Lunedì, 8 gennaio 2018
Per espresso desiderio dell'autrice, che ringrazio, pubblico con grande piacere, in aggiunta al post del 6 gennaio dedicato a Elia Malagò, il testo completo della plaquette lalange da cui avevo estratto solo due poesie, con la prefazione di Antonio Prete, seguito dall'altra breve raccolta pubblicata sempre da Fuocofuochino nel 2015, dal titolo del disamore, con prefazione di Zena Roncada. Entrambe le plaquettes dovrebbero rientrare, insieme a diversi altri testi, nel prossimo libro a cui Elia sta lavorando con impegno da qualche tempo, un lavoro che personalmente attendo con grande interesse. Con l'occasione ringrazio anche l'editore Afro Somenzari per la sua amichevole disponibilità.
lalange
La poesia di Elia Malagò è resto di una lingua cancellata. Un resto che prende respiro e energia, e sale verso la libertà dell’immagine e verso la parola essenziale e necessaria. In questo movimento, aspro e dolce insieme, la lingua porta con sé un sentire che conosce la ferita, il limite, lo scacco del desiderio. Un sentire che sa sporgersi sul vuoto di senso, sul dolore del mondo, su quel “pianto disseminato” che è poi la storia degli uomini. Con questa nuova lingua – la riconoscibilità del poeta è proprio nell’edificazione di una nuova lingua, quella “langue nouvelle” di cui diceva Rimbaud – la poesia di Elia Malagò può farsi interrogazione del visibile, e allo stesso tempo dialogo con il visibile, con il suo mostrarsi e il suo nascondersi, con il suo distendersi nel paesaggio fluviale e il suo ritrarsi nell’aridità. Un universo stranito, opaco, doloroso prende campo: parvenze di quel che è assente, frammenti di una memoria d’infanzia che non lascia detriti ma corpi e gesti e luoghi vividi nella loro lontananza, sguardo sulle ferite e sulla cenere che il sapere della civiltà ricopre di indifferenza. Il desiderio non cessa di confrontarsi con i suoi orizzonti occlusi o offuscati. Ma in una natura che mostra la sua potenza e talvolta il suo patto con l’apocalissi, si aprono a tratti cieli liberi e fluttuano immagini di forte presenza, di cui “l’estate che correva per mare e scollinava” è quasi emblema. Che sia fosca o limpida la scena, i versi collocano ogni volta il lettore di colpo nel mezzo dell’accadere. Ma tutto accade nella lingua, nel suo prendere luce e vento, suono e respiro, senso e dolore, libertà e vigore. Questo accadere nella lingua è la poesia.
Antonio Prete
lalange
1
ho dimenticato la lingua del pianto
e non so più i sapori che a cascata stanziano sotto il naso insalano le labbra guazzano il mento sbriciolano il silenzio e idioti mescolano muco e arcani vergognandosi
mi vergogno di queste parole liberate sconosciute forsanche blasfeme
2
dico te ma sento me
non ho lingua e preghiera tua che trapassi scorticata e venga fuori a brani gutturi inson miei
3
so che non c’è lingua
cantilena forse di passi d’altri contati in sonni non sognati in notti di prima che il tempo ha sottratto
so che di quella lingua cancellata
da qualche parte resta un chiodo una polvere bluastro il barlume
Nota. lalange è un refuso della memoria di lalangue con cui ciascuno si parla
soglie
ma quante ce ne sono prima che l’oltraggio basti
limiti che la verità buca con una sfrombolata e viaggiano e viaggiano viaggiano findove si spacca la terra si sfalda il muro di tufo precipitano gambe e braccia
i piedi ancora nella sabbia gli occhi già inghiottiti dal sale
quando tutta quest’acqua finirà di sole e vento, comincerà la conta
il margine
non lo aggiusti come ti pare la mattina che s’è placata la tramontana
non è la siepe che togli il dissuasore si apre nonostante le spine
il margine è maestro che si prende corrente garbino piene e rottami conta i passi e le infamità confida nei due gradoni del sottobanca raccoglie confidenze e segreti mulina l’aria di colma e si gonfia di collere indicibili
ma non lo aggiusti non si aggiusta
ti ci devi mettere davanti senza socchiudere gli occhi spegnere
libera
solleva questo piombo di cielo
contro la quarta parete che cade fitta di nubi a frastorno d’aria fogliame e rabbiume
- diciotto anni prima che ancora la luna s’avvicini tanto misure e percentuali calibrate il faccione di matto fisso lì che ci guarda
da qui a diciotto fanno un mazzo di steli l’erica svasata l’estate appena scorsa
l’estate che correva per mare e scollinava senza campo a cercare menta e rosmarino avvitata lì a una menzogna che rabbiosa e cattiva si urlava dentro la sete
la fame
che ha traversato il deserto e succhia le ossa che trova
ogni desiderio spento
te la figuri la notte che non s’accende quando lo scuro incappa il cielo in un sacco di plastica e lo tiene stretto tra stelle scariche e antichi lallalli spersi nel deserto?
che calenda di tempo e sperpero che splendore d’occhi
tutto questo pianto disseminato
del disamore
La poesia di Elia Malagò si nutre di silenzi e lunghi scavi: attraversa cavità carsiche, poi erompe e trova voce per un’interna necessità. Quando vince la resistenza del riserbo e dell’indicibile, diventa un urto di immagini e parole, potente nella sua verità.
