Martedì, 23 ottobre 2012
Da un po' di tempo ormai amo leggere i libri di poesia cercando di estrarvi
una campionatura, un significato che vada al di là della mera
testualità, una direzione, un'idea del futuro. Procedo per estrazione,
spuntando quello che non solo mi piace ma che anche indica un'idea,
un'intenzione, una volontà dell'autore di andare oltre l'immagine -
magari mitica - che egli ha della poesia (e della parola) come attività
del tutto peculiare.
Apro il libro di Gabriele Gabbia, un giovane
esordiente ("La terra franata dei nomi", prefazione di Mauro Germani,
L'arcolaio, 2012). In questa raccolta. i cui testi hanno una numerazione
progressiva che travalica le sezioni, e quindi un continuum, la prima
sezione "Diatribe dal ventre", dovrebbe forse essere la carta di
presentazione delle intenzioni, se non della poetica, dell'autore, o di
quello che seguirà nel libro, o del significato del suo misterioso
titolo. La prima impressione che intanto ne derivo è come di uno scaldarsi i
muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a
tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non
è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile).
In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che
ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca -
anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una
originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima
sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello
che si percepisce, un concetto più nihlista di quello del Bernard de
Cluny (stat rosa pristina nomine...) citato da U. Eco: il
legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta
fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata -
nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una
terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più
nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non
esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice
d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica
dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si
palesa) c'è quindi il nulla.
"Nulla", con le relative isotopie, è uno dei vocaboli più presenti in
questo libro. Ci si può domandare con qualche sgomento che cosa conduca
un giovane a un "nulla" certo non mistico. Se contemplare il nulla
(anche come oggetto poetico) è una resa o una scorciatoia, si può dire
per paradosso che il nulla nasconde qualcosa, o del reale o dell'autore.
Germani acutamente cita Jabès: "la scrittura non è mai una vittoria sul
nulla, ma l'esplorazione del nulla attraverso il vocabolo". Ecco qua,
ecco che ci si inoltra nel libro. La scrittura, che nella prima sezione
sembrava rigirata tra le dita, per quanto abilmente, come un giocattolo
nuovo, riprende il posto che le compete, la sua funzione analitica,
l'esplorazione di quel poco di realtà (dolorosa, vissuta, tangibile) che
pure sarà sopravvissuta in questo nulla. Certo, sono frammenti,
lacerti, lembi, brani (come afferma il titolo di una delle sezioni),
come si conviene a una poesia che si colloca nel solco ormai canonico
della crisi (ne usciremo mai?), che prende atto ancora una volta di una
collocazione fin troppo periferica dell'uomo rispetto alla sua stessa
esistenza. In quanto lacerti i testi sono brevi, sintetici, in molti
casi come stele; se la parola viene infine trovata "tu / non gualcire
quella parola", dice Gabbia, perchè non molte altre ci son date, con
quella dobbiamo innervare nuove radici. Poesia del poco, della
parsimonia. Ma i lacerti ci sono, e ci testimoniano che il nulla in
verità è popolato dai brandelli di realtà a cui solo la coscienza ha
dato un senso durante la nostra esistenza. La parola finalmente si
aggancia ad essi, vi si àncora, si ricarica di senso, e così facendo illumina gli angoli.
Talvolta è il corpo ("un ceppo", "vascello abbandonato") il terreno su
cui la coscienza forse recupera il sé, forse si dimostra fallace,
talvolta lo strappo di perdite o il confronto di un io disperso,
esistenzialisticamente conflittuale con gli altri, la voce lontana della
madre che intona le sue preci, il padre la cui assenza è come un'orma
in un'auto vuota: niente altro che "spettri", come titola un'altra
sezione, ovvero presenze o ombre non dissimili da quelle proiettate
sulle pareti della caverna platonica. Se qualcosa resta, nel nulla, è
solo per quei nomi che è stato possibile salvare.
