Alcune poesie di Juan Larrea (1895-1980), tratte dal libro "Versione
celeste", pubblicato in Italia da Einaudi nel 1969, con la traduzione e
cura di Vittorio Bodini (1914-1970), forse il massimo interprete della
letteratura spagnola, soprattutto barocca e surrealista. Serve
sottolineare innanzitutto che questa edizione costituisce la prima
mondiale della pubblicazione dell'opera poetica di Larrea. Il poeta è
stato uno dei nomi più nascosti (tanto che per un po' è stato creduto un
eteronimo dell'amico poeta Gerardo Diego) della poesia del Novecento,
non solo iberica, che Bodini aveva già preso in esame nel suo importante
testo "I poeti surrealisti spagnoli", pubblicato nel 1957 sempre per
Einaudi, definendolo "il padre misconosciuto del surrealismo
spagnolo". In realtà Larrea è un surrealista sui generis, perché pur appartenendo alla cosiddetta generazione del '27.
di cui l'avanguardia è componente rilevante, se ne è tenuto appartato,
ed è semmai con la sua permanenza a Parigi (dove insieme all'amico César
Vallejo conosce e frequenta Eluard, Tzara, Aragon, Desnos ed altri)
che entra in contatto con il surrealismo militante. E tuttavia, come
scrive lui stesso, "del movimento ho utilizzato solo quelle tendenze che
mi erano affini, ma non mi compromisi mai con esso. Anelavo anch'io a
trasferirmi in un'altra realtà, ma in maniera differente". In realtà,
mentre altri lo annettono ai cosiddetti "creazionisti" o agli
"ultraisti", è proprio Bodini a volerlo includere nella categoria del
surrealismo, pur ammettendo implicitamente che quello di Larrea è un
linguaggio tipico e personale, tanto che "il suo generico debito verso
Tzara non è maggiore di quello di ogni altro surrealista francese e
europeo". L'acquisto principale di Larrea in Francia è invece la lingua
in cui sono scritte molte delle poesie originali del libro, il francese
"che è la lingua franca della rivolta, il segno linguistico della
categoria del surreale che si fa linguaggio internazionale della
comunità dei poeti, data la sottonazionalità dell'inconscio collettivo.
Ciò che egli cerca è l'estensione dell'io sino ad includere i più remoti
angoli dell'universo, l'annessione dell'altra faccia della vita, sogno e
inconscio, la dislocazione di sé, la moltiplicazione del reale in
ipotesi" (Bodini). Ed è lo stesso Larrea ad affermare: "Non invano avevo
iniziato a svincolarmi dalla Spagna degli anni '20, fino ad arrivare a
comporre i miei testi poetici in francese. Mi ero estraniato dalla
poetica peninsulare, come fecero ugualmente nel loro campo i pittori".
Come scrive ancora Bodini, "Larrea attinge dal subliminale materiali
psichici junghiani carichi di retroscena, di vicende stregate e amabili,
che ci seducono senza conoscerle, ma fra cui nondimeno s'affaccia con
una qualche costanza una serie di cieli capovolti, di un cosmo
ribaltato, ma senza degradazione, con pazienza, nel fondo
dell'individuo, intrecciato ai suoi fili, alle sue relazioni più
personali". Da questi materiali Larrea trae una scrittura che affascina e
stimola, nella quale "i sostantivi nascono simultaneamente coi loro
sorprendenti predicati, e questo è già il segno d'un poeta di razza. Ma i
predicati sono azioni o relazioni fra le cose: la fittissima rete che
vengono a istituire fra di esse fa sì che l'universo di Larrea, unitario
e sensibile, si risponda da una parte all'altra, pronto a registrare
fino alle più insospettate lontananze il più piccolo evento o la più
piccola coincidenza che si verifichi in qualsiasi punto di esso", dice
inoltre Bodini. Che aggiunge: "ribadiamo la convinzione che ciò che
conta nella sua fabbrica poetica non siano gli oggetti ma le relazioni
che si vengono a creare fra di essi e fra essi e il poeta, la
equidistanza che egli riesce a mantenere, il suo andare e venire fra il
cuore e il cosmo nella loro più rigorosa oggettivazione". Se il testo
può apparire difficile (ma mai artefatto o "falso") quindi è perché, mi
sento di aggiungere, il poeta osa operare "tale prodigiosa dislocazione"
di sé, delle relazioni, del linguaggio. Basterebbe questo per
restituirgli il posto che merita nella poesia del Novecento, non solo
spagnola. (g.c)
Uno dei rari casi di esordio
col botto, quello di Bruno Galluccio. Non solo la sua opera prima esce
con la "bianca" di Einaudi, ma con essa vince la 53.ma edizione
del prestigioso Premio Pisa 2009, notizia di poche settimane fa. Quando Bruno è
venuto a ritirarlo, per circostanze varie non l'ho potuto incontrare, ma è
stato così gentile da selezionare qualche testo non già presente in rete da
pubblicare sul blog. Lo ringrazio.
