Lunedì, 4 maggio 2009
Ecco qua l'ultima parte (se non erro) del mini saggio dedicato da Roland Barthes alla poetica dell'haiku e alle questioni di senso e significato correlate, pubblicato nel suo noto libro "L'impero dei segni". Le precedenti "puntate" le trovate qui
TALE
Il lavorio dello haiku consiste nel fatto che l'esenzione del senso si compie attraverso un discorso perfettamente leggibile (contraddizione negata all'arte occidentale, che non sa contestare il senso che rendendo incomprensibile il proprio discorso), di modo che lo haiku non si rivela ai nostri occhi né eccentrico né famigliare: assomiglia a tutto e a nulla. Leggibile, lo riteniamo semplice, prossimo, conosciuto, gustoso, delicato, «poetico», in una parola offerto a tutto un gioco di aggettivi rassicuranti; insignificante, però, esso ci resiste, sfugge alla fin fine gli aggettivi che un momento prima gli avevamo attribuito ed entra in quella sospensione di senso che ci risulta cosa inattesa, perché rende impossibile l'esercizio più corrente della nostra parola, che è il commento. Che cosa dire di questo haiku?
Brezza primaverile
II battelliere mastica
la sua pipa;
oppure di questo:
Luna piena
E sulle stuoie
L'ombra di un pino;
o ancora:
Nella casa del pescatore
L'odore del pesce secco
E il calore;
o ancora (e non infine, perché gli esempi potrebbero essere innumerevoli):
Soffia il vento d'inverno
Mandano lampi
Gli occhi dei gatti.
Tali tratti (questo termine si confa allo haiku, sorta di leggera cicatrice tracciata nel tempo) instaurano ciò che si è potuto chiamare «la visione senza commento». Questa visione (il termine è ancora troppo occidentale) è alla fine intieramente restrittiva; ciò che è abolito non è il senso, ma qualsiasi idea di finalità: lo haiku non serve a nessuno degli «usi» (essi stessi pur tuttavia gratuiti) concessi alla letteratura: insignificante (a causa di una tecnica di arresto del senso) come potrebbe istruire, esprimere, distrarre? Allo stesso modo, mentre certe scuole di zen concepiscono la meditazione seduta come una pratica destinata al conseguimento della buddità, altre rifiutano persino questa finalità (pure apparentemente essenziale): è necessario stare seduti «soltanto per stare seduti». Non è del resto lo haiku (come gli altri innumerevoli gesti grafici che segnano la vita giapponese più moderna, più sociale), non è scritto «soltanto per scrivere»?
Ciò che sparisce nello haiku, sono le due funzioni fondamentali della nostra scrittura classica (millenaria): da una parte la descrizione (la pipetta del battelliere, l'ombra del pino, l'odore del pesce, il vento d'inverno, non sono descritti, cioè ornati di significati, di ammaestramenti, impegnati a titolo d'indizi nello svelamento di una verità o di un sentimento: il senso è negato al reale; meglio ancora: il reale non dispone più del senso stesso del reale); d'altro lato sparisce la definizione. Non soltanto la definizione si trasferisce al gesto, sìa pure grafico, ma ancor di più essa è lasciata andare alla deriva verso una sorta dì efflorescenza inessenziale, eccentrica dell'oggetto, come suggerisce bene un aneddoto zen, in cui si vede il maestro conferire il premio di definizione (che cos'è un ventaglio) non tanto all'illustrazione muta, puramente gestuale, della funzione (spiegare il ventaglio) ma all'invenzione di una catena di azioni aberranti (richiudere il ventaglio, grattarsi il collo, riaprirlo, posarci sopra un dolce e offrirlo al maestro). Non descrivendolo né definendolo, lo haiku (potrei ormai chiamare in questo modo ogni tratto discontinuo, ogni accadimento della vita giapponese, cosi come mi si offre alla lettura) si assottiglia sino alla pura e semplice enunciazione. È questo, è così — dice lo haiku — è tale. O meglio ancora: tale!, dice, con un tocco cosi istantaneo e così breve (senza oscillazioni né riprese) che perfino la copula ci pare di troppo, come il rimorso di una definizione proibita, per sempre allontanata. Il senso non è che un flash, un graffio di luce: « When the light of sense goes out, but with a flash that has revealed thè invisible world», scriveva Shakespeare, ma il flash dello haiku non rischiara, non rivela nulla; è come quello di una fotografia che si scatta con molta cura (appunto alla giapponese) ma avendo omesso di caricare l'apparecchio con l'apposita pellicola. O ancora: lo haiku (il tratto) riproduce il gesto indicatore del bambino piccolo che mostra col dito qualsiasi cosa (lo haiku non fa questione di distinzione di soggetto) dicendo soltanto: quello! con un movimento cosi immediato (cioè cosi privo di ogni mediazione: quella del sapere, del nome o anche del possesso), che ciò che viene indicato rappresenta l'inutilità stessa di ogni classificazione dell'oggetto: nulla di speciale, afferma lo haiku conformemente allo spirito zen: l'evento non è classificabile secondo alcuna specie, la sua eccezionalità non approda a nulla; come un ricciolo grazioso, lo haiku s'arrotola su se stesso; la scia del segno che sembra sia stata tracciata, si cancella: nulla è stato acquisito, la pietra della parola è stata gettata inutilmente: non ci sono né onde né colate di senso. (4 - fine)
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