VII
Talvolta ti atterra il corpo addosso ed è il cupo gorgoglio di un verbo mentre si vaga, per ossessioni, per stordimenti - per storni. Il corpo - un ceppo — si allontana dallo sguardo — suo epicentro, suo traguardo - nel candore stridulo delle cose, ove niente impedisce la resa, la dipartita, ove la voce si ascolta una volta sola, mentre tutto non torna — è molto diverso — ricomincia.
IX
Muri scontrosi in Contrada S. Croce avanzano - adornano diafano un viso — fra scaglie residue d'un tempo rimasto e ciò che del tempo tuo ti rimane e l'immensa corona di spine ogni giorno più a fondo infìssa nel cranio d'avorio e aria che t'è toccato in vita.
XI Ascoltare il vuoto che ci abita nel silenzio che assedia il mattino ritrovando stanche membra nella tregua che contiene le strade gli odori, l'occhio che s'affaccia e insegue fra i vetri vapori, o il gelo ch'è fra noi e il cielo -primo pianto d'inverno - forse l'alba, d'un ultimo giorno.
XII
Un primo temporale –
T'intercetta il suo testamento. Tu solo vi fai approdo: ora l'ora ti riguarda, assembra, l'istanza capitola a terra. Al fine lo spazio che attornia t'affranca: ora (anche tu) sei aria assolta.
XIII
La prima solitudine, nell'auto - vettura vuota - corpo - vascello abbandonato. Seduto — risucchiato nel sedile senza fondo — a fianco dell'assenza di tuo padre. Fuori la perdita della luce delle mani degli anni. La perdita di tutto. Anche - anche di questo, ricordo.
XXX
Poi c'è quel modo di star dentro alle cose di starvi poggiato fra valichi e case - bisbigli — luci salmodie afflati raschiano tenui un freddo.
XXXII
Stamani avrei voluto stringerla quella vita quella bellezza — tutto quell'autunno al cospetto degli occhi. Ma la bellezza non si stringe non si possiede — si contiene si contempla si lascia.
XXXIII
Anche solo esser ombra su una strada anche solo esser aria che spira o foglia, che volteggia e si posa nello sguardo che innerva nella sfera l’immane movimento della vita.
XL Trovammo gesti fra foglie improvvise spirali inattese cose appartate, audaci nel loro essere inconsuete insolute, mordaci paure, parole portate lì, muraglie di somme — resti — di ciò che sappiamo e non siamo — orme.
XLIII
Da quella lente sgorga ancora quella sera (odo il vento che diviso ha vie) - ricordi? Dicesti "il vento è importante" - un riverbero di riso che occhi ha chiuso l'incerto passo, sulle orme di case.
XLIV
Nel tuo vivere quotidiano vi è un supplirsi a me estraneo — un ignoto contenersi — un vedersi mai più in là di ciò che si ha di ciò che si sa — un infinito ridotto al corpo dell'osso.
XLVIII
Sento il sibilo delle tue preci madre che dolce s'insinua — è bocca che lava ferita che strenua concilia in terra la terra che continua - che ancòra invoca nel sangue della sillabe pietà —perdono - l'àncora del peccato.
XLIX
Io sarò voi — i morti, tutti, noi, voi dopo di me, quando solo, soffierò lo sguardo, da ciascuno di voi tutti su ognuno di me.
LIV
Con occhi sempre nuovi hai abitato una forza indistinta. L'hai subita donata diffranta, ed era il senso del vivere che si apriva — era te —: quel silenzio ridotto alla parola.
LX
A sera credi ancora nei cortili, nella parola irrevocata chiusa in una mano, mentre tutto — nutrirti — a te attorno è una bocca che uccide — silente — allo specchio.
I testi da VII a XXXIII sono della sezione “Lacerti, corpi, lembi. Brani di nulla”. Quelli da XL a XLVIII a “Spettri”. Quelli da XLIX a LX alla sezione “Io”.
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