Da questi testi, come da altri presenti altrove, forse non è possibile ricavare
un'idea completa del libro. Tuttavia qualche impressione di carattere generale
ne consegue, per quanto parziale possa essere. Spero che Bruno non me ne vorrà.
Libro molto
"geometrico" e in un certo senso matematicamente pensato, questo
"Verticali" (Einaudi 2009) sembra risentire molto della cultura
scientifica del suo autore, cosa rilevata da più parti. E' curioso: è il
secondo fisico/poeta che mi capita di leggere, dopo Giovanni Catalano, anche
lui su questo blog (v. qui). Come se la scienza avesse esaurito il suo
tentativo positivista di leggere e interpretare il mondo (o almeno di provarci)
e esperisse un altro linguaggio, quello poetico, ritenuto forse più capace
almeno di connotarlo a pennellate più ampie e vaghe, meno molecolari (percorso
che del resto avviene anche con la filosofia). O forse, come sospetta
qualcuno, come se tutto il repertorio linguistico, terminologico o
anche solo concettuale della scienza, così a portata di mano, fornisse il
pretesto o la tentazione di provarci (questa volta sì, davvero) a rinnovare il
linguaggio poetico medesimo. Certo l'ideale sarebbe che, in questa
immissione, certa terminologia (ma metterei l'accento più sull'apparato
concettuale, l'habitus mentale) assumesse una valenza metaforica a scapito
della sua connaturata carica denotativa. Cosa che spesso riesce, in alcuni
testi, come (v. qui sotto) nella bella "mio padre al limite
dell'azzurro". Mentre in altri, per dirla in termini
"wikipediani", dovrebbe guadagnare in "ambiguità",
altrimenti si rischia un effetto di accumulazione straniante ed
an-estetico, come nella poesia "un punto si muove lungo una curva
sghemba" (v. più sotto, ma anche la poesia di copertina). Ma il problema
(sto parlando in via generale) non è tanto questo, quanto quello di far
corrispondere il linguaggio (inteso in senso lato)ad un'idea ad esso sottesa.
Nel caso di Catalano, ad esempio, l'aspirazione o meglio il tentativo era
di riproporre la realtà di tutti i giorni appoggiandosi ad una
"indeterminazione" di matrice heisemberghiana. In questo senso sono
d'accordo (e - ripeto - la cosa riguarda una pluralità di autori) con chi
sostiene che "l’originalità si ferma però al di qua della lirica, non la
trascende, non si traduce in sistema filosofico e, in sostanza, non va oltre la
lezione del Novecento" (M. Zola, in una recensione al libro). Per la
verità quest'ultima cosa, cioè non andare oltre la lezione novecentesca, non è
un problema, dato che superare poeticamente il "secolo lungo", come
lo ha definito Sanguineti, non è riuscito ancora a nessuno. Il punto,
semmai, è se quella eredità (lirica o meno) viene ulteriormente
"raffreddata" o depotenziata da uno sguardo che si rivolge alle cose
e agli eventi in maniera appunto "scientifica", fenomenica. Tuttavia
l'approccio di Galluccio (e anche di Catalano) offrirebbe non pochi agganci per
una riflessione più analitica, ma anche più poetica, più "pietosa"
sulla realtà, sopratutto se, proprio partendo dalla asciuttezza di
un'opera prima, si pigiasse di più sul pedale emotivo, emozionale, psicologico.
In questo senso, al di là dei risultati conseguiti, questo libro deve essere
considerato, anche dal suo autore, assolutamente un punto di partenza. (g.cerrai)