Il 30 dicembre scorso è uscito presso l'editrice L'Arcolaio di Gianfranco Fabbri la silloge di poesie "Il tempo che si forma", prima opera a stampa di Luca Lanfredi, di cui ho scritto la nota introduttiva, che anticipo qui insieme ad alcuni testi di "assaggio".
Come dissi a Lanfredi la prima volta che entrammo in contatto, io ignoro se il tempo si formi (ci sono svariate e opposte opinioni al riguardo), se sia
ciclico o lineare, non so nemmeno, con Agostino di Ippona, che cosa sia davvero, sebbene poi il santo qualche convinzione in proposito l'avesse. Quel che
sappiamo è che in poesia il tempo è uno dei tòpoi più ineludibili, e che soprattutto c'è, sta lì da qualche parte anche se non lo nomini,
lasciandosi dietro un po' di scorie, di accidenti e di casualità, e non si lascia misurare se non in termini di istanti.
Mi pare di poter affermare che quella di Lanfredi sia, in effetti, una poesia dell'istante. Non solo per la concisione dei testi ma anche per l'estrema
sintesi dell'espressione, quasi una riservatezza del dire o, meglio ancora, un senso di inadeguatezza del linguaggio nei confronti di questo dire, come uno
iato tra il cuore e la favella che almeno una volta abbiamo provato tutti, o una supposta mancanza di definizione, per dirla in termini
fotografici, a cui la poesia cerca di sopperire o si arrende.
Il testo tipico di Lanfredi è un istante prolungato, un momento in cui qualcosa si realizza in una sua fugace compiutezza, un frame, come
guardare fuori attraverso una finestra in giornate uggiose, uno sguardo non tanto su oggetti, su una realtà non sempre materiale (sono rari o indefiniti i
luoghi fisici) o su un ambiente in cui la vita agisce le sue dinamiche, quanto su un pensiero, una luce, una improvvisa e temporanea lacerazione di un velo
di Maya. Nella loro brevità, che appare essere del tutto funzionale e organica al pensiero dell'autore, le poesie di Lanfredi suggeriscono da un lato la
parziale visione dell'esistenza che ci è dato di vivere, la nostra impossibilità di vederci nella nostra totalità, dall'altro la vaghezza
autotelica anche di quel poco che riusciamo a vedere. In altre parole una schermaglia dialettica elusione/elisione tra realtà sfuggente e scrittura.
Tuttavia la poesia di Lanfredi non è rapsodica poiché non svaria tra le occasioni, al contrario segue un suo filo di pensiero, una necessità di
speculazione del piccolo per individuare il significato di qualcosa di più grande. Soprattutto sul versante emotivo della vita, nel trascorrere di un tempo
che, essendo come abbiamo detto istantaneo, si realizza per lo più in un quotidiano che Lanfredi dipinge bene e con pochi tratti nel suo inflessibile
riproporsi, nel suo "defluire scostante e senza tempo". Quel che c'è di "occasionale" assomiglia appunto ad uno sguardo che sfiora le cose per poi sfocare
e perdersi verso un orizzonte interiore. Si passa ad esempio nel testo dall'osservazione della pioggia ad una sete dell'anima, all'assenza di qualcosa o
qualcuno; o addirittura assomiglia a ciò che potremmo chiamare un " pensiero di pensieri", cioè un'idea, un'intuizione che rimanda subito ad una piccola
realizzazione epifanica, una impressione (usando qui un altro termine fotografico, e del resto anche l'autore in un punto parla di "istantanee
rubate"). E quasi sempre si segna un passaggio (o una fuga, se preferite) tra una realtà fisica ed quella interiore, non necessariamente una migliore
dell'altra ma che, ammettiamolo, ci trova partecipi come lettori. Tutti, in altre parole, abbiamo sperimentato questo disperdersi, questa perdita di
contatto, al seguito di una mente che aspira a riscrivere una realtà corriva.
Tutti questi passaggi sono veloci poiché, come abbiamo detto, la brevità di 10-12 versi liberi e asciutti è la forma della poesia di Lanfredi, il suo farsi
e il suo perimetro, la sua prassi e il suo stile, entro i quali mette in scena un linguaggio "moderato", per molti versi comune, che da questo punto di
vista potremmo definire "sociale", perché economico, efficiente e non esclusivo nei confronti di chi legge. Giacché io credo che Lanfredi abbia una
convinzione riguardo alla lingua poetica, e cioè che sia strumento - di evocazione più che di sperimentazione - abbastanza potente anche per quel che di
vago, impercettibile e sfuggente c'è nella nostra vita.
L'indefinito, o magari l'indefinibile, è infatti l'altra cifra della poetica di questo libro e forse uno dei suoi temi di fondo. E' quello che mi pare di
percepire scorrendolo: leggendo ci si accorge che è una poesia, questa di Lanfredi, che lascia sospese molte domande (dove, chi, cosa, quale,...) come se
ci si trovasse nel mezzo di una azione scenica già iniziata o gettassimo lo sguardo in un appartamento da un treno in corsa. Siamo spettatori di una
apparizione, non meno di quanto lo sia il poeta, che è il primo a denunciare (in sarebbe come accontentarsi) che "questa vita, poi, [...] appare /
e disappare con uno svaporìo / di indizi", una vita a sua volta disciolta in un fluidissimo tempo/spazio "nel giorno che potrebbe essere dovunque" (in con un tratto di linea i punti). A volte si avvertono, come al di là di una porta, frammenti di conversazioni con qualcuno (dici, avevi
detto,...), spesso senza replica di chi (l'autore) ne registra gli effetti come cerchi concentrici alle sponde di uno stagno (in i vetri, nella
sezione La pronuncia del nome), brani che il lettore è chiamato a ricomporre idealmente; altre volte, come per proustiane intermittenze, cose
minute (uno "slabbrato sentimento dell'istante", un "afferrare le chiacchiere frantumate", un "segno chiuso") precipitano nel giro di pochi versi in una
domanda capitale: "Che cosa faremo, quando non saremo?" (in il narrare del nostro fluire), oppure verso una conclusione apodittica e sconfortata,
un ribadito "Tutto qua" (in ultime notizie; e un altro testo, qua e alle pagine seguenti, esordisce con un identico "Tutto qui").
E' questo palesarsi, in sostanza, che attesta una realtà vissuta in maniera inquieta, proprio perché può essere còlta (e questo è un tratto di molta poesia
attuale) solo per sintomi, più che per cause e radici. Anche la catastrofe, e quindi il dramma, in ragione di quel che c'è di "eventuale"
nell'orizzonte poetico di Lanfredi, può essere insieme istantanea e minuta: "quante volte, la morte è poco più / che un passo non guardato?" magari
nascosta dietro "solamente un gioco di parole", si domanda il poeta (in lettera aperta). La scena è quella di una topografia incerta, anzi
"insicura" dice l'autore, quasi metafisica e insieme ermetico/crepuscolare (ma è poco importante definirne gli ambiti letterari), nella quale, in una sua
"crespa", le parole (o la loro mancanza) sconfinano e precipitano, mentre l'agire si invischia ("piace l'eterna indecisione della azioni", in inventario di una fine estate); o quella di "una stanza vuota (che) non si può dire vuota ma piena di niente" (in qua e alle pagine seguenti), ma che tuttavia vuota non è, anzi, per le ragioni che la poesia deve darsi, vuota non può essere.
Qui, insieme al poeta siamo anche noi, colpiti come mosche da questi segnali intermittenti e affascinanti, da questi istanti significativi; qui, in questa
stanza come mosche "trattenuti, come da un bicchiere capovolto". (g.c.)