Lunedì, 9 novembre 2015
Enrico Barbieri - Provincia - Giuliano Ladolfi Editore, 2015
Di Enrico Barbieri ho già scritto qualcosa (v. QUI),
in occasione del suo libro "Il tremore della terra", edito da CFR nel
2014. In quella circostanza avevo espresso delle perplessità, che
riguardavano soprattutto una certa discontinuità, e forse timidezza o
ritrosia nel dire, che dava un andamento rapsodico al libro.
Torno sulla scena del "delitto" con questo secondo o forse terzo libro
soprattutto perchè sono convinto che, a differenza di molti, Barbieri
nella poesia ci creda, non sia un atteggiamento e nemmeno una mera necessità (concetto
quanto mai ambiguo). Dalla prima impressione mi pare che alcuni "vuoti"
siano stati riempiti, segno che Enrico qualche riflessione l'ha fatta, e
un minimo si è messo in discussione. Vuoti che non erano tanto
"orizzontali", cioè determinati da una ispirazione vagante tra le
occasioni, quanto piuttosto "verticali", ovvero dovuti ad uno scavo
(come si diceva una volta) ancora molto da fare su quella stessa
ispirazione. C'era insomma, secondo me, la necessità di andare più a
fondo, non solo nel materiale da trattare, ma anche nella stessa
scrittura.
Credo che Enrico l'abbia fatto, magari prendendo un po' di petto quella
materia. Ricordo che tra i commenti al post del febbraio scorso, Davide
Castiglione aveva accennato, tra le altre cose, a un certo
"maledettismo un po' autoriferito", cioè, se avevo ben capito, qualcosa
di "posato", una rabbia un po' torva ma "da poeta" nei confronti di un
dolore ingiustificato, immeritato e dalla responsabilità generica e
sfumata. Per la verità non ne avevo visto molto, in quel libro, forse
perché Barbieri non ce l'aveva messa quella rabbia (ma una "rabbia di
razza", come dice adesso), o non ne aveva messa abbastanza. Ma credo che
anche in quel caso si trattasse semplicemente di una ritrosia non
ancora passata all'esame di un più consapevole lavoro poetico.
La verità è che nessuno, davvero, ha un'idea chiara del reale vissuto
di un autore, a meno che non ci si metta a fare un lavoro d'indagine che
nessuno oggi fa più. Difficile dire, alla fine, se quello che ci
colpisce è la "verità" o solo qualcosa di ben recitato (non
dimentichiamo che Barbieri ha anche esperienza teatrale). Resta il
testo, e la lingua con cui è scritto. Che
poi tutto si riporta alla lingua, che deve essere personale (e quella
poetica più che mai), e a ciò che da essa traspare. Dico questo perché, a
differenza del precedente, in questo libro mi pare di vedere una
diversa cognizione, una messa a fuoco del cosa e del come, in altre
parole una misura. Che non smorza però la vis, la nota
dolorosa ma non dolente, il sentimento della mancanza di senso in molti
accidenti della vita, l'incapacità di salvezza per sé e per chi si ama e
anche l'incazzatura, questa sì, per una realtà sociale sempre più
disfatta, una provincia pavese che non è solo geografica ma anche specchio di
una marginalità dell'individuo, di una provincia dell'anima. In effetti
non c'è distanza, a ben vedere, tra le tematiche che impregnano questo
libro, che brevemente individua Giulio Greco nella prefazione, tra la
dolorosa ma quasi rassegnata osservazione della moglie malata (certo i
testi più "forti" e commoventi) e quella niente affatto rassegnata dei mali,
descritti anche con sarcasmo,
della società locale, tra il tratto lirico di certi richiami
naturalistici e la descrizione icastica, in funzione di simboli, di
personaggi incontrati tutti i giorni. Tutto rimanda alla fondamentale
solitudine del singolo, certo esistenziale, ma anche direi come unità
politica disorganizzata, o forse consapevolmente anarchica, o di dropout per
scelta, a cui la figura dell'autore - "in parte un pazzo in parte
normotipo" - tende a sovrapporsi (ma non voglio certo dire che in lui
la poesia sia vita e viceversa). E' in questo senso dilatato che
interpreto la "provincia" di Barbieri.
Quel che è interessante è che tutto
ciò non ha bisogno di circonvoluzioni sintattiche, di torsioni, di
ricorsi all'indefinito, di lessico ricercato, né di metri o forme
particolari. Il discorso è diretto, anche apodittico, e perciò, per
dirla in soldoni, tutt'altro che crepuscolare, il verso è libero, e la
vena mi pare aperta. Se il livello emotivo continua ad essere
controllato, come se Barbieri volesse stabilire una superiorità e una
distanza "autoriale", mi pare invece che sia stata abbandonata una certa
"oralità" di cui avevo parlato la volta scorsa, che questa cioè sia una
poesia che non cerca tanto la scena (in senso metaforico) quanto la
comunicazione as is, così com'è, senza tante storie, senza
stare a cercare tra le tante parole, come gli avevo scritto in privato,
quella "giusta", ma senza tuttavia tralasciare di dare un corpo, un
nome, alle "cose". Certo, niente di innovativo in una poesia di
questo tipo, semplicemente perché non ce n'è bisogno. Ma secondo me ha,
più di tanta poesia "civile", una concretezza che un po' oggi si è persa
e che è bene ritrovare ogni tanto. E che cerca, come avevo suggerito ad
Enrico, di rispondere alle domande: che cosa voglio dire? e come? Che
non è mica poco. (g.c.)
