Enrico Barbieri - Il tremore della terra - CFR Edizioni, 2014
Trovo difficoltà a inquadrare questo libro di Enrico Barbieri, fatto di
una poesia che definirei di superficie, che sembra sfiorare le cose,
ritraendosene poi velocemente. Una poesia generata dai più diversi
spunti, da un "qualcosa" (v. oltre) che l'autore coglie di volta in
volta e intorno al quale cerca di aggregare la sua scrittura: la vita
nella sua genericità, una stagione, un piccolo fenomeno osservato,
uccelli, un fiume, l'amore, una natura in cui non sempre ci si
rispecchia. Una poesia lirica in cui tuttavia l'io appare un po'
sovrapposto, che mi pare non sia né decisamente centrale né cautamente
appartato, non sia riferito a una tradizione consolidata senza essere -
d'altra parte - effettivamente post-moderno (aggettivo che usa Pasquale
Vitagliano nella sua prefazione). Un libro che non è scritto male, ma
che mi lascia nella lettura una impressione di indecisione, di
irresolutezza, quasi di timore di percuotere la materia per strapparle,
più che un suono, una voce, un movimento. Tanto che di fatto sono pochi i
testi che ho deciso di estrapolare per pubblicarli qui (v. oltre),
quasi tutti tra l'altro provenienti da un'unica sezione delle quattro
presenti, intitolata "Sequenze", che mi pare la migliore per concretezza
e resa poetica e per una sua capacità narrativa. Del resto l'universo
poetico di Barbieri mi sembra costituito di schegge, più che di detriti
baudelairiani, e quindi ha una natura rapsodica, frammentaria. E
tuttavia non si tratta di mettere in dubbio le "cose" che Barbieri vuole
dire, o la loro "verità", assoluta o personale, e perciò non si tratta
minimamente di mettere in discussione la sua "ispirazione" (e bisognerà
prima o poi trovare un'altra parola). Però credo che questa silloge
rientri nel novero dei libri che avrebbero bisogno di una seria opera di
editing in grado di valorizzare quel che di buono si intravede (e ce
n'è), soprattutto nelle ragioni che hanno mosso l'autore a scrivere (e
ce ne sono). Un'opera di editing che nessun editore, piccolo o grande
che sia, è in grado o ha la voglia di fare, qui da noi, dove siamo
ridotti al livello di stamperia.
Certo potrei provare ad appoggiarmi alla prefazione di Pasquale
Vitagliano che è, lo dico subito, abbastanza benevola, ma che dice un
paio di cose assolutamente vere o che assumiamo per vere. La prima è che
"i suoi versi [dell'autore] nascono orali e dopo vengono fissati nelle
forme scritte della poesia". Se questo è vero allora credo che si
ripresenti il problema a cui ho accennato altre volte: che la stesura su
carta di qualcosa che è nato per essere rappresentato o recitato su un
palcoscenico talvolta porta alla luce una stramatura del tessuto che il
suono della voce può solo tentare di coprire. che imbelletta. Se così è,
io credo - ma è naturalmente una mia opinione - che sia necessario per
Barbieri (ma anche per tutti quelli che fanno poesia orale) fare i conti
con la sostanziale diversità tra due forme e mezzi di comunicazione.
Mettere certi testi su carta è una specie di prova del nove che dovrebbe
suggerire di impegnare (e impregnare) diversamente il linguaggio,
metterlo di più in tensione, puntare di più sul suo potenziale
connotativo e polisemico piuttosto che sul suo "suono" evocativo. In
realtà io non credo, a differenza di quanto scrive Vitagliano, che in
questa poesia "l'architettura finale del verso [sia] la scena" a
beneficio dello "stupore del lettore-spettatore, il quale legge e allo
stesso tempo guarda e ascolta". Non credo che funzioni esattamente così,
se non altro per il banalissimo fatto che il lettore, a differenza
dello spettatore, ha un potere reale e attivo sul testo, di
rileggerselo, di interpretarlo come vuole secondo le proprie inferenze.
D'altra parte, premette Vitagliano, "non c’è oggetto, né soggetto che
ingombri la scena". Tranne forse i versi che il lettore, comunque, è
chiamato ad interpretare, tanto più allora se la scena, davvero, è
spopolata.
Se quindi, ripeto, è possibile rinvenire in singoli testi di Barbieri
segni di una capacità di poetare, soprattutto quando - invece - soggetti
e oggetti appaiono sulla scena, sono d'accordo col prefatore quando
scrive che "il cammino di “reductio ad unicum” intrapreso da Barbieri è
stilisticamente agli inizi. Ci sono parti ancora disomogenee che
richiedono uno scavo più coraggioso, per poter giungere ad un approdo
poeticamente maturo". E per quanto sia giusto riconoscere a Barbieri una
sua etica della poesia, una sua "onestà", mi pare arduo dire che questo
valore, di per sé e da solo, possa produrre una poesia "già completa,
compatta e solida come una noce, perfettamente centrata tra spazio e
tempo, in equilibrio stabile tra memoria privata e collettiva, realtà e
metafisica, natura e libertà". Ma non resta che lasciar fare al tempo e a
Barbieri, naturalmente. (g.c.)