Mercoledì, 18 febbraio 2015
Tre testi di Gabriele Gabbia, ci cui avevo parlato a proposito del suo primo libro, "La terra franata dei nomi" (v. QUI).
Il primo è del tutto inedito, il secondo si è piazzato al concorso Poeti e
Scrittori in Lombardia – 50&Più per la Cultura, nel mese di gennaio
2014, mentre il terzo, qui lievemente rivisto, s’è aggiudicata la XXVII edizione del Premio Nazionale di
Poesia Lorenzo Montano.
Scrivevo allora: "La prima impressione che intanto ne derivo è come di
uno scaldarsi i muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con
qualche spinta a tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la
parola - sempre - non è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile). E continuavo: "In
questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che ritengono
che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca - anche a
costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una originalità prima
di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima sezione traspare
l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello che si percepisce,
un concetto più nihlista di quello di Bernard de Cluny (stat rosa pristina nomine...):
il legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il
poeta fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare
segnata - nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse
da una terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno
più nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non
esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice
d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica
dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si
palesa) c'è quindi il nulla". Questo nulla, esistenziale
o filosofico che fosse ma citatissimo nei testi, risultava poi, specie
nell'inoltrarsi del libro "quando il linguaggio si è fatto meno
pitico", essere popolato da "frammenti, lacerti, lembi, brani",
segno che l'esplorazione del nulla, infine, rinveniva qualcosa di
poeticamente consistente a cui la parola riusciva a riagganciarsi,
riscoprendo nei nomi una funzione salvifica, almeno nei confronti di ciò
che è stato vissuto. (per il resto rimando a quel post).
In questi tre testi, forse non sufficienti per capire una svolta, ci
sono dei sicuri motivi di interesse e forse una maturazione, pur
nell'ambito di quella visione di un nulla che avvolge il tutto. Ancora
presenti molte isotopie che quel nulla richiamano: le non poche
negazioni, parole come "vuoto", "nessuna", "arresto", "nulla",
"incompiuto", sintagmi come "tutto non è più". Ma il riavvicinamento
alla realtà, intrapreso nella seconda parte de "La terra franata", è
deciso, seppure essa sia una realtà dolorosa, forse pessimistica o
disperata, in cui i vivi e i morti, uniti come vedremo da un comun
denominatore, prendono corpo proprio dal linguaggio, e l' esperienza
soggettiva dell'uomo emerge. Ne L'arresto le
parole rimbalzano, anche grazie agli enjambements, come dentro una fuga
prospettica o un imbuto che precipita e strozza il suo contenuto. Si
descrive un distacco come un'oscillazione di un pendolo o di un orologio
che solo nel suo moto, fino a quando non giunge al termine della sua
energia di spinta, ha il suo essere. In quel momento zero non ci sono
più parole da dire (fatto evidenziato con la marcatura "nessuna"), non
resta che prenderne atto, convergere sull'evidenza di questo vuoto.
Affiora nella chiusa, mutuata da De Angelis, una nota emozionale che
umanizza l'asciuttezza del testo, sottolineata anche qui dall' accento
(il corsivo) posto su "tu" che vibra come un singulto: in questo
rapporto spezzato, solo tu sei libera, io rimango con i mei rimpianti, rimango forse prigioniero di un sentimento, di una sopraggiunta solitudine.
In Essi, un bel titolo inquietante, quasi
jamesiano, che marca una significativa diffidente distanza, si parla
invece dei morti. In questo testo, a me pare, non c'è niente di
apotropaico, si parla dell'infinito popolo dei morti, perduto in una
eternità "aggressiva" (dice l'autore) che non vale esorcizzare ma che
deve essere meditata come percezione, per contrappunti e
contrasti di luce, di un nulla per così dire più ontologico. Se la luce,
forse del pensiero, gettata sui morti fa risaltare solo un nulla che, incandescente,
ricade come un terribile fall-out nucleare su cose e case spopolate
"ove tutto non è più", invece su quell'eternità chi vive (o chi vive
nella memoria) per contrasto risalta. Ma la luce (certo intesa come
simbolo) questo contrasto totalizzante in cui l'autore appare come
l'unico essere, ha una doppia via. Di ritorno illumina e sostanzia di
"figure" (ricordi, volti, affetti forse) "in cui [invece] il tutto è
stato". Il confine tra vivi e morti (e arriviamo al finale) sta qui dove
Gabbia usa una parola importante: "La lacerazione del / percepito – sì
–: /l’incompiuto". Un finale solido, inoppugnabile. Se, come afferma Merleau-Ponty, la percezione è la realtà attiva e morale della
coscienza di sé dell'altro e del tempo, la morte è questo strappo
definitivo che nega ogni parola, che lascia incompiuto il non detto e il
dicibile, il non fatto e il fattibile, il non amato.
