Che cosa pensano i poeti quando non pensano alla poesia? Bè, non hanno la testa tra le nuvole, come crede la gente. Se sono intellettuali non organici, anzi decisamente rompiscatole, quasi sicuramente pensano ai perchè e ai come ci siamo ritrovati in certe situazioni, alla necessità di combattere una lotta di resistenza in difesa della cultura. Al perchè ad esempio la nostra capacità critica è stata progressivamente e artatamente ridotta ai minimi termini, procurando una vera mutazione antropologica, una reale perdita di realtà (mi si passi il bisticcio). E' ciò di cui parla in questo breve saggio Bernard Noël, uno dei poeti francesi più noti e impegnati, di cui IE ha a suo tempo pubblicato qualcosa (v. qui). Anche se risale al 2006, come si nota da qualche riferimento alla cronaca francese del tempo, esso mantiene tutta la sua drammatica attualità ed è un buon esempio di letteratura applicata che non rinuncia a gettare uno sguardo critico sull'esistente. Il testo è tratto dal sito progettogeum.org di Lino Cannizzaro, che ringrazio. La traduzione è di Viviane Ciampi.
Stanchezza
e rivolta, in realtà rabbia contro la stanchezza quando la rivolta dà segni di
stanchezza. Il potere ha trovato la maniera sommessa di occupare in noi i
luoghi della difesa e anche di consumare la nostra energia. Senza ragione
arriva una debolezza, che d’improvviso è cosciente solo per caso. S’indovina
allora che il vecchio sogno tirannico si sta realizzando: quello di una
sudditanza senza costrizione apparente in grado di produrre l’effetto d’un abbandono.
Ma a che invasione abbiamo ceduto per arrivare fino a questo punto? Da
parecchio tempo, per spiegare questo fenomeno, ho fabbricato la parola sensura
per esprimere la privazione di senso. E forse questa perdita provocava una
perdita critica favorevole alla sottomissione senza tuttavia addirittura
instaurarla. Le creava appena uno spazio adatto. A meno che prolungandosi, la
privazione di senso non trascini una debilitazione tanto più efficace che per
le sue vittime,non è più che
un’abitudine legata ad una forma di consumo diventata naturale. Così la
suddetta privazione avrebbe sul senso l’effetto che giustamente hanno su di lui
le droghe che intaccano le nostre facoltà intellettuali, a parte il fatto che
nessuno si sogna di fare il raffronto tanto parrebbe strampalato. Il problema è
che non si sa come definire con precisione le cause di danni che non sono
provati come tali, tanto che questa non percezione fa parte delle loro
caratteristiche.
Il principale agente della privazione di
senso è oggi la televisione. Lo è direttamente attraverso l’ascolto
considerevole di cui gode, lo è anche per via dei comportamenti che induce
nella politica, nell’economia, nel tempo libero. L’ascolto è considerevole
poiché non esige nessun altro sforzo che quello di sedersi davanti al
televisore, di guardare, di ascoltare. Mai nella storia, era esistito un mezzo
d’informazione o di cultura così facilmente adatto per il consumo. Questa
facilità, ovviamente è significativa in quanto insorge in opposizione alla morale
elementare la quale assicura che nulla si dovrebbe ottenere senza sforzo.
Oramai, ad ogni ora e senza la minima fatica, il telespettatoreottiene notizie, distrazioni, documentari.
Gli basta mettersi in situazione di passività e lasciarsi penetrare da ciò che
vede. Tutto gli è dato sotto forma d’una parata d’immagini parlanti che sfilano
tanto nel suo spazio mentale quanto davanti agli occhi per il motivo che spazio
visuale e spazio mentale sono costantemente legati. Si può già ragionevolmente
inferire che questo legame non può risultare neutro e che la
compenetrazione della sfilata, giorno dopo giorno, attraverso gli occhi porta
alla pigrizia di poter formare, ciascuno per sé rappresentazioni mentali
personali, dunque di senso.
Le immagini televisive sono d’altronde il
più delle volte immagini stereotipate in qualsiasi campo.Di conseguenza invitano a formarsi un sistema
di rappresentazione a loro stessa somiglianza. Ne deriva uno spossamento
dell’originalità a vantaggio d’una specie d’immaginario consensuale composto di
tutti gli identici elementi formattati dalla visione delle stesse trasmissioni.
Era considerato di buon gusto trovare eccessivo questo tipo di analisi ma il
direttore di TF1¹ li ha recentemente fatti apparire moderati assicurando (ne
riparlerò in seguito) che il suo ruolo era di “fabbricare cervelli disponibili”
e dunque principalmente spalancati alle seduzioni della pubblicità.
