Venerdì, 10 maggio 2013
Pier Damiano Ori - Atti naturali - Carta Bianca, 2012
Certo ha ragione Alberto Bertoni quando scrive, a proposito di questo libro, di una medietas
intesa in senso assolutamente positivo, del lavoro morale di un
moralista (e anche qui scansando ogni sfumatura negativa del termine).
Lavoro di un uomo "comune" esercitato sulle cose e sugli uomini, a
partire da un "io" complessivamente impersonale, che duetta spesso con
un "tu" altrettanto impersonale, (penso per un etico appartarsi, per un
proclamarsi uguale tra gli ugual, per destino). Di uomini e cose,
potremmo titolare parafrasando Steinbeck. Uomini comuni o meno, da un
ignoto cavernicolo che scopriamo essere fondamentalmente uguale a noi,
fino a un personaggio storico come il conte Raimondo Montecuccoli, che
nella sezione "Quaderni del gelo" funge da protagonista e pretesto per
l'invenzione narrativa di una gelida giovinezza che forse è un modo per
parlare di sé. Cose o oggetti (e la differenza, direbbe Remo Bodei, è
sostanziale, e tutta affettiva), che non sono però totem o simboli,
semmai sono anch'essi manifestazioni del poeta, quasi come una quarta
persona singolare: una scarpa materializzazione di identità diverse,
quasi un'agnizione, un cappotto alter ego, contenitore/forma che è come
una copia "interamente in superficie" dell'io, l'ombra, insieme un
oggetto difficile da definire ed emblema delle cose che in fondo
rimangono inconoscibili, e forse ci irridono nel momento stesso in cui
ci danno da pensare. In breve, niente a mio avviso su cui poggiare una
correlazione, spingere il registro verso richiami emozionali o lirici.
Semmai - come accenna Bertoni - gli uomini e le cose sottolineano una
disillusione, cinica o pietosa che sia, danno atto "in sé" di un
dilemma, confermano uno sguardo preciso del poeta, mostrano anche,
credo, una delusione rispetto alle misteriose interrelazioni
tra noi e gli oggetti che abbiamo caricato di senso fin dalla
preistoria, le cose, a pensarci bene, non hanno più nemmeno lo status
della "roba" di verghiana memoria. E perciò sotto certi aspetti i testi
sono "nudi", evitano - per quanto "sapienzali", sempre secondo Bertoni -
la sentenza, di essere apodittici, conclusivi. Richiamano anzi con un
certo imperio alla rilettura immediata, non perché oscuri, ma al
contrario perché variamente suggestivi. E dunque gli atti naturali del titolo credo non siano altro - per ossimoro - che la perdita di un diritto naturale, di uno ius, che
questi testi tentano di registrare, ed insieme la consapevolezza che la
vita stessa è un intrico di eventi, oggetti o "minimi soprassalti
individuali" (Bertoni) che ne costituiscono l'intima natura. Lo stesso
corpo, la "cosa" in cui abitiamo noi e la nostra coscienza, diventa il
limite invalicabile di questo diritto, quando si inceppa, quando
scopriamo, somma delusione, che "è breve...è fragile, o forse anche
forte ma preparato per la morte", come sperimenta l'Enrico protagonista
della sezione "Giornate dell'uomo attento", alter ego ispirato
all'autore dall'Henry dei "Dreams songs" dell'amato John Berryman (There sat down, once, a thing on Henry’s heart / só heavy, if he had a hundred years / & more...)
Un libro interessante, dunque, di una scrittura matura e consapevole,
un libro difficile da ridurre in brani, come invece si fa ingiustamente
qui in un blog, e la cosa è per me un altro indice di qualità, di una
struttura saldamente intrecciata, di un pensiero tutt'altro che debole o
minimale. In effetti questo libro è una raccolta di serialità poetiche,
che andrebbero perciò lette in un necessario ordine. Ma è' stato
inevitabile tralasciare intere sezioni, perchè ogni estrapolazione di
testi sarebbe stata pari ad una perdita di senso, come nel caso ad
esempio della citata sezione "Quaderni del gelo". Tuttavia non ho
motivo di dubitare che la selezione qui pubblicata sia più che
sufficiente a farsi un'idea dell'indubbio valore del libro. (g.c.)
