Caro Claudio, qui dalle nostre parti (nostre mie e tue) la neve è scomparsa anche sui monti, trasformandosi in quella acqua che tutti ormai hanno visto anche sui telegiornali, parlo dell'esondazione del Serchio, che non solo ha danneggiato campi e colture e le case di un sacco di gente, ma ha messo a rischio non pochi posti di lavoro delle industrie della zona artigianale di Migliarino, alcune delle quali, come il Pastificio Conforti, forse danneggiate per sempre. Una brutta situazione, aggravata anche dalla percezione che qualcosa, per usare un eufemismo, sia stato sottovalutato e qualcos'altro sia stato fatto con i piedi (intanto è stata aperta un'indagine per disastro colposo). I politici rilasciano interviste e parlano di "evento imprevedibile", Bertolaso volteggia con l'elicottero, ci sarà lo stato di calamità, ma intanto la gente è disperata. E i poeti sotto la neve cosa fanno? Non lo so davvero, ma ti mando due poesie (v. qui) in qualche modo legate. Una parla del nostro monte (il Monte Pisano), l'altra da dedicare almeno a tutti i lavoratori che si sono ritrovati questo bel regalo di Natale. un abbraccio Giacomo
p.s. a tutti un augurio (che è una speranza), che il prossimo sia un anno migliore. Cosa che in gran parte dipende da noi...
Si trovano poche cose di Giampaolo De Pietro in rete, sul numero zero di Pigreco di Federico Federici (v.qui), e su Nazione Indiana, tre quattro testi che Francesco Forlani ha pubblicato catalogandoli sotto la impervia categoria di "poesie semplici"(v. qui e qui). In realtà la leggibilità di questi versi, la loro "semplicità" sintattica e la confidenza che danno al lettore fanno poi trasparire una metafisica delle cose, cioè svelano con una certa souplesse qualcosa che sta al di là delle cose stesse, "aria che ride di spalle", qualcosa che è "dietro le orecchie", anche con qualche ironia. Cose rispetto alle quali De Pietro si pone come osservatore un pò decentrato, un pò divertito, e abbastanza disilluso tanto da non sottrarsi all'essere osservato a sua volta, come fanno intendere le poche righe in premessa.
Da giorni fotografi il mare, il cambiamento, studi probabilmente le onde e poi le riporti in un grafico dentro al quaderno; tuo cambiamento. da giorni stai trattenendo il respiro, e il mare ti guarda, fotografo anche lui dei tuoi cambiamenti?
Non ho particolare predilezione con le feste natalizie. Per lo più mi immalinconiscono, le trovo un pò retoriche, molto consumistiche e anche un pò "hypocrisy inside". Non che ci sia niente di male in questo: la rappresentazione è una forma di sopravvivenza, e l'ipocrita nell'antica Grecia non era altro che l'attore e l' ypòkrisis la sua finzione scenica. Ma poi si sta bene in famiglia, si mangia e si beve e si va a Messa (chi ci va) e tutto scivola liscio verso l'anno nuovo vita nuova con quel che segue. Mi viene sempre in mente di questi tempi un esilarante e tragico film di Mario Monicelli del 1992, "Parenti serpenti". Qui sotto una delle scene topiche, con dinamiche familiari interessanti e una leggendaria battuta di Cinzia Leone. C'era anche un grande Paolo Panelli...
Bè, non ho parenti serpenti comunque, per fortuna. Per parte mia, spero sempre nell'anno che verrà, sopratutto per chi sta male e aspetta che qualcuno che comanda (qui o lassù) faccia qualcosa per lui. E in quanto a voi, amici, comunque la pensiate buon Natale e buon anno, con molta poesia dentro.
Uno dei rari casi di esordio
col botto, quello di Bruno Galluccio. Non solo la sua opera prima esce
con la "bianca" di Einaudi, ma con essa vince la 53.ma edizione
del prestigioso Premio Pisa 2009, notizia di poche settimane fa. Quando Bruno è
venuto a ritirarlo, per circostanze varie non l'ho potuto incontrare, ma è
stato così gentile da selezionare qualche testo non già presente in rete da
pubblicare sul blog. Lo ringrazio.
