Venerdì, 16 settembre 2016
Francesco Iannone - Pietra lavica - Nino Aragno Editore, 2016
Abbiamo già incontrato Francesco Iannone su questo blog, in una nota che scrissi in occasione dell'uscita per Ladolfi del suo "Poesie della fame e della
sete" (v.
QUI
). Rimando volentieri a quella piccola nota perché mi pare che molte delle cose che allora sottolineai sinteticamente siano in sostanza rimaste lì, pur con
qualche evoluzione soprattutto sul terreno della scrittura. Dico subito che qualsiasi cosa scriva Iannone la scrive bene (e infatti riceve consensi), ha inventiva linguistica, ha
una perfetta padronanza sul come dire quello che vuole dire, in che tonalità eseguire la sua musica, su questo non c'è dubbio, con un certo coraggio e con
poche riserve mentali, poche soggezioni, stilistiche, concettuali o "correntizie" che siano. E', da questo punto di vista, un autore privo di dubbi e
insieme una tabula rasa, come se nessuna eco di esperienza poetiche precedenti alla sua emergesse, anche se certamente ve ne sono (a partire certo dal
Pascoli "fanciullino") ma senza - apparentemente - nessuna tradizione da difendere. In tutto ciò sta un certo fascino, diciamo anche questo, una purezza
che certo è anche "religiosa", assumendo il termine in senso ampio, ma è comunque fideistica, di una immensa fede nella vita, nell'uomo e nella natura, di
una francescana disposizione ad ascoltare i segnali che provengono dal mondo sensibile, da una realtà visibile e invisibile, un mondo che però, come
scrissi, sembra appena creato. Segnali che raramente sono problematici, fenomeni che difficilmente appaiono indecifrabili o incombenti (come in Leopardi,
ad esempio) perché con ogni evidenza sono lì come dono o forse perché nella visione dell'autore, fresca e confidente, sono ancora incontaminati, e come
sospesi fuori della Storia. Se gli uccelli e tutte le altre cose che lo sguardo di Iannone prende in considerazione sono correlativi oggettivi lo sono di
uno stare al mondo, di un essere parte ("altissimi testimoni del mistero") di una creazione superiore della cui logica anche gli affetti, i sentimenti, le
relazioni sono espressione. Ma senza particolari intendimenti metaforici o simbolici, pur essendoci in questi testi molto del simbolismo e pure una certa
vena metafisica. C'è in questi versi un'umanità indefessa, "originale", ancora capace di una qualche innocenza, insomma "denudata" e "primitiva" (sia detto
senza accezione negativa), naive. A volte mi appare come un Rebora un po' più laico, spogliato da tutte le angosce, ma più portato a costruire
piccole parabole, spesso assertive. Quel che sorprende di più, in fondo, che disarma, è questa sensazione antica, prenovecentesca, anzi volterriana da
"migliore dei mondi possibili", nel quale l'autore non sta dalla parte di Voltaire, perché non prende in considerazione il cataclisma, l'evento critico, il
male che alberga il mondo. I punti in cui c'è maggiore frizione, un maggior salto di potenziale poetico, un pacato tono di angustia malinconica che infine
emerge sono in effetti le poesie (generalmente belle, come l'ultima qui presente) dedicate all'amore, al sentimento che in qualsivoglia mondo possibile è meno gestibile, perché non si
lascia semplicemente osservare come una zolla o un uccello.
Iannone, tra i molti che ho letto, è comunque singolare, pur essendo diciamo un lirico puro (anzi "euforico", come scrive Giovanna Rosadini nella
postfazione), e insieme un esponente di quella "identità sfilacciata e solitaria , debole e poco battagliera, una potenziale 'nuova generazione in ombra' "
che Matteo Fantuzzi aveva acutamente individuato nella sua antologia "La generazione entrante" ove lo stesso Iannone appariva (come rammenta Giovanna
Rosadini). Singolare per stile, certo, ma soprattutto per la sua visione "fanciullesca" (parola mia e di altri) che salta a pie' pari, ignorandola
bellamente, tutta la questione forse un po' abusata del chi e cosa siamo qui e ora, in questo mondo, nella complicata modernità, uno dei mondi
"impossibili" da decifrare, in cui l'uomo - certo colpevolmente - è sempre meno il destinatario "centrico" del dono di Dio e sempre più un prodotto. E lo
fa convinto com'è, sono parole sue, che "tutto è alla portata della mia comprensione". Aspettiamo con curiosità il terzo libro. (g. cerrai)
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Giovedì, 3 gennaio 2013
Valeria Rossella - La città di Kitež - Nino Aragno Editore, 2012
Kitež è una città mito. Al centro di una leggenda russa ripresa anche
da Rimskij-Korsakov in una delle sue opere, la città, di fronte alla
minaccia dell'invasione dei Tartari nel 1200, si inabissa nelle acque
del lago Svetlojar per rendersi invisibile, apparendo soltanto come
immagine speculare, raggiungibile solo forse con la fantasia, simbolo,
in questo libro di Valeria Rossella, anche di una
duplicità dell'esistenza, "luogo nascosto - come nota Giovanni Tesio
nella sua presentazione - del rovescio e del riflesso, luogo
inafferrabile e misterioso, che trasforma i morti in vivi,
nascondendoli nello specchio sfigurante del contrario".
