Pubblico qui la seconda parte delle riflessioni, non solo semiologiche ma anche linguistiche e filosofiche che Roland Barthes dedicò all’haiku nel suo noto libro “L’impero dei segni”. La prima parte è stata pubblicata qui
L'ESENZIONE DEL SENSO
Lo zen, nella sua completezza intraprende battaglie contro ogni prevaricazione del senso. È noto che il buddismo elude la via fatale di ogni asserzione (o di ogni negazione), raccomandando di non esser mai preda delle quattro proposizioni seguenti: questo è A,- questo non è A, - questo è ad un tempo A e non-A, — questo non è né A né non-A. Ora, questa quadruplice possibilità corrisponde al paradigma perfetto, quale l'ha creato la linguistica strutturale (A, - non-A, — né A né non-A [grado zero], A e non-A [grado complesso]); in altre parole, la via buddista è esattamente quella del senso ostruito: l'arcano stesso del significare, cioè il paradigma, è reso impossibile. Quando il sesto Patriarca da le sue istruzioni che riguardano il mondo, esercizio della domanda-risposta per meglio sconvolgere il funzionamento paradigmatico, raccomanda, qualora venga proposto un termine, di portarsi verso il suo termine opposto («Se, nel porvi domande, qualcuno vi interroga sull'essere, rispondetegli con il non-essere. Se vi interroga sul non-essere, parlategli dell'essere. Se vi fa domande sull'uomo comune, rispondetegli parlandogli del saggio, eccetera»), in modo da far apparire il ridicolo connesso allo scatto paradigmatico e al carattere meccanico del senso. Ciò che viene mirato (con una tecnica mentale la cui precisione, la pazienza, il raffinamento e la saggezza attestano sino a qual punto il pensiero orientale ritiene difficile la perenzione del senso), ciò che viene colpito è il fondamento del segno, cioè la classificazione (maya): costretto alla classificazione per eccellenza, quella del linguaggio, lo haiku opera però in previsione d'ottenere un linguaggio piatto, che nulla (come avviene immancabilmente con la nostra poesia) collochi su degli strati sovrapposti di senso, ciò che potremmo chiamare una «sfoglia» di simboli. Quando ci vien detto che fu il rumore della rana a risvegliare Bashò alla verità dello zen (anche se questo è un modo ancora troppo occidentale di parlare), si può intendere che Bashò scopri in questo rumore, non certo il motivo di un'«Ìlluminazione», di un'iperestesia simbolica, ma piuttosto la fine del linguaggio; c'è un momento in cui il linguaggio vien meno (momento ottenuto con grande sforzo d'esercizi) ed è proprio questa cesura senza eco che costituisce ad un tempo la verità dello zen e la forma, breve e vuota, dello haiku.
Il rifiuto dello «sviluppo» è qui decisivo, perché non si tratta d'arrestare il linguaggio su un silenzio carico, pieno, profondo, mistico, oppure su un vuoto dell'anima che si disporrebbe alla comunicazione divina (lo zen è senza Dio); ciò che viene enunciato non deve svilupparsi né nel discorso né nell'assenza del discorso; ciò che è enunciato è opaco e tutto ciò che si può fare è ripeterlo; è ciò che si raccomanda all'apprendista che elabora un koan (cioè un aneddoto che gli viene proposto dal maestro): non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso), ma di rimasticarlo, «sino a che casca il dente». Tutto il pensiero zen, di cui lo haikuai non è che l'aspetto letterario, appare cosi come una immensa pratica votata a sospendere il linguaggio, a rompere questa sorta di radiofonia interiore che risuona continuamente in noi, sin dentro il nostro sonno (forse è proprio per questo che s'impedisce agli apprendisti di addormentarsi), una pratica votata insomma a svuotare, a sconcertare, a prosciugare il chiacchiericcio irrefrenabile dell'anima: e può darsi che ciò che, nello zen, si chiama il satori e che gli occidentali non possono tradurre che con termini vagamente cristiani {illuminazione, rivelazione, intuizione) non sia altro che una sospensione panica di linguaggio, il bianco che cancella in noi il regno dei Codici, la rottura di questa recita interiore che costituisce la nostra persona; ora, se questo stato dì a-linguaggio è una liberazione, forse è proprio perché, per l'esperienza buddista, la proliferazione del pensiero alla seconda (il pensiero del pensiero) o, se si preferisce, il supplemento infinito degli innumerevoli significati — cerchio di cui è depositario e modello il linguaggio stesso - tutto ciò è ritenuto un vincolo; mentre invece, è l'abolizione del pensiero alla seconda che rompe l'infinito vizioso del linguaggio. In tutte queste esperienze, cosi sembra, non si tratta di annientare il linguaggio sotto il silenzio mistico dell’'ineffabile, ma di misurarlo, d'arrestare la trottola verbale che coinvolge nel suo moto rotatorio il gioco ossessivo delle sostituzioni simboliche. Insomma, è il simbolo come operazione semantica che viene combattuto.
Nello haiku la parsimonia di linguaggio è oggetto d'una cura che a noi pare inconcepibile, perché non si tratta tanto di essere concisi (cioè di restringere il significante senza diminuire l'intensità del significato), quanto, al contrario, di agire sulle radici stesse del senso, per ottenere che questo senso non si diffonda, non si interiorizzi, non si faccia implicito, non si liberi, non vaghi nell'infinito della metafora, nella sfera del simbolo. La brevità dello haiku non è formale: lo haiku non è un pensiero ricco ridotto ad una forma breve, ma un evento breve che trova tutt'a un tratto la sua forma esatta. La parsimonia di linguaggio è ciò in cui l'occidentale si rivela meno abile: non è tanto ch'esso produca testi troppo lunghi о troppo brevi, ma tutta la sua retorica gl'impone il dovere di rendere sproporzionato il significato e il significante, sia «diluendo» il secondo sotto i flutti loquaci del primo, sia «approfondendo» la forma verso le regioni implicite dei contenuto. L'esattezza dello haiku (che non è per nulla esatta pittura del reale, ma adeguamento del significante e del significato, soppressione dei bordi, delle sbavature e...degli interstizi che d'abitudine eccedono e frastagliano il rapporto semantico), questa esattezza ha evidentemente qualcosa di musicale (musica di significati, non necessariamente di suoni): lo haiku ha la purezza, la sfericità e il vuoto stesso d'una nota musicale. Forse è per questo che si ripete due volte, come un'eco: non dire che una volta sola questa parola squisita, significherebbe attribuire un senso alla sorpresa, allo spunto, alla repentinità della perfezione; ripeterla più volte, sarebbe suggerire che il senso deve essere svelato, cioè simulare la profondità; tra le due possibilità, né singolare né profondo, l'eco non fa che porre un rigo sotto la nullità del senso. (2 – continua)
pur non essendo un esperto ma semplice fruitore ho sempre percepito questa forma poetica quale NOTA MUSICALE, ma converge, forse, sulla mia ricerca sulle sinestesie in arte in senso lato? i miei complimenti giacomo per acutezza critica e grande intelligenza nel saper porre problematiche raffinatissime..