“Ho cominciato a scavare il suolo, meno curioso di guardare il cielo che la terra e la sua interna oscurità, ossessionato dall'idea di fare un buco nel
sottosuolo, un tunnel che avrebbe portato dall'altra parte del mondo, in Sud Africa forse”. Scolpire diventa, gettare questo ponte, arrivare da qualche
altra parte, compiere un cammino sotterraneo per ricongiungersi con l’altro emisfero, l’altro lato della terra, un’altra idea di scultura, quella
trasmetta dall’arte africana per esempio. Di qui la metafora e insieme la necessità di un rovesciamento , tale, volgere la figura dal basso verso
l’alto, dipingere alla rovescia, portare la forma finita a un’ inconsueta discordanza di linee, spostarla in una voluta asimmetria o sproporzione nei
tratti del viso o del corpo , amputarne parti isolate, frammenti ingigantiti di piedi, busti o teste, figurarne solo a metà apparizioni uscite dalla
lotta tra l’energia e la materia.
“Modello per una scultura” esposto alla Biennale di Venezia nel 1980 é la prima opera che apre il cammino verso “ la prefigurazione d’una nuova
immagine”. Né seduto né in piedi il personaggio sembra estrarsi dal fondo del legno, intagliato direttamente in solchi, scavature, incisioni marcate a
partire da un blocco monolitico, massa anonima, squadrata dalla quale cominciano a delinearsi alcune parti lasciate al non-finito: testa, bacino,
torso, un braccio che si eleva obliquamente in saluto. Solo alcune abbozzi di linee riescono a emergere dalla materia grezza, ripresi, tracciati,
rifatti a vernice come in quei disegni preparatori dove si delineano approssimativamente segni di matita su cui si andrà a tagliare o fissare una forma
tranne che qui, ancora, la sua sagoma definitiva non esiste e non si vede che questo primo apparire volutamente lasciato allo stato
dell’in-determinato.
Simile a uno scavare, manipolare, fare violenza in qualche modo al blocco unico, farne solchi, pieghe, fossati, farne una lotta, un faccia a faccia
impulsivo, violentemente dato, farne una messa in luce, un dare alla luce, nella metafora della terra-matrice esumare una testa, un bacino, un busto,
un capo.
Le teste dello stesso periodo, ugualmente, sono massicce, riprese a colpi o segnature di vernice blu o nera, nella cancellazione voluta, inevitabile
dei tratti o di parti dei tali, nello sforzo di discendere, andare verso il basso, verso strati più antichi lasciando nel processo occhi o bocche
distorte.
Sono queste teste dell’incisione, tagliate o staccate dal resto del corpo, messe in rilievo, esse sole su un piedistallo, verticali o distese,
rovesciate; teste della discordanza interna tra le linee, dell’asimmetria voluta o del disaccordo tra il fondo e la figura, una metà ancora immersa
nel blocco massiccio del legno e l’altra graffiata, incisa, riversa fuori nell’atto scultoreo.
Le “figure in piedi” degli anni ottanta si ergono a grandezza naturale di fronte ai nostri occhi quasi estratte dal suolo, in questo contatto diretto,
linfatico con le forze basse, libidiche, prime della terra attingendo alle sue radici. Sono corpi-albero, corteccia, corazza, sughero, o legno
intagliato elevandosi in verticale, simili alle sculture africane nate come statuette-emblemi medianti tra il mondo degli umani e quello degli spiriti.
Dalle profondità delle radici il supporto-tronco si erge verso l’alto intagliato direttamente sull’unico del legno; affila il busto in estremità
verticale, ora rigonfia la zona del bacino disegnata in circolo come ricettacolo nevralgico dell’insieme del corpo.
In “Gruss aus Oslo”, la figura sospesa su un piedistallo, a metà fluttuante in aria senza più piedi, si da nell’evidenza di volumi grottescamente
portati verso l’esterno là dove la materia si scava o si accumula secondo le fluttuazioni energetiche del corpo: la testa dalla fisionomia marcata, il
naso come protuberanza rossa enorme sporgendosi in orizzontale, gli occhi ugualmente tuberi rossicci, infine le zone del seno e del sesso messe in
evidenza dalla tempera colorata.