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Domenica, 6 febbraio 2011
Perchè il mondo è vedovo? Quando il mondo è vedovo? Nel libro (se nel
frattempo non soccorre la memoria) si rinviene un exergo della Rosselli
di Variazioni belliche (anche solo dagli exerga si potrebbe
costruire una piccola biblioteca ideale di Turroni). Certo: il mondo,
come ciascuno di noi, è vedovo quando manca l'altro, la compiutezza, la
realizzazione dell'identità; ma lo è anche quando il male, l'assassino,
il distruttore "cammina ancora" e questo mondo contemporaneo, è già, quasi preventivamente, vedovato dalla ingiustizia degli uomini.
Libro epico, questo di Paola Turroni, come giustamente nota Bertoni nella sua nota. Intanto per come dice, per il suo linguaggio, linguaggio semplice, "povero", quindi dei poveri.
Un linguaggio che supera agevolmente certi falsi problemi di poesia in
prosa e viceversa. Non c'è assolutamente niente di artefatto o ermetico
in questo linguaggio, niente di sperimentale. Niente di mimetico, no, è
proprio condivisione, emozione. La ricerca, assolutamente perseguita
perchè sostenuta da un'idea forte, è semmai centrata sulle modalità
espressive, sulle forme, sulla voce, sull'oggetto del dire, sulla comunicazione, intesa essa anche nel suo pieno valore etimologico. Se volete, anche se non ho particolare simpatia per il termine, è poesia civile (ma anche qui superando certi nostri localismi di genere). E' (e credo voglia essere) anche e più teatro, mise en scène,
rappresentazione di scenari tanto banali (nel senso harendtiano) quanto
drammaticamente e insensatamente ripetitivi (e non è un caso che la
guerra, protagonista principale, si svolga sempre - come banalmente si
suol dire - su un teatro). E naturalmente questa è guerra di
effetti collaterali, è querra residuale, la peggiore, quella fatta delle
mine lasciate indietro, è quella subìta, la guerra dei poveracci, il
motore di molte migrazioni, forse proprio quelle che si infrangono sui
nostri scogli. E' anche, naturalmente, la guerra di tutti i giorni,
la guerra della fame, della sopravvivenza pura, del futuro improbabile o
negato. E anche la guerra dell'ovunque, nei molti luoghi di questo
libro, luoghi non nominati, forse Tehran, forse Sarajevo, forse la
Palestina o la Cina, forse qualche baracca dietro casa nostra. Che
importa dove, è la globalizzazione della miseria o dell'espropriazione,
il non-luogo del dolore.
Lavoro meditato, architettonicamente robusto, il libro è organizzato in cori (che col pensiero rimandano alle attività performative di Turroni); direzioni di
una rosa dei venti insieme geopolitica e sentimentale al cui centro c'è
un occidente un pò attonito e un pò cinico ("speriamo che non scoppi la
guerra proprio adesso / ho l'aereo tra due giorni"); valichi,
che non sono solo luoghi fisici, ponti, sbarre, campi di raccolta, ma
anche confini dell'anima, ostacoli da saltare, frontiere dell'umano
disconosciuto; e un funerale, sigillo del libro
(ma non termine della Storia, quella ricorsiva e terribile), luogo
memoriale ("i morti sono vivi e ci raccontano / la frana della sera"),
lamentazione quasi classica affidata, come il resto della narrazione,
alle donne. Le donne (e i bambini) sono centrali in questo libro. Gli
uomini, sembra di capire, sono altrove. Forse a combattere, forse
emigrati, forse morti in qualche luogo, spesso dall'altra parte, quella
dei carnefici ("dall'altra parte i soldati - non gli uomini", cosa ben
diversa). Donne e bambini come voci individuali senza nome e come voce
collettiva di "un qualunque 'io' nostro contemporaneo e primomondista"
(Bertoni), espressa con un tono che è tanto più denunciante quanto più è
nella narrazione pacato (ma non rassegnato), quasi tolstoiano. ...Le
donne, i bambini, "metà di una parte strappata, voluta, voltata", ciò che resta quando il mondo è vedovo.
Paola Turroni - Il mondo è vedovo, ed. Carta Bianca, Bazzano 2010, collana Poesia contemporanea, nota critica di Alberto Bertoni
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