Dovevo fare un post per ieri. Avevo deciso di scegliere un/una
autore/autrice che tempo fa mi aveva mandato qualcosa di suo. Non so ora
che impressione ne avessi avuto, inizialmente, forse mi era sembrato/a
interessante, sotto qualche aspetto. Ma qualcosa è andato storto. Non è
andato a fuoco il computer, non mi è saltato lo scanner, nè il mio blog è
stato oggetto di un attacco virale. Niente di tutto questo.
Semplicemente mi si è inceppata una certa disposizione d'animo, che ho
sempre avuta e che è una via di mezzo tra un certo ottimismo (quello del
bicchiere mezzo pieno, che è volontaristico) e la buona educazione. Mi
sono messo a riflettere se un simile atteggiamento avesse ancora diritto
di cittadinanza in un mondo (impoetico) come questo. Ah, la buona
educazione, che fregatura! In altre parole, mi sono (metaforicamente)
guardato allo specchio e mi sono chiesto: ma questa roba ti piace
davvero? Domanda cruciale, se si pensa che come diceva un noto filosofo,
si parla sempre di poetica ma molto raramente di estetica, qualcosa
che in fondo prende le distanze dall'etica, cioè dal comportamento. Si
potrebbe quindi dire, semplificando brutalmente e azzardando parecchio,
che l'estetica è maleducata, anzi deve essere maleducata. Almeno nel senso che - proprio come la buona poesia - non educa ma indica, se la vuoi vedere, una possibilità di bellezza. Tutto torna.
Quindi, riprendendo il discorso, i testi di questo/a autore/autrice, mi sono
detto, ti piacciono? E se non ti piacciono, vale la pena di pubblicarli
lo stesso? Le risposte sono state, nell'ordine, "no" e "no", anche se la
seconda avrebbe potuto essere un "forse": forse sì, a patto di
stroncare l'autore/autrice in questione.
Va da sè che io non ho il diritto di stroncare proprio nessuno,
semmai quello di farmi qualche "nemico". E nemmeno di usare i testi di
cui parlo a scopo, per così dire, didattico, cioè solo per
esemplificare e documentare il mio dissenso, a discapito di chi ci mette
la firma. Certo, puoi sempre lasciare cadere nel dimenticatoio il file
che ti è arrivato per email o il libro che hai ricevuto per posta, ma
non lo faccio quasi mai. O almeno non lo facevo, finché non mi è venuto
il sospetto che ci fosse un problema - non tanto in generale quanto per me - di salvaguardia di certe difese immunitarie estetiche (e pazienza per tutte le critiche di snobismo).
Ma questo episodio comunque a qualcosa doveva servire. Così ho
cercato almeno di capire che cosa proprio non mi fosse andato giù. La
prima risposta, la più immediata, è stata bizzarra ma convincente. Non
mi piaceva l'atteggiamento, l'habitus da artista. Sì, perchè da
ogni testo di queste dozzine traspariva una strizzatina d'occhio
all'ipotetico lettore, come a dire: "eh, guarda qua che artista, vedi
questa pò pò di invenzione poetica! ci avresti mai pensato di accostare
'sti due aggettivi, eh?". Naturalmente l'atteggiamento da artista non
è tutto qui. A questo si aggiunge proprio il tentativo di vestire i
panni altrui, magari di un Bukowski, magari quelli di ex Rimbaud
ritornato a un maledettismo però confortevole, da società dei consumi,
che pigia sull'accelleratore di una corporalità e di ammicchi sessuali
che non riescono più a épater nemmeno una suora di clausura
semplicemente perchè sono cosa nota. Ne discendono almeno due
considerazioni: la prima, come è facile comprendere, è che se proprio
non possiamo fare a meno di questo "io" sulle cui criticità non abbiamo
mai smesso di dibattere nell'ultimo mezzo secolo, che almeno questo "io"
(lui/lei) ci racconti qualcosa che non sapevamo di sapere, o qualcosa
che possiamo condividere, o si sforzi (come disse una volta un grande
poeta) di inventare il mondo che c'è riscrivendolo. E sopratutto lo
faccia evitando di scegliere la via facile, lo stereotipo (anche
stilistico), la maniera. Se poi questo "io" (lui/lei) lo fa per
convenienza o furbizia, o come mezzo per crearsi un'identità, una "vita
da", allora proprio non ci sto. Arrivando così alla seconda cosa, cioè alla
insopprimibile impressione che in quei testi ci fosse qualcosa di
posato, di artefatto, il che sarebbe solo un difetto se non fossi
convinto che è anche voluto, e perciò, mi si passi il termine, volutamente falsificato.
Naturalmente il discorso può e deve essere generalizzato, i
parametri