Da questi testi, come da altri presenti altrove, forse non è possibile ricavare
un'idea completa del libro. Tuttavia qualche impressione di carattere generale
ne consegue, per quanto parziale possa essere. Spero che Bruno non me ne vorrà.
Libro molto
"geometrico" e in un certo senso matematicamente pensato, questo
"Verticali" (Einaudi 2009) sembra risentire molto della cultura
scientifica del suo autore, cosa rilevata da più parti. E' curioso: è il
secondo fisico/poeta che mi capita di leggere, dopo Giovanni Catalano, anche
lui su questo blog (v. qui). Come se la scienza avesse esaurito il suo
tentativo positivista di leggere e interpretare il mondo (o almeno di provarci)
e esperisse un altro linguaggio, quello poetico, ritenuto forse più capace
almeno di connotarlo a pennellate più ampie e vaghe, meno molecolari (percorso
che del resto avviene anche con la filosofia). O forse, come sospetta
qualcuno, come se tutto il repertorio linguistico, terminologico o
anche solo concettuale della scienza, così a portata di mano, fornisse il
pretesto o la tentazione di provarci (questa volta sì, davvero) a rinnovare il
linguaggio poetico medesimo. Certo l'ideale sarebbe che, in questa
immissione, certa terminologia (ma metterei l'accento più sull'apparato
concettuale, l'habitus mentale) assumesse una valenza metaforica a scapito
della sua connaturata carica denotativa. Cosa che spesso riesce, in alcuni
testi, come (v. qui sotto) nella bella "mio padre al limite
dell'azzurro". Mentre in altri, per dirla in termini
"wikipediani", dovrebbe guadagnare in "ambiguità",
altrimenti si rischia un effetto di accumulazione straniante ed
an-estetico, come nella poesia "un punto si muove lungo una curva
sghemba" (v. più sotto, ma anche la poesia di copertina). Ma il problema
(sto parlando in via generale) non è tanto questo, quanto quello di far
corrispondere il linguaggio (inteso in senso lato)ad un'idea ad esso sottesa.
Nel caso di Catalano, ad esempio, l'aspirazione o meglio il tentativo era
di riproporre la realtà di tutti i giorni appoggiandosi ad una
"indeterminazione" di matrice heisemberghiana. In questo senso sono
d'accordo (e - ripeto - la cosa riguarda una pluralità di autori) con chi
sostiene che "l’originalità si ferma però al di qua della lirica, non la
trascende, non si traduce in sistema filosofico e, in sostanza, non va oltre la
lezione del Novecento" (M. Zola, in una recensione al libro). Per la
verità quest'ultima cosa, cioè non andare oltre la lezione novecentesca, non è
un problema, dato che superare poeticamente il "secolo lungo", come
lo ha definito Sanguineti, non è riuscito ancora a nessuno. Il punto,
semmai, è se quella eredità (lirica o meno) viene ulteriormente
"raffreddata" o depotenziata da uno sguardo che si rivolge alle cose
e agli eventi in maniera appunto "scientifica", fenomenica. Tuttavia
l'approccio di Galluccio (e anche di Catalano) offrirebbe non pochi agganci per
una riflessione più analitica, ma anche più poetica, più "pietosa"
sulla realtà, sopratutto se, proprio partendo dalla asciuttezza di
un'opera prima, si pigiasse di più sul pedale emotivo, emozionale, psicologico.
In questo senso, al di là dei risultati conseguiti, questo libro deve essere
considerato, anche dal suo autore, assolutamente un punto di partenza. (g.cerrai)
Imperfetta Ellisse non fa in genere rilanci editoriali, al massimo recensioni e/o note critiche a cura dell'unico redattore, cioè io. Faccio però volentieri un'eccezione per Luigi Di Ruscio che mi ha inviato la prima pagina e la copertina del suo ultimo romanzo "Cristi polverizzati", a cui, per la stima che ho per il suo autore come poeta e uomo,(per intenderci è uno che può dire di sé tutto tranne che "perdevo tempo con poesie che sembravano macchinette verbali produttrici di
niente"), faccio i migliori auguri di successo.