In “G Kopf” la testa da identità individuale diviene un universo in sé, una mappatura circolare, un piccolo cosmo scomposto in parti interscambiabili,
senza più fronte ne retro, modello in forma circolare e cubica insieme, fatto della combinazione, dell’incastro di tanti piccoli riquadri scomposti
senza più trovare soluzione, armoniosa ricomposizione. Ancora, in primo piano, è l’intaglio sulla corteccia-cosmo ripresa a vernice blu.
La “testa tragica” del 1988 é un tronco lasciato ancora all’indeterminato della matrice dove la figura decide di non separarsi completamente dal
fondo-legno o forse vi fa ritorno scavandosi nel tutt’uno d’uno stadio primigenio con essa. Scarnificata in verticale, i seni volumizzati e il naso
rosso, sporgente d’un pinocchio messo alla berlina é figura tragica perché derisoria, presa in questo assurdo d’una presenza che ride sé stessa, deride
e auto-deride, nella bizzarra distribuzione dei volumi spostandosi in pieni e vuoti attraverso la figura secondo la concentrazione dei suoi fluidi
energetici.
“Le donne di Dresda” (1989/90)
La serie evoca le vittime della distruzione della città nel 1945; un gruppo di figure plasticamente distribuite nello spazio, intagliate nella vivacità
cromatica di un giallo vivido, anti-naturalistico in aperto contrasto con l’incarnato del modello classico. Forme tondeggianti, piatte o ovali, la
prima riempita dei buchi d’una mitragliatrice sembrano dire che la scultura diviene, infine, questa impregnazione d’una materia grezza, presa di mira,
giustamente colpita, messa in movimento da un’energia che le é propria, che si incarna perché assume sembianze plastiche nello spazio partendo dal
blocco monolitico del legno. Mettere in vibrazione la materia, attivarne un’energia che si imprime in una forma singolare, in accumulazioni,
scarnificazioni, scavature o incavi, tale é il senso possibile di questo modo di figurare.
Cinque teste nel coro delle donne di Dresda. E’ una schiera, un gruppo, una disposizione/sproporzione a cinque nello spazio che quintuplica l’energia
del singolo in un coro tragico ma distaccato, impersonale, le cui dimensioni espanse sovrastano lo spettatore.
Scalpello, ascia, punta affilata, i colpi, le cesellature si susseguono, scavano, si accaniscono sui visi, non solo rigati ma apertamente intaccati,
tagliati, presi a colpi d’accetta, tanto che in alcuni non vi si distinguono neanche più i tratti. La massa si svuota, la durezza cede alla violenza
del colpo, il pieno iniziale e compatto lascia posto a varchi scavati nel vuoto, a bocche distorte, a buchi o forme concave d’occhi. Rinviano insieme
alla sfera soggettiva della pelle, epidermide-corteccia brutalmente incisa, lacrime senza nome rigate in solchi a vivo sui volti di Dresda, e a quella
d’una materia alla quale é applicata la violenza singolare d’un rovesciamento come modo inedito di pensare la scultura.
I cinquantadue disegni realizzati in relazione al lavoro scultoreo nascono non tanto come abbozzi preparatori ma esprimono secondo Baselitz “la ricerca
d’una idea”, un’idea che inevitabilmente terminerà altrove, andrà a deviare, prenderà direzioni inattese per realizzarsi in una serie di modificazioni,
di micro-trasformazioni successive corroborate dal lavoro in serie. Costante resta la preoccupazione di indagare la discordanza interna al sistema dei
volti e all’organizzazione dei corpi, la disarmonia ricercata nelle proporzioni o nell’isolamento di singole parti, il “fuori norma” compreso come
altra estetica possibile. Sono forme scomposte, demoltiplicate nella ripetizione, uscite dai cardini, scardinate dal meccanismo con parti che partono
in tutte le direzioni.