Tanto vale sapere che la privazione di
senso è cinicamente pianificata: ciò evita di doverlo dimostrare e dà modo
d’interrogarsi su una perdita che, al di là del senso, ha a che fare con la
vitalità. Sembra piuttosto normale che il funzionamento del pensiero sia
compromesso da una sfilata d’immagini insignificanti che si sostituisce al suo
movimento naturale, ma l’effetto debilitante di tale sostituzione va parecchio
oltre. Sarà perché il tempo trascorso a fare qualcosa implica l’impegno di una
stilla eguale della nostra vita? Sarà perché, di conseguenza, la stilla di vita
spesa a lasciarsi assorbire dall’irrilevanza è in fin dei conti una spesa
mortale? Così si sta sempre più estrinsecando il sentimento che non si tocca lo
spazio mentale senza toccare il corpo.E
che il corpo in questa faccenda rimane gravemente colpito.
Forse in altri tempi si sarebbe parlato
solo di tempo perduto a proposito di tempo passato davanti allo schermo
della televisione ma quando il tempo perduto diventa un’abitudine quotidiana,
cambia ovviamente natura. I Francesi, dicono le statistiche, passano in media
quattro ore al giorno davanti al televisore, cioè un buon quarto della loro
vita da svegli. Regalare una parte così consistente all’irrilevanza non può
avvenire senza danni per il senso poiché l’attività mentale da cui dipende è
sostituita da una successione d’immagini, il che è una cura d’irrealtà e di
conformismo.
Questa
irrealtà è invadente perché non si limita allo spettacolo guardato
nell’intimità: essa plasma a poco a poco tutto l’ambiente perché deve
assomigliare alle immagini se vuole convincere (quando si tratta del mondo
politico), se vuol piacere (quando si tratta di prodotti e di oggetti), se vuol
sedurre (quando si tratta di relazioni). Tutto ciò agisce per contaminazione,
poiché l’invito che ci viene spedito dalle immagini rientra nel campo della
fascinazione e non della riflessione. Questo procedimento corrisponde a quello
del consumo laddove l’imballaggio conta assai più del contenuto e quest’ultimo
può rimanere identico e suscitare un desiderio nuovo a patto che cambi
apparenza.
In questo gioco delle immagini,
l’apparenza è la principale mercanzia: fa in modo che si compri il nulla, ma fa
anche aderire al nulla lo spettacolo politico oppure fa amare il nulla delle
posture sentimentali o erotiche. La felicità è un’immagine e lo stesso avvenire
ne è un’altra. La realtà è ormai in sovrappiù. Essa si oblia nello stesso
sguardo che portiamo su di essa poiché lo sguardo preleva su di essa una
somiglianza che a noi è sufficiente. Il corpo è trattato allo stesso modo, però
dall’interno, poiché è il suo interno che per prima cosa funge da spazio allo
spettacolo, a dir vero meno da spazio che da canale e addirittura da
sfioratore. Le immagini vi ci colano senza essere assimilate. Sono indifferenti
a chi le riceve: penetrano e passano. Conta soltanto il loro movimento e che
quest’ultimo sia passante. Il loro senso non è che una direzione, una
progressione, che cancella man mano ciò che fa progredire nel corpo trattato
come un semplice tubo di ricezione e di scarico. E questo tubo ha per orifizio
il cervello: un cervello reso infatti disponibile grazie al movimento e che non
trattiene nulla tranne i messaggi nei quali i pubblicitari condensano un po’ di
senso.
Questo senso è, beninteso, servile: non
mira a rischiarare e meno ancora a nutrire il pensiero, ha solo lo scopo di
fare consumare questo o quello, esso stesso altro non è che un prodotto
inserito in un imballaggio denominato “spot” o “flash”. Ma il senso dei
telegiornali o delle trasmissioni politiche non è meno servile di quello della
pubblicità la quale serve loro da modello. Tranne rarissime eccezioni, non si
tratta d’informare bensìdi far
consumare una visione consensuale dell’attualità o di tale personaggio, tale
partito, tale avvenimento. Il procedimento del consumo guida tutti i discorsi:
sta modellando l’educazione e la cultura.
