Venerdì, 8 ottobre 2010
La poesia di Gaetano Benčić lascia un retrogusto inconfondibile che dopo una prima lettura invoglia a recuperare quanto andato perso nel primo
assaggio. Ha un che di fiabesco, con quelle ombre e quei colori, saldamente piantato nella terra d'Istria, con i suoi paesaggi avvolti dalla bruma,
quando catturata dai crepuscoli o dalle albe sembra ripopolarsi di presenze ancestrali, quando tutto sembra possibile allorché il sogno varca la soglia
del reale presentandosi sotto sembianze inquietanti nella loro pudica ed aspra dolcezza. Nel loro fascino, insomma. Un indissolubile legame con la
natura vi traspare in controluce, evidenziando il lato essenziale delle cose, il nòcciolo pulsante dell'essere di un inquieto cuore (Il pavone sull’antenna). Osservatore e al contempo vivo e partecipe testimone, Benčić dà voce a questa esperienza inusuale ed irripetibile,
autentica e facilmente condivisibile dal lettore. Vivide le immagini che compongono la trama di questo mosaico onirico, dove l'io lirico sonda il vasto
mondo sommerso del proprio inconscio, teso a cogliere le più recondite sfumature entro delle coordinate spazio temporali dilatate, dove per mezzo di
una sintassi franta viene resa fedelmente l'atmosfera vissuta, sospesa in un attimo scabroso al limite quasi dell'afasia. Il percorso intrapreso è
impervio, come alcuni sentieri appena ravvisabili, dove la luce del giorno fatica ad entrarvi. Vasto il bestiario che popola questi versi, mentre
l'uomo è quasi assente, eccetto la voce in sordina del poeta, che più che parlare suggerisce offrendo spunti e indizi che affabulano il lettore. In
contrappunto ai versi appaiono i disegni di Ugo Maffi, a rappresentare quasi un libro nel libro, o meglio forse: una eco, un riverbero di luce e suoni,
di ombre e silenzi. Maffi sottolinea e traduce in altro linguaggio, interpreta ed accompagna il tutto ampliando a ventaglio il già ampio spettro
semantico dettato dai versi. Quasi una sintesi di quanto espresso da Benčić i disegni eterei di Maffi, sospesi tra sogno e premonizione, tra segreto
anelito e quieta accettazione del vivere. Una sinergia la loro, che ancora una volta conferma la radice comune a due diverse forme d'espressione
artistica; diverse sì, ma non per questo opposte: la poesia e la pittura.
Alessandro Salvi
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Mercoledì, 15 settembre 2010
Alessandro Salvi è un giovane poeta croato di lingua italiana con già un discreto curriculum all'attivo. I testi che seguono sono tratti da una silloge ancora inedita, a sua volta parte di un più ampio lavoro dal titolo ("provvisorio", secondo l'autore) di Questa follia barocca. Il "provvisorio" o il "transitorio" non sono affatto accidentali nella poetica di Salvi, riferendosi essi a uno "spleen" che qualcuno aveva già notato in lui, sopratutto riguardo all'altro suo lavoro Piovono formiche carnivore e altre inezie (alcuni testi qui). Già, spleen et ideal, per dirla con Baudelaire. Certo, non si vuole qui scomodare il grande francese, se non per un flebile riferimento (o meglio ancora, un mio pretestuoso richiamo) a certe correspondances (vedi più sotto "io vi parlo da questa", "la bianca quiete della neve innerva") e tableaux (v. "questo succo d'arancia qui sul tavolo") che si trovano nei testi di Salvi. In cui c'è sì un disagio per quanto spesso stemperato nell'ironia, ma anche una speranza di poter "adempiere al compito di viverli [i giorni] e, perché no? migliorarli", come dice in una poesia, in un ideal che appartiene ancora, com'è giusto che sia, alla giovinezza, a quell'epoca della vita in cui i giorni sono ancora "nostri". Il poeta, per quanto "ostaggio" (a volte del "divenire", a volte del "provvisorio"), non smette mai di vivere dentro le parole, infilandole in testi interessanti, fatti per lo più di un linguaggio semplice con cui talvolta riesce a sfuggire abilmente alle trappole del banale, anzi rendendo spesso i versi come "lucidati e tirati a secco dalla bora e dal sole", talaltra intesse versi in cui la resa non corrisponde del tutto all'idea, che forse un pò si perde. Ma certa discontinuità è di tutti i poeti, è inevitabile. La sostanza c'è, secondo me, e c'è competenza linguistica e una certa consapevolezza. Il provvisorio, questo provvisorio ancorato (questo sì che è un ossimoro) nel '900 che non vuole morire, tanto saldamente da diventare tradizione, si combatte maturando la propria materia poetica. E spazio, in Salvi, ce n'è.
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