CRISTI POLVERIZZATI
l’individuo è la forma assoluta, vale a dire è la
certezza immediata di se stesso ed è quindi, se si preferisce questa
espressione, incondizionato essere. G. W. F. Hegel, Prefazione alla
Fenomenologia dello spirito
Parto difficilissimo, spesso si nasce venendo
stritolati, lo shock dell’aria freddissima rispetto al calore del ventre
materno, la luce vivissima, i rumori assordanti, la poesia retrocede verso la
prima angoscia, potevano immaginare che l’elettroshock rimettesse le cose al
loro posto perché era come se lo shock iniziale si ripetesse, l’angoscia di
rimanere rinchiusi in un ventre per sempre, l’essere che dilegua nel nulla è il
passare e morte, il nulla che dilegua nell’essere è il sorgere e la nascita, la
morte è un ritornare nella condizione prenatale, quando ero il niente che viveva
il niente e di questa condizione mai nessuno si è lagnato. Certi nascono da una
vagina apertissima ed escono come imperatori dalla porta sacra tutto oliato e
pronto per l’esposizione. Certi come ghigliottinati e fucilati morivano al
centro di un festoso cerimoniale. Ero immerso nelle acque fetali, sono immerso
in questa acqua sociale. Certi con rendite stupefacenti morivano torturati da
costosissimi interventi chirurgici, straziati da speculate operazioni
chirurgiche, certi muoiono agli angoli delle strade avvolti da una calma
stupefacente. Siamo nati e poteva anche non nascere niente, una volta mia moglie
mi disse che non dovevo disperarmi tanto, noi siamo nati e tanti neppure
riescono a nascere. Mi è stato raccontato che prima di nascere eravamo nel
pensiero d’Iddio, poteva non nascere niente, non facciamo confusioni tra il
niente e il vuoto, il niente non può essere neppure riempito. Il niente può solo
trapassare nell’essere più spettacoloso. Oppure come nelle bellissime
svalutazioni quando milioni si tramutano in milioni di niente. Mia moglie
rimaneva continuamente incisa, incinta, nonostante che non facevo che adoperare
gomme di tutti i tipi conosciuti e pensavo di chiamare la mia ultima raccolta
dentro il ventre del mostro, chiuso per sempre nella società dello sfruttamento
e dei mangiatori di uomini. Gli eletti, i migliori si divertivano in bellissimi
massacri, se non appartieni al popolo d’Iddio sarai prima o poi un assassino, se
appartieni ad un popolo separato sarai prima o poi assassinato, così vedevo le
cose ed invece era tutto più complicato e terrificante, non è detto che la
vittima sia una persona per bene, tante volte prima d’ammazzarli li abbrutiscono
e perdevo tempo con poesie che sembravano macchinette verbali produttrici di
niente. Tentare di cambiare il mondo con una forsennata scrittura, anche questa
cazzata ho immaginato, a Milano perfino l’aria è diventata pericolosa e pensano
alle poesie, per la mancanza di aria respirabile non ci saranno proteste,
potremo agitarci solo per i mali immaginari. Nonostante che mai ho avuto un’auto
e spengo a sproposito i radiatori e non consumo neppure l’energia della dinamo
della mia bicicletta. Siamo tutti peccatori e il miracolo della vita in questo
pianeta non è cosa eterna e un miracolo sarà necessario per la sopravvivenza
degli insetti più corazzati e il sottoscritto inabile in tutto può permettersi
il lusso di scrivere le poesie. Francesco invece era abile in tutto con mosse e mossette incantava le
ragazze e neppure quelle tra le più sceme, bravissimo a scrivere
articoli per la “voce adriatica” detta putreatica, come un fulmine
curava i guasti dei rubinetti e dei televisori, anche le strabiche
erano affascinate da un simile portento bruno ricciuto. Ma caro
Francesco, dicevo io, ma lascia perdere le poesie, scappa da questo
mondo cretinetti dove non hanno fatto che analizzare le situazioni
meteorologiche, dove non hanno fatto che piangere per l’immaginario e
il male vero è restato indicibile ed io che ormai vivo ad Oslo mi
preoccupo dell’aria di Milano e magari i milanesi scriveranno episcope
o epistole sui denti sacramentali oppure sui santi sacramenti e
Mariella mi scrive epistole segrete e Noventa scrisse che la poesia è
un modo d’essere e non un modo di fare. Basta con tutte queste cagnare
per il problema della grazia. Siamo tutti condannati e persi e le
poesie di Francesco erano oltremodo schifose, di tutto si accorgeva il
Francesco ma non dell’orrore che scriveva così facilmente. Io ero uno
di quei tipi che si sente ebreo tra i palestinesi e palestinese con gli
ebrei, un bianco tra i neri e un nerissimo tra tutti i bianchi di
colore. E giovanissimo come ero mi prendeva grandi smanie di partire.