In Mancata figura il discorso sulla morte
viene focalizzato. Il testo, diviso in tre stanze, ruota, mi par di
capire, intorno alla figura della (o di una) madre. Nella prima parte
c'è la rivelazione del lutto, la percezione di un vuoto, di una
nullificazione però questa volta è diversa, perchè tardiva e perciò
bruciante come un rimorso. E' questo bruciare che rimbalza indietro,
fenomeno psicologicamente noto, una sorta di astio. E' la strofa della
cognizione del dolore. L'elaborazione, o l'esorcismo, inizia nella
seconda, aperta con tre versi singolari che rimandano alla arcinota (e
spesso fraintesa) proposizione n. 7 del Tractatus di Wittgenstein, e la
riscrivono in chiave di cordoglio. Riprendendo la chiusa di cui abbiamo
parlato poco sopra, subentra, io credo, una rassegnazione al fatto che
tutte le parole sono state spese, che ogni comunicazione è interrotta
per sempre. Rimane, ed è importante, una serie - anche qui - di
percezioni contrassegnate da parole che appartengono al campo astratto
(afflato, tormento, soprassalto) e che connotano ciò che ancora si può,
girovagando attorno alla perdita. E producendo, passaggio dopo
passaggio, come una stampa a contatto dei ricordi, un "calco" (che è
anche, ricordiamo, maschera funeraria), un'adesione che sia di potenza
evocativa (una speranza credo) interminabile. L'ultima strofa, infine,
descrive un equilibrio, forse precario, postumo e conseguenza
dell'elaborazione, il perturbante insito in questo ripensamento del
lutto, nel tentativo di ancoraggio all'esistente di una materia che
invece sappiamo labile. In altre parole, se i ricordi legati alla morte
sbiadiscono rimane solo la morte: l'abisso da cui il poeta è attratto e
su cui pencola pericolosamente (attratto, rattratto, eccede, aggetta),
forse infine trovando un centro d'equilibrio, librandosi (o forse liberandosi)
in contemplazione "alla luce dell'ombra". E a questo proposito mi piace
ricordare Antonio Porta: "Lo so da sempre che devi scomparire / ma nel
tuo buco d'ombra io non ti seguo" (Poemetto con la madre, 3, in Yellow). Del resto dice ancora Porta (ivi, 2): "Ora mi chiedo se è l'ombra che ti cancella".
Insomma, come mi pare di aver chiarito, in questi testi le parole
perdono la loro "vertigine" astratta per assumere il ruolo di pilastri, e
il vuoto - ecco il comun denominatore a cui accennavo - il vuoto assume
finalmente la realtà dell'assenza, ha in altre parole un senso esistenziale, la mancanza di chi se ne è andato, di chi è scomparso, di coloro con cui non è più possibile compiere l' incompiuto. (g.c.)
Continua a leggere "Gabriele Gabbia - Tre poesie"
Martedì, 23 ottobre 2012
Da un po' di tempo ormai amo leggere i libri di poesia cercando di estrarvi
una campionatura, un significato che vada al di là della mera
testualità, una direzione, un'idea del futuro. Procedo per estrazione,
spuntando quello che non solo mi piace ma che anche indica un'idea,
un'intenzione, una volontà dell'autore di andare oltre l'immagine -
magari mitica - che egli ha della poesia (e della parola) come attività
del tutto peculiare.
Apro il libro di Gabriele Gabbia, un giovane
esordiente ("La terra franata dei nomi", prefazione di Mauro Germani,
L'arcolaio, 2012). In questa raccolta. i cui testi hanno una numerazione
progressiva che travalica le sezioni, e quindi un continuum, la prima
sezione "Diatribe dal ventre", dovrebbe forse essere la carta di
presentazione delle intenzioni, se non della poetica, dell'autore, o di
quello che seguirà nel libro, o del significato del suo misterioso
titolo. La prima impressione che intanto ne derivo è come di uno scaldarsi i
muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a
tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non
è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile).
In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che
ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca -
anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una
originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima
sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello
che si percepisce, un concetto più nihlista di quello del Bernard de
Cluny (stat rosa pristina nomine...) citato da U. Eco: il
legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta
fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata -
nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una
terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più
nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non
esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice
d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica
dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si
palesa) c'è quindi il nulla.
"Nulla", con le relative isotopie, è uno dei vocaboli più presenti in
questo libro. Ci si può domandare con qualche sgomento che cosa conduca
un giovane a un "nulla" certo non mistico. Se contemplare il nulla
(anche come oggetto poetico) è una resa o una scorciatoia, si può dire
per paradosso che il nulla nasconde qualcosa, o del reale o dell'autore.
Germani acutamente cita Jabès: "la scrittura non è mai una vittoria sul
nulla, ma l'esplorazione del nulla attraverso il vocabolo". Ecco qua,
ecco che ci si inoltra nel libro. La scrittura, che nella prima sezione
sembrava rigirata tra le dita, per quanto abilmente, come un giocattolo
nuovo, riprende il posto che le compete, la sua funzione analitica,
l'esplorazione di quel poco di realtà (dolorosa, vissuta, tangibile) che
pure sarà sopravvissuta in questo nulla. Certo, sono frammenti,
lacerti, lembi, brani (come afferma il titolo di una delle sezioni),
come si conviene a una poesia che si colloca nel solco ormai canonico
della crisi (ne usciremo mai?), che prende atto ancora una volta di una
collocazione fin troppo periferica dell'uomo rispetto alla sua stessa
esistenza. In quanto lacerti i testi sono brevi, sintetici, in molti
casi come stele; se la parola viene infine trovata "tu / non gualcire
quella parola", dice Gabbia, perchè non molte altre ci son date, con
quella dobbiamo innervare nuove radici. Poesia del poco, della
parsimonia. Ma i lacerti ci sono, e ci testimoniano che il nulla in
verità è popolato dai brandelli di realtà a cui solo la coscienza ha
dato un senso durante la nostra esistenza. La parola finalmente si
aggancia ad essi, vi si àncora, si ricarica di senso, e così facendo illumina gli angoli.
Talvolta è il corpo ("un ceppo", "vascello abbandonato") il terreno su
cui la coscienza forse recupera il sé, forse si dimostra fallace,
talvolta lo strappo di perdite o il confronto di un io disperso,
esistenzialisticamente conflittuale con gli altri, la voce lontana della
madre che intona le sue preci, il padre la cui assenza è come un'orma
in un'auto vuota: niente altro che "spettri", come titola un'altra
sezione, ovvero presenze o ombre non dissimili da quelle proiettate
sulle pareti della caverna platonica. Se qualcosa resta, nel nulla, è
solo per quei nomi che è stato possibile salvare.
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