortemente icastica, anche in forza del ritmo
sostenuto e insieme sincopato che la innerva, come una piazza affollata e
inquieta in cui tutti parlano tutti insieme. E' un popolo tutto sommato
senza speranza, che di lì a qualche anno sarà inquadrato nelle adunate
oceaniche del fascismo, del quale Tessa, fondamentalmente anarchico, sarà
un oppositore fino alla morte, avvenuta nel 1939, prima di vedere
l'ulteriore immensa "macelleria" della Seconda Guerra. Considerato da
alcuni un bozzettista, da altri un crepuscolare, tuttavia, come aveva
notato Fortini, il recupero di certi motivi e stilemi e il ricorso ad una
lingua popolare - peraltro, più che sorgiva, secondo me abilmente
manipolata - va considerato, specie nelle opere seguenti, pubblicate tutte
postume, anche come una posizione antiretorica, "quanto più la
contemporaneità gli si presentava con i tratti odiosi del fascismo"
(Mengaldo), venata, sembra chiaro, del "radicale pessimismo antropologico"
che gli attribuisce Fortini. Ma forse, leggendo Tessa, il carattere che più
sembra colpire è l'espressionismo che Pasolini aveva individuato, se non
erro in Poesia dialettale del Novecento, un espressionismo
europeo, per le tinte anche forti (bisognerebbe leggere ad esempio La mort della Gussona) che richiamano Dix, Grosz, Kokoschka; e per
lo stile fonico-ritmico, l'imitazione del parlato, la frattura linguistica
e lessicale fino talvolta a segnare un passaggio "dal semantico
all'asemantico" (Gibellini), la narrazione per frammenti trasposti e
rimontati, e così via (e non bisogna dimenticare che, a quanto sembra, era anche un abile performer delle sue poesie). Non è difficile immaginare, al di là del
confinamento, specie nei primi anni, in una cerchia ristretta e della
questione lingua/dialetto talvolta usata in funzione ghettizzante, quanto
fosse e apparisse moderno Delio Tessa. (g.c.)
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Mercoledì, 2 aprile 2014
Questo libretto mi piace, oltre che per la sua qualità, per ragioni del tutto sentimentali. E non c'è di che vergognarsene. Non c'è molto che accumuna la mia terra a quella di Giuseppe, salvo, almeno in questo caso, una cultura contadina che sarebbe di retroguardia disconoscere, non il contrario, quella che ancora mi fa distinguere un albero da un altro, un tarassaco - se la memoria non mi frega - da una borragine (entrambi buoni da mangiare), e una buona o cattiva stretta di mano. E conosco perfettamente (e ce le ho ancora) quelle forbici da potatura che figurano in copertina, e il suono secco e metallico con cui recidono i tralci di vite. Un libretto che probabilmente non troverete mai, ma non importa. Riflettevo incidentalmente stamattina, cercando inutilmente di trovare una edizione a stampa di un autore francese per così dire di nicchia, che la stampa - specie per opere di poesia di limitata tiratura - a volte è pari a una pietra tombale, un amen irrimediabile. Finisce così per essere proprio internet, pur con la sua volatilità, il luogo in cui sarà ancora possibile leggere certe buone cose. Questa è una delle occasioni possibili di cui approfittare. C'è in questi versi (come in quelli di Tessa, di Loi, di Pierro, di Buttitta e molti altri) un suono, innanzitutto, un suono originario direbbe Pasolini. Sembrerebbe che la poesia lirica (e in questo caso l'elegia) abitasse da sempre nel dialetto. E forse è così, poichè il dialetto oggi è ancora quello che più si avvicina all'origine "cantata" (e arpeggiata) della poesia. C'è poi un aggancio diretto ad una concretezza che si lega proprio a quella origine e forse, se Pasolini aveva ragione (“Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”), sono la realtà oggettuale e il canto dell'esperienza diretta, non immaginata, i caratteri distintivi di questi versi. Al di là di quelli che possono essere i caratteri regressivi, conservativi, politici o "borghesi" che l'autore friulano individuava, aveva certo ragione sul fatto che il dialetto in poesia è scelta totale e totalizzante (rispetto al testo), non strumentale o evocativa come in Gadda o nella narrativa verista. C'è quindi un'immersione nella lingua, una lingua più che madre (anzi, "lingua del latte", secondo la bella espressione del poeta Vito Tartaro), quella dei lares, quella con cui, come in questi testi, si colloquia con il padre morto, perciò lingua esoterica in un certo senso, e insieme lingua familiare e della comunicazione orale. Suono e affezione, quindi, ma gestiti senza patetismi, del tutto assenti in questi testi che mantengono la loro freschezza lirica anche nella versione italiana dello stesso Samperi. Che partendo dalla scelta radicale del dialetto come lingua ponte tra presente e passato, tra vivi e morti, utilizza in forma moderna una melodia che suona malinconicamente antica, anche per chi come me non ha particolare dimestichezza con il dialetto, tenendo d'occhio le buone lezioni del Novecento italiano.
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