Fermo mi diventava una trappola dentata, non facevo che sognare le
fughe ero inseguito da un orrore tanto terrorizzante che mai sono
riuscito a voltarmi per vedere che razza d’orrore m’inseguisse. Sognavo
l’invisibilità e mi ripetevo quelle storie di Hegel dell’essere che si
tramuta nel niente e del niente che diventa un essere in carne ed ossa.
Fughe a precipizio e senza soste, tante volte avevo paura di non
potermi più risvegliare da simili orrori come se per sempre il sonno mi
avesse intrappolato.
Luigi Di Ruscio, Cristi polverizzati, a cura di Andrea Cortellessa, Firenze, Editrice Le Lettere, Collana “Fuori Formato”, 2009.
La
riproposta da parte di Stefano Guglielmin di un suo vecchio post su "Blanc
de ta nuque" (v. qui)
mi costringe positivamente a riflettere su cosa significhi per me tenere un
blog, in particolare un blog di poesia. Per la verità non è una domanda che mi
abbia assillato, dal 2005 ad oggi. Posso dire però che, già in partenza,
l'idea non era certo quella di tenere un web-log, cioè un diario personale su
internet. Su Imperfetta Ellisse ci
sono pochi "pensierini" e anche la produzione poetica che mi riguarda
personalmente è, su oltre quattrocento post, poco più del sette per cento.
Quindi ciò che non siamo, come direbbe Montale, è un blog in senso
stretto. IE è "tecnicamente" un blog, cioè ha questa forma a cascata
che, come tutti i blog (o i content management systems di questo tipo),
"schiaccia" i post gli uni sugli altri come acciughe in un barile. Il
mio più grande cruccio, infatti, è che questo schiacciamento fa sparire dalla
vista gli articoli più vecchi che però, non essendo legati a nessuna vera
attualità (e forse per questo la forma "diario" non è quella giusta),
non sono diventati meno interessanti. In questo senso IE è poco blog ed è più
qualcosa che, se non fosse un oggetto esposto alla drammatica velocità di
Internet, andrebbe sfogliato. Cosa che si può fare perché mi sembra che sia
l'unico dotato di un archivio generale cronologico. C'era anche un'altra idea,
fin dall'inizio: cercare di fare un blog che sfuggisse al gioco dei rimandi tra
siti che era già allora un vizio endemico: come scrivevo nel post numero
uno, "la trama rimando ai rimandi / così da qui son partito /
da capo qui sono tornato...". Non so se ci sono riuscito del tutto.
A parte questa breve autobiologia,
come direbbe invece Giudici, ritorno all'idea che i blog andrebbero considerati
e analizzati (cosa in qualche modo contraddittoria con il mezzo) in maniera
geologica, ovvero per strati di sedimentazione, o in maniera documentale.