Sono escrescenze, protuberanze, forme che si ergono sessualmente, teste che crollano a lato, teste che prendono il sopravvento e occupano tutto lo
spazio della tela, masse, blocchi e poi la loro scomposizione, infiltrazione in altre griglie figurali. Ventri rigonfiati, corpi assottigliati, masse
energetiche che prendono il sopravvento su altre, ora frammenti singoli di teste, arti, un braccio o una gamba, figure dilatate in esterno o affilate
in verticale, frammenti sparpagliati di qualcosa che ha perduto la propria unità.
Negli anni novanta sono le sculture fatte di frammenti smisurati, di parti di corpo ingigantite e isolate riprese brutalmente a tempera. “Teste e torsi
rossi” giocano sulla dissimmetria ingigantita della figura nell’amputazione di alcune membra, nella dissonanza incongrua d’ attributi femminili su
corpi maschili o viceversa. Seni su un torso d’uomo in “Mannlicher torso”, indici femminili violentemente sottolineati dal colore primario rinviano al
tema di una sorta di reversibilità tra i sessi o androginia originaria che attraversa questa fase del lavoro come ulteriore esplorazione sulla
discordanza nell’ibridità figurata tra i sessi.
“Sonderling eccentrico” del 1993 é un viso che letteralmente esce dal proprio centro, si squaderna, si sposta, si“scom-posiziona”, sembra aver ricevuta
questa scossa che d’un tratto lo smuove leggermente dai propri tratti, lo mette virtualmente fuori di sé pur restando nella cornice apparente della
figura, nel confine tracciato del volto. In una versione successiva i tratti sono letteralmente spostati su un lato in una sovrapposizione grottesca
dei medesimi sul contorno del viso. Emerge la portata incisiva del segno preso in questa lotta violenta sui visi contraffati e ancora, il disaccordo
tra l’energia, la mobilità del fondo e il contorno fissato della figura.
La scultura in Baselitz: quello che da una forma tangibile, manifesta in uno spazio esterno a un’energia interna, ciò che mette in vibrazione la
materia, la attiva, la rende presente, d’ una presenza unica nello spazio nel confronto, nel corpo a corpo inevitabile, nella lotta quasi tra
l’individuo, l’informe del legno allo stato grezzo o il suo presentarsi come blocco monolitico e indeterminato.
Aggredire, scavare, incidere, lasciare segni, spazio fisico abitato, spazio plastico intaccato, discendere, cercare il vuoto dal pieno, rigare,
tagliare, intagliare, togliere anziché aggiungere, tale la via aperta da Baselitz. E ancora, è l’approccio violento che stravolge e rovescia là dove il
lavoro plastico tradizionalmente si vuole come un dare forma, un levigare e affinare, il comporre con un modello ideale, La scultura in Baselitz è un
linguaggio molto più fisico e primordiale, è infine questo “in-finire la materia”, renderla non-finita, metterne in gioco un’energia che si renderà a
sua volta in una forma unica, a lei sola.
“Volk Ding Zero”, 2009
“Autoritratto in forma di Cristo derisorio e sublime”. Desacralizza quella che potrebbe essere la postura meditativa , la posizione tragica e greve del
“pensatore di Rodin” alla quale pure si ispira aggiungendo attributi fortemente sessuati, ironici, ludici o depersonalizzanti, un cappellino con la
parola “zero”, scarpe da donna a tacchi alti. Autoritratto all’ennesima potenza in questo paradosso tra il gigantismo, la massa della forma espansa in
un esubero di sé, la massa di questa testa possente, presente, ultra-pesante raccolta in meditazione ed elementi discordanti, indici sessuali,
infantili o giocosi che disobbediscono all’insieme, desacralizzano e riportano l’identità greve del pensatore alla misura del bambino o a quella
dell’artista in ironico auto-distacco. (elisa castagnoli)
Didascalie
1- Georg Baselitz, "Senza titolo"
2- idem, "Figura in piedi"
3- idem, "G-Kopf"
4- idem, "Le donne di Dresda"
5- idem, "Volk Ding Zero"