Questa situazione s’avvera rovinosa poiché
il consumatore non è considerato come un cittadino responsabile delle sue
scelte, neppure come un compratore in grado di ragionare: si cerca soltanto di
sviluppare in lui una servilità che disarma la sua coscienza e la sua
resistenza davanti ad un prodotto o un individuo che porta la maschera di
un’immagine seducente. In realtà, l’installazione della servilità è cominciata
quando lo spettacolo, invece di sollecitare la partecipazione dello spettatore,
lo ha ridotto alla passività. Uno spettatore passivo è un tubo senza filtro,
che non riflette e non digerisce e ciò lo rende capace d’assorbire a getto
continuo. Questo spettatore in grado d’ingollare senza ritegno è il prototipo del
consumatore perfetto, colui che, secondo ignobili manifesti posti a bella
mostra in questi giorni, ubbidirebbe al dovere d’acquisto.
Va da sé che non si può trattare il vostro
corpo come un semplice organo d’assorbimento buono solo a ingozzarsi d’immagini
senza essere disprezzato. Questo corpo sfruttato sia nella sua esistenza
corporale sia nella sua esistenza psichica non è più che una sorta di buco
organico innestato su di voi per parassitare il vivente e trasformarlo in
consumatore servile di ciò che gli si fa trangugiare. Il consumatore, in un
certo senso, si prostituisce al consumo… Forse questa descrizione potrà
apparire caricaturale: non è che una semplificazione per mettere in risalto
l’evidenza. D’altronde, c’è di peggio in questa situazione, basti accorgersi
che la privazione di senso legata al consumo passivo porta ad un ingozzamento
tramite il vuoto e colloca questo medesimo vuoto (questo nulla) nella
collettività degli spettatori.
L’invenzione geniale del sistema mediatico
consiste nel riempirci con l’apparenza, in altre parole di occuparci col nulla.
Ne consegue uno strano successo se si pensa che nel corso della storia tutte le
collettività trovavano il loro senso nella condivisione di pensieri
sufficientemente forti da far sì che ogni individuo si unisse al corpo sociale
(o mistico) col sentimento di realizzarsi dentro di esso. Il miglior esempio è
fornito dalle religioni, che avevano la preoccupazione di procurare ai loro
fedeli una vita spirituale sorretta da ritisoddisfacenti per il loro appetito di senso. I regimi totalitari hanno
imposto delle ideologie che avrebbero dovuto funzionare alla maniera delle
religioni esaltando la condivisione di un pensiero comune. Il loro timore che
l’esercizio del pensiero conduca alla contestazione ha velocemente irrigidito
l’ideologia nello stereotipo e l’illusione debilitante.
La strana
apoteosi della società mediatica è data dal produrre pensiero unico senza nulla
offrire da pensare.Ciò è possibile
grazie all’occupazione dello spazio mentale con un défilé che mima il
movimento del pensiero. Creare una condivisione dando da dividere solo il vuoto
è forse l’operazione più redditizia del regno dell’economia. E che non smette
di perfezionarsi poiché ora si sradicano le sfumature in favore delle opinioni
binarie, quelle che accettano solamente il sì o il no.
La più grande costante nel comportamento
umano è la tendenza al servilismo. In ogni epoca, la maggioranza è stata
oppressa da una minoranza, e ha potuto esserlo solo con l’unanime consenso.
Certo, vi sono state insurrezioni, sommosse, rivolte ed anche rivoluzioni,
eppure l’oppressione è sempre stata ristabilita. E generalmente dalla violenza stessa dei
liberatori il cui contropotere riprendeva i mezzi del potere: istituzioni,
esercito, polizia, tutto ciò che simboleggiava appunto, le cose da abbattere
per sovvertire l’ordine sociale. Tuttavia, divenuta mediatica, la nostra
società autorizza a sognare un potere che, senza nulla smarrire della sua
natura oppressiva, decide di rinunziare alla violenza giacché non è più
indispensabile alla dominazione. Infatti, non è più necessario opprimere con la
forza per sottomettere dato che è sufficiente occupare gli occhi per tenere la
testa e, con essa, il luogo dell’eventuale contestazione. I nuclei di potere
dei vecchi regimis’impegnavano a proibire, censurare, controllare senza
riuscire a reprimere il luogo del pensiero che avrebbe sempre potuto essere in
grado di remare contro di loro. Il potere attuale può occupare questo luogo del
pensiero senza avvalersi della minima costrizione: gli è sufficiente lasciar
agire la privazione di senso. Così, privato di senso, l’uomo scivola del tutto
natu-ralmente nell’accettazione servile.
I mezzi di resistenza sono tributari del
fatto che, per resistere, bisogna aver la consapevolezza di essere oppressi o
vittime, e che è difficile sviluppare questa coscienza quando, ad essere
oppressori di noi medesimi siamo nientemeno che noi medesimi. Al di fuori di
noi stessi non c’è nessun altro per servire da agente alla privazione di senso:
questa posizione rende difficile la presa di coscienza dell’ampiezza dei danni.