Qui, nei cinque ‘respiri’ del componimento, la poesia restituisce l’ecografia del disamore, costruendo un ponte fra la superficie (l’evidenza di una vita e di un tempo ormai a pezzi) e il lavorio occulto di talpe, larve e formiche, che ne ha logorato le radici e ne ha costruito le ombre e la fragilità. Se il disamore, infatti, si rivela all’improvviso e incrina la quieta “lastra” del non vedere, del non ascoltare, del non dire, prima del suo affacciarsi/spalancarsi ha, però, già camminato dentro la vita, ha inquinato le ragioni dello stare insieme, ha seminato spine e intermittenze stonate. Per questo nel prefisso dis- Elia non riassume soltanto il difetto, l’anomalia, la negazione, la diserzione d’amore, ma condensa la suggestione di un processo di lenta, insinuante, impercettibile macerazione: un inagrirsi del sentire. Non dà, dunque, definizioni che fisserebbero quanto è mobile e progressivo, per ripercorrerne, invece, la vena sotterranea: sonda l’invisibile, la “ragione equivoca e livorosa”, scioglie (in verbi di cova e di sfaldamento) la sostanza imprendibile del sentimento, sospesa fra il vapore, il pulviscolo e le scaglie senza forma del pietrisco. Ci lascia con la sensazione di una muta, inarrestabile colonizzazione: il disamore, nel suo farsi, non conserva niente d’intatto, neppure la memoria dei giorni buoni. Annebbia e svela, consuma pure le orme e i ricordi: “le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta”.
Zena Roncada
del disamore
I
lo scopri per ultimo e per caso
il disamore
sotto una lastra sottile di foglie un poco macere d’acqua di riporto o una grandinata di mezza estate su uno sgrondo non curato
s’impasticca di larve e frutti che cadono acerbi - forse metteranno manti di tigre o magari faranno nido in un brusìo -
al riparo svolterà il solito autunno
Lì covano fiele e arsura il pianto raggelato e nel fondo deposita silenzioso il formicaio del rancore
II
il disamore è talpa insonne che inebria nelle caverne di tufo smotta e cumula insonora la cova dissigilla segreti e sfarina pulviscolo senza impronte Poi un giorno di luce né forte né piana un giorno di questi bassi su meridiano polso e mediastino un giorno ordinario che scorre sul binario e dietro risucchia l’orma di conserva
un giorno che fa somma e non si dispiace
quel giorno lì
spalanca le fauci rapido mostra
III
Cova come tutto il resto
cova figlia e s’invola foss’anche in cabina guardaroba a sventolo sulle stagioni e il disordine che tanto
cchessarrammai
doppiare consonanti abbassare le vocali
spingere l’acceleratore spegnere i fari andare a manetta
a manetta la manetta della scarpa che morbida calza - vedi se conta la marca - sfrega il tappeto e tornisce duro il valgo nell’impronta
IV
e il tempo frantuma in scaglie e pietrisco un deserto di rose spinate crescono senza mostrarsi ci sono e lo sai perché gli occhi anche spinano
la vita va in pezzi piano piano come una cataratta che si riprende le fughe del pavimento
lentamente le hai perse fino a non cercarle più
intermittenze senza sussulto
V
tra l’una e l’altra vago il fruscìo
quello che sfonda l’uscio forse più liberato le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta
nessun rendiconto ché nessuno l’ha tenuto
il disamore è ragione equivoca e livorosa trova un incaglio e depone come il vapore sui fossi all’alba d’agosto il deposito dell’ invisibile
come quando hai il nome nella mente ma la linea che scorre sotto le palpebre
circumnaviga il viso ombra le labbra
e lì sul luminare lascia leggera la striatura della lumachella notturna che insegue l’aura di una goccia di sete
Elia Malagò (Felonica Po, 1948) si è laureata in Letteratura Italiana con Ezio Raimondi. È scrittrice e promotrice di attività didattiche legate alla poesia e alla scrittura creativa. Ha lavorato per la Forum - Quinta generazione e curato testi e antologie poetiche. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia tra le quali Ci dev'essere un posto (Firenze, 1967), Saranno gli altri a testimoniare (Forlì, 1968), I discorsi di sempre (1970) con cui ha ottenuto il Premio Cervia, Buffa sonagliera (1978), Pita pitela (1982), Maree (1986), Incauta solitudine (Passigli, 2010), Golena (2014). In prosa, L’ombra ripresa (Sabatelli 1988, TreLune, 1999; dal 2007 ufficialmente libero da ogni contratto editoriale). Per FUOCOfuochino ha pubblicato del disamore (2015) e lalange (2017). Vive a Mantova.
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