Lavoro che andrebbe fatto, probabilmente, cercando di superare questa
"liquidità" da cui tutti siamo affetti. Con un approccio di questo
tipo probabilmente sarebbe possibile stabilire una specie di "canone"
anche per i blog, o almeno un "gusto", tanto più evidente quanto più l'ipotetica
linea editoriale è nelle mani di una sola persona. Se si ripercorre Imperfetta Ellisse (e lo faccio a mero
titolo di esempio) probabilmente se ne riceve una netta impressione di un
interesse da parte di chi lo gestisce molto trasversale e "curioso",
ma non proprio eclettico anzi abbastanza inserito (seppure con non poche
perplessità e fughe) in quello che Marco Giovenale ama definire un pò
snobisticamente mainstream. Ma la
tradizione non mi interessa, mi interessano piuttosto le dinamiche
"agonistiche" (per dirla con Bloom) che portano alla
"dissipazione" del suo patrimonio. A parte ciò, ho però qualche
dubbio che da una ricognizione anche accurata del panorama blog si possa
ricavare un serio indicatore di tendenza o valoriale, che cioè si possa passare
dal canone blog al canone tout court.
Ho
un pò meno dubbi, purtroppo, sul fatto che ci sia da registrare un fallimento
se non definitivo almeno molto prossimo, fallimento questo sì legato a un
carattere italico a cui la cultura non sfugge. Se c'è qualcosa che ha insegnato
la rete in questi giorni è che si può fare una bella manifestazione contro
Berlusconi partendo dal basso, usando la rete stessa in maniera virale. E
quello che abbiamo imparato in questi anni è che non possiamo o non sappiamo farlo
per la poesia. La rete non ha creato movimenti, né avanguardie, né conflitti
creativi di particolare rilievo, neanche luoghi di incontro e discussione
(mi sembra che livello e volume degli stessi commenti siano in netta
diminuzione), in rete non c'è nessun caffè Giubbe Rosse. Anche i blog
collettivi hanno smesso da tempo di portare avanti una linea, sono
diventati contenitori generalisti, qualcuno sembra addirittura il
club del cucito in cui ci si scambiano complimenti sui lavoretti svolti. Quel
che è peggio, non mi sembra che la rete, a parte qualche talento individuale,
abbia sviluppato adeguatamente il necessario contraltare, ovvero un esercizio
critico che contrastasse non solo la crisi della critica ufficiale ma anche
l'esondazione di poesia di scarso valore che il mezzo blog (economico, facile -
e solipsistico -) favorisce. E qui si torna al carattere di cui parlavo
prima, di un paese in cui tendenzialmente potrebbero esserci tanti partiti
politici e tanti allenatori della nazionale quanti sono gli abitanti. Figurarsi
se a questo carattere può sfuggire la poesia nell'era della sua
(infinita) riproducibilità tecnica: nessuno di noi (ecco il nostro carattere)
sembra volere rinunciare al suo piccolo spazio in questa rete, nemmeno coloro
(me compreso) che potrebbero permettersi di partecipare a una esperienza
condivisa proprio perché fanno un uso molto poco personalistico del loro
blog. Paradossalmente questa democraticità del mezzo è anche una seria
limitazione alla stessa libertà delle idee, che potrebbero essere ottime,
ma perse in mille rivoli non raggiungono mai una adeguata massa critica e non
riescono ad imporsi, anzi in certa misura contribuiscono a quel rumore di
fondo, a quell'information overload di cui parlavo in altra sede.
Per toccare uno dei punti nodali a cui accenna Guglielmin, è questa una delle
ragioni per cui la blogosfera non riesce ad acquistare autorevolezza e quindi
forza per interagire con i canali canonici della poesia. Eppure i mezzi tecnici
per avviare una vera comunità "extraistituzionale" capace di
organizzare i fermenti che pure esistono ci sarebbero. Purtroppo (e qui mi
riapproprio brevemente di un'altra questione sollevata da Guglielmin) la
tecnica non basta, poiché il "proliferare incontrollato della poesia in
rete" se ignora anarchicamente la tradizione (ovvero se è ignorante di
essa) ignora anche cosa di essa tenere o cosa rivoluzionare, perdendo così
anche il connotato "politico" di questa anarchica ignoranza. In altre
parole la neoalfabetizzazione informatica va di pari passo con un analfabetismo
di ritorno, - specie nelle giovani generazioni - della cultura poetica (e
lasciamo perdere se anche questo è colpa della scuola o no). Da qui forse un
approccio "spontaneista" alla poesia, da qui anche (forse) il predominare
in rete di una poesia lirica, non lavorata, "liceale". E senza
nemmeno tanta autoironia.