Talvolta, ci si lamenterà del tempo troppo a lungo passato davanti allo schermo
televisivo, talvolta si beffeggerà la stupidaggine di un programma pur avendola
sopportata, o ci si vanterà di smanettare col telecomando per un consapevole
zapping, ma tutte queste recriminazioni non vanno molto più in là e soprattutto
non prendono in considerazione il vero problema, cioè l’occupazione opprimente
attraverso il flusso delle immagini. Ma il peggio è che un buon programma
occupa lo stesso spazio mentale di uno pessimo…
La società degli spettatori è anch’essa a
due velocità, e si vede bene che la concorrenza tra le reti e la preoccupazione
dell’Audimat² non vanno nel senso della qualità. L’unica preoccupazione è di
sedurre il più possibile affinché un Audimat favorevole valorizzi al massimo il
minuto di pubblicità. Questo ideale esige che il telespet-tatore sia
trattato, non da utente ma da cliente come sembrerebbe normale, ma mira a
renderlo docile ai messaggi pubblicitari o altri. È lo scopo che si propone
apertamente la rete più popolare, e ciò significa che il suo pubblico, ossia
circa la metà dei telespettatori francesi sarà manipolata a seconda dei suoi
interessi allorché questi saranno convinti di distrarsi o di informarsi.
Questo raggiro che passa attraverso un
falso, serve a creare un ascolto per venderlo subito agli inserzionisti. Il
pubblico è una mandria e se ne contano i capi per sapere quale ne è la quantità
al fine di venderla ai maneggioni della pubblicità. Monsieur Patrick Le Lay,
presidente di TF1, si è espresso su questo problema con un cinismo che ha il
merito di mettere finalmente le cose in chiaro: “[…] il mestiere di TF1 è di
aiutare Coca-Cola, per esempio, a vendere il suo prodotto. Tuttavia, affinché
un messaggio pubblicitario sia percepito, bisogna che il cervello del
telespettatore sia disponibile. Le nostre trasmissioni debbono per vocazione
rendere il cervello disponibile: cioè divertirlo, rilassarlo perprepararlo tra i due messaggi. Ciò che
vendiamo a Coca-Cola, è tempo di cervello umano disponibile…”
Monsieur Le Lay non precisa che cosa sia
“un cervello umano disponibile” tanto questo stato deve sembragli evidentemente
scontato, così come dà per evidentemente scontata la capacità della televisione
a produrlo. Questa certezza è un modo implicito per ricordarci che la
televisione è appunto il mezzo più rapido e più efficace per svuotare il
cervello affinché egli riceva un messaggio come se lo pensasse. Per
inciso, Monsieur Le Lay indica più avanti una ragione di questa efficacia: “La
televisione è una attività senza memoria”. In altre parole la disponibilità non
trae nessuna lezione da ciò che registra per un attimo e di conseguenza rimane
non logorabile.
L’ironia –
ma nei confronti di chi? – vorrebbe che qui ci ricordassimo che al momento
della privatizzazione di TF1 nel 1987, Monsieur Bouygues³ parlò del meglio
delculturale per vincere la concorrenza e appropriarsi della rete.
Questo culturale si è trasformato in arte di rendere il cervello umano
disponibile, arte che fin qui nessun regime totalitario aveva saputo praticare
con tale successo. Questa riuscita maschera la sua efficacia dietro un
commercio che sembra riguardare soltanto i prodotti di consumo, perché non
sarebbe probabilmente produttivo per Monsieur Le Lay spiegare che la sua rete
ha per vocazione di rendere il nostro cervello disponibile – per esempio
– alle idee di Monsieur Sarkozy*. Soprattutto non si deve preavvertire la
mandria umana del compratore al quale si sta per cederlo se si vuole poterlo
consegnare in blocco e senza problemi.
Si sarà capito che la disponibilità con la
quale opera Monsieur Le Lay, con un pragmatismo ammirato da tutti gli imprenditori
non è che una metamorfosi del vecchio servilismo. La società di consumo ha
bisogno di questo servilismo per farci credere che le nostre scelte sono dovute
solo a una informazione libera, oggettiva e disinteressata.
Traduzione
di Viviane Ciampi
¹ Prima
rete televisiva francese
² Rileva
gli indici d’ascolto televisivi
³ Maggior
azionista della prima rete televisiva francese TF1
* Il
ministro dell’interno francese (nel giugno 2006)