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Mercoledì, 4 febbraio 2015
Enrico Barbieri - Il tremore della terra - CFR Edizioni, 2014
Trovo difficoltà a inquadrare questo libro di Enrico Barbieri, fatto di
una poesia che definirei di superficie, che sembra sfiorare le cose,
ritraendosene poi velocemente. Una poesia generata dai più diversi
spunti, da un "qualcosa" (v. oltre) che l'autore coglie di volta in
volta e intorno al quale cerca di aggregare la sua scrittura: la vita
nella sua genericità, una stagione, un piccolo fenomeno osservato,
uccelli, un fiume, l'amore, una natura in cui non sempre ci si
rispecchia. Una poesia lirica in cui tuttavia l'io appare un po'
sovrapposto, che mi pare non sia né decisamente centrale né cautamente
appartato, non sia riferito a una tradizione consolidata senza essere -
d'altra parte - effettivamente post-moderno (aggettivo che usa Pasquale
Vitagliano nella sua prefazione). Un libro che non è scritto male, ma
che mi lascia nella lettura una impressione di indecisione, di
irresolutezza, quasi di timore di percuotere la materia per strapparle,
più che un suono, una voce, un movimento. Tanto che di fatto sono pochi i
testi che ho deciso di estrapolare per pubblicarli qui (v. oltre),
quasi tutti tra l'altro provenienti da un'unica sezione delle quattro
presenti, intitolata "Sequenze", che mi pare la migliore per concretezza
e resa poetica e per una sua capacità narrativa. Del resto l'universo
poetico di Barbieri mi sembra costituito di schegge, più che di detriti
baudelairiani, e quindi ha una natura rapsodica, frammentaria. E
tuttavia non si tratta di mettere in dubbio le "cose" che Barbieri vuole
dire, o la loro "verità", assoluta o personale, e perciò non si tratta
minimamente di mettere in discussione la sua "ispirazione" (e bisognerà
prima o poi trovare un'altra parola). Però credo che questa silloge
rientri nel novero dei libri che avrebbero bisogno di una seria opera di
editing in grado di valorizzare quel che di buono si intravede (e ce
n'è), soprattutto nelle ragioni che hanno mosso l'autore a scrivere (e
ce ne sono). Un'opera di editing che nessun editore, piccolo o grande
che sia, è in grado o ha la voglia di fare, qui da noi, dove siamo
ridotti al livello di stamperia.
Certo potrei provare ad appoggiarmi alla prefazione di Pasquale
Vitagliano che è, lo dico subito, abbastanza benevola, ma che dice un
paio di cose assolutamente vere o che assumiamo per vere. La prima è che
"i suoi versi [dell'autore] nascono orali e dopo vengono fissati nelle
forme scritte della poesia". Se questo è vero allora credo che si
ripresenti il problema a cui ho accennato altre volte: che la stesura su
carta di qualcosa che è nato per essere rappresentato o recitato su un
palcoscenico talvolta porta alla luce una stramatura del tessuto che il
suono della voce può solo tentare di coprire. che imbelletta. Se così è,
io credo - ma è naturalmente una mia opinione - che sia necessario per
Barbieri (ma anche per tutti quelli che fanno poesia orale) fare i conti
con la sostanziale diversità tra due forme e mezzi di comunicazione.
Mettere certi testi su carta è una specie di prova del nove che dovrebbe
suggerire di impegnare (e impregnare) diversamente il linguaggio,
metterlo di più in tensione, puntare di più sul suo potenziale
connotativo e polisemico piuttosto che sul suo "suono" evocativo. In
realtà io non credo, a differenza di quanto scrive Vitagliano, che in
questa poesia "l'architettura finale del verso [sia] la scena" a
beneficio dello "stupore del lettore-spettatore, il quale legge e allo
stesso tempo guarda e ascolta". Non credo che funzioni esattamente così,
se non altro per il banalissimo fatto che il lettore, a differenza
dello spettatore, ha un potere reale e attivo sul testo, di
rileggerselo, di interpretarlo come vuole secondo le proprie inferenze.
D'altra parte, premette Vitagliano, "non c’è oggetto, né soggetto che
ingombri la scena". Tranne forse i versi che il lettore, comunque, è
chiamato ad interpretare, tanto più allora se la scena, davvero, è
spopolata.
Se quindi, ripeto, è possibile rinvenire in singoli testi di Barbieri
segni di una capacità di poetare, soprattutto quando - invece - soggetti
e oggetti appaiono sulla scena, sono d'accordo col prefatore quando
scrive che "il cammino di “reductio ad unicum” intrapreso da Barbieri è
stilisticamente agli inizi. Ci sono parti ancora disomogenee che
richiedono uno scavo più coraggioso, per poter giungere ad un approdo
poeticamente maturo". E per quanto sia giusto riconoscere a Barbieri una
sua etica della poesia, una sua "onestà", mi pare arduo dire che questo
valore, di per sé e da solo, possa produrre una poesia "già completa,
compatta e solida come una noce, perfettamente centrata tra spazio e
tempo, in equilibrio stabile tra memoria privata e collettiva, realtà e
metafisica, natura e libertà". Ma non resta che lasciar fare al tempo e a
Barbieri, naturalmente. (g.c.)
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