Confine, quindi, osmosi di linguaggi, occasione per rimeditare la vita
da altre prospettive, come se si guardasse il cielo da sotto la
superficie dell'acqua.
Dei ricordi, dei rimpianti, del non detto, dei luoghi in cui avremmo
potuto essere, delle azioni non portate a termine, di questo è fatta
quasi sempre la poesia. Ciò che connota questo bel libro, il filo rosso
che lo attraversa in tutta la sua estensione, è il tentativo del poeta
di una continua ricostruzione del tempo lineare, un ritornare
sui propri passi che però non è comune seppur poetico recupero del
ricordo, bensì volontà di rinvenire in esso una svolta del pensiero, una
piega nascosta dei fatti, una curvatura dell'esperienza in cui anche la
cultura che sostiene Rossella ha una parte rilevante e feconda, essendo
insieme chiave di lettura del cammino inverso e innesco di epifanie
rivelatrici. L'altro filo rosso è l'amore, sia esso l'amore per l'arte e
la sua lingua sottile che troviamo nella sezione Ut pictura poesis
(ovvero, secondo Simonide, pittura come poesia che tace, poesia come
pittura che parla), o l'amore per il compianto marito, il poeta Fabio
Doplicher, nella commovente poesia estate, o triste. Inutile
negarsi che questo lavoro poetico di "afferramento", se vogliamo di
restauro del vissuto attraverso la scrittura (o la ri-scrittura), è per
sua natura (anzi per la nostra natura di esseri umani) carente,
parziale, latente direi come una lastra fotografica, e forse destinato
ad una onorevole sconfitta, come se ai nostri destini sovrintendessero
quelle "scimmie divine" che danno il titolo ad un'altra sezione del
libro, abitanti di un Olimpo ottuso e violento, forse un po' anarchico,
ancora più distante del Dio che crediamo di conoscere, qui quasi del
tutto assente come il proprietario di un triste albergo a cui tutti
siamo diretti. Il sentimento della morte ("la Camola del tempo") è
sempre in agguato in queste poesie, traspare da un quadro di Velasquez,
da "una ragazza [che] cuce / sotto la pergola tra foglie di vite", una
dissimulata Parca, da una delle "geografie" (è il titolo dell'ultima
sezione), luoghi fisici e dell'anima, spazi pieni di echi e di
inquietudini, posti in cui si è stati, si ritorna, si registra il
cambiamento.
Tuttavia su tutto spira quasi uno spirito stoico, controllato ma non
distaccato, temperato da un'ironia che a tratti emerge, che prende in
certi casi forme metriche ritmate e cantabili, per poi ritornare senza
timore verso toni elegiaci, soprattutto, ripeto ancora, quando il tema è
il ricordo del marito scomparso, come nella bella poesia Anzolo de sti loghi calmi, verdi, de aqua,
in cui il dialetto triestino (Rossella è torinese) è scelta di
adesione, è gesto poetico di estremo affetto. Ma quello che importa di
più in questo libro, a mio avviso, è la forte centralità del poeta
rispetto alla materia poetica che riesce a maneggiare senza che ne
debordi un io invasivo, rispetto ai confini tra passato e presente, a
questi bivi tra luce e ombra che si è messo a perlustrare concedendosi
pietà senza scivolare nel lamento né senza lasciarsi travolgere da
confessionalismi sentimentali.
Contribuisce a sostenere e condurre il libro anche una musica ariosa in
cui un ricco linguaggio si effonde in versi liberi, una musica che,
specie quando "suona" temi del tempo e del rimpianto, mi piace definire
leopardiana (con certi avvii talvolta, con certa scelta di termini che
mi fanno pensare ad altri poeti che amo molto, il Raboni de Le case della Vetra, il Giudici de La vita in versi,
Orelli, forse anche Fortini, Erba, e certo in questi versi si trova
molta della bella tradizione italiana e forse qualche traccia, in
ragione del lavoro di Rossella come traduttrice, della fede nella parola
della amata poesia polacca). (g.c.)
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