Insomma
direi che, a parte – ripeto - qualche rara eccezione che assomiglia più a una
rivista che al mezzo di cui stiamo parlando (un esempio per tutti, l'Ulisse di Lietocolle), l'impressione che
si ha è di un discreto stato confusionale collettivo, specchio di quello che si
riscontra nella politica, nella cultura e nella società di questo paese. O
forse sono troppo pessimista.
(Giacomo Cerrai)
questo
post esce in contemporanea su Tellusfolio di Claudio Di Scalzo (v. qui), per la
serie “La poesia on line”. Si prega di postare eventuali commenti e interventi
in quella sede, in modo da favorire il dibattito, che in effetti, a parte il
citato articolo di Guglielmin, ha già avuto alcune “puntate”(le trovate linkate sempre su TFin calce a questo post).
molto
utile, anche per orientarsi meglio, la recente mappatura di blog e siti che ha
fatto Stefano Guglielmin su Blanc de ta nuque (v. qui)
Una poesia di Arthur Rimbaud che dedico a tutti i "seduti" d'Italia, a coloro che "han sempre fatto treccia coi seggi" siano essi burocrati o onorevoli, a quelli che "posseggono una mano che, invisibile, uccide", disponendo del potere di decidere della vita degli altri, della loro cultura, del loro lavoro. Composizione che si dice ispirata, come sostiene anche Verlaine, al vecchio bibliotecario di Charleville che detestava alzarsi per cercare al giovane Arthur i libri di cui era avido, propinandogli invece discorsi moralistici e reazionari, questo testo ha un valore simbolico universale che, al di là delle note caricaturali alla Honoré Daumier, è ancora intatto, con una forza sconosciuta alla poesia contemporanea.
I seduti
Neri di natte, agli occhi occhiaie verdi e il volto Butterato, le dita abbarbicate ai femori, L'occipite piagato da scorbutiche placche, Come di vecchi muri lebbrose fioriture;
Hanno bene innestato, con amori epilettici, L'irreale ossatura agli scheletri neri Delle sedie; coi piedi s'attorcigliano stretti Alle sbarre rachitiche, al mattino e alla sera.
Questi vegliardi han sempre fatto treccia coi seggi, Sentendo i soli ardenti lucidargli la pelle, O, gli occhi fissi ai vetri dove le nevi fondono, Tremando col dolente trepidare dei rospi.
E le sedie con loro son gentili: abbrunita, La paglia cede ai lati delle loro ampie reni; L'antico sole, spento, si riaccende, racchiuso Nelle trecce di spighe in cui fermentò il grano.
E i Seduti, coi denti alle ginocchia, verdi Pianisti tambureggiano con le dita la seggiola; Si ascoltan farfugliare barcarole assai tristi, E i capoccioni ondeggiano in un rullìo d'amore.
- Oh! non fateli alzare! Sarebbe un bel naufragio... S'ergono, mugolando come gatti battuti, Aprono lentamente le scapole e, oh rabbia!, Le brache si rigonfiano alle reni ampollose.
Li sentite cozzare le loro teste calve Ai muri scuri, i piedi ciabattano rabbiosi E i bottoni degli abiti son pupille arrossate Che vi attirano l'occhio in fondo ai corridoi!
Posseggono una mano che, invisibile, uccide. Al ritorno, lo sguardo filtra il veleno nero Che offusca l'occhio mesto della cagna battuta, E voi sudate, presi in un atroce imbuto.
Riseduti, coi pugni persi dentro i polsini, Pensano alle persone che li hanno disturbati, E, da mattina a sera, grappoli di bargigli Fremono da scoppiare sotto i menti meschini.
Quando l'austero sonno gli abbassa le visiere, Sognano sulle braccia di sedie fecondate, Di avere tutto intorno amorini di sedie Che circondino gaie le fiere scrivanie;
Fiori d'inchiostro sputando pollini come virgole Li cullano, seduti a ridosso dei calici Come lungo i giaggiuoli un volo di libellule. - E il loro membro s'irrita alle spighe barbute.
Libro da meditazione, questo di Emilio Paolo Taormina (edizioni del Foglio Clandestino, 2009), come molti vini di Sicilia. Costruito su testi brevi e apparentemente occasionali, con una "scrittura del frammento e della dislocazione" secondo Massimo Barbaro, ed echi ineludibili di Ungaretti, di Montale, di Pascoli e perfino del Gino Paoli di "Sassi", dà subito l'impressione di essere stato scritto da un uomo intento ad odorare, di qualcosa di antico, forse un otium, qui inteso nel senso più nobile del termine e tuttavia niente affatto spensierato o alieno da pene. Libro di odori e profumi, innanzitutto. Non si contano le volte in cui spuntano tra i versi il gelsomino e i limoni, in cui la brezza diventa qualcosa di tangibile e olezzante di salsedine. Il mare infatti è sempre vicino, visibile e udibile, presenza ctonia e testimone di una insularità dell'anima, componente essenziale, come la campagna e le colline, di una natura sempre presente e naturata ovvero familiare e perpetua, che fa da tessuto sinestetico alla scrittura del poeta. Anche quando parla d'amore o di morte l'io è immerso in questa natura, dove l'io stesso abita in maniera inscindibile. E questo essere nella natura non è puro paesaggio o sfondo, anzi implica, se si può dirlo in termini cinematografici, un movimento di macchina o dello sguardo dal circostante mondo all'interno dei sentimenti e viceversa, e con ciò quindi una corresponsabilità della visione della natura nella formazione del pensiero. Che prende forma spesso in testi essenziali, dalla versificazione corta e spezzata fino al limite del singolo lessema, che scende fino all'aforisma e ricorda (ovviamente) l'haiku, ma anche altri maestri della forma "corta" italiana, ermetici e non, nel pieno di una tradizione a cui Taormina non può non appartenere. Un esempio per tutti:
attraversando un campo di papaveri il disco trasparente della luna
Naturalmente il lavoro di Taormina si svolge anche su testi di più ampio respiro, che sinceramente sono quelli che preferisco anche perchè in essi l'idea poetica, pur fulminante già nei componimenti brevi, ha modo di svilupparsi nelle sue sfumature più liriche. Ma in tutti il procedere del linguaggio è lineare e sottrattivo, quasi scarno, fatto di tempi verbali semplici, di sostantivi concreti e terragni, e una aggettivazione non ricercata che rimanda piacevolmente a una koiné familiare, come una confortante aria di casa, anche in quei testi in cui la riflessione si sofferma sul dolore, sull'assenza, sul tempo che scorre inesorabile e a cui siamo legati, tutti, da uno "sposalizio". Perchè, è bene dirlo, in tutte le poesie, anche le più "leggere", anche nelle nature morte guttusiane fatte di poche parole vibranti è presente una costante meditazione e il giudizio non è mai sospeso, pure nei momenti in cui il poeta sembra immerso in una sorta di contemplazione . Questo flusso che attraversa un libro che con qualche ragione possiamo definire filosofico va di pari passo con un flusso armonico di testi - susseguentisi fittamente e la cui separazione è quasi una convenzione - che inviterebbe a leggerlo con una certa avidità. Al contrario, forse più di altri libri di poesia e proprio perchè meditata, questa raccolta va affrontata con qualche lentezza, anche per contrastare un certo effetto di saturazione e di vertigine che la ferrea compattezza stilistica suscita. Va sfogliata cioè come un libro dei pensieri, uno o due al giorno, da leggere sotto una pergola con un bicchiere di Malvasia di Lipari, alzando ogni tanto lo sguardo verso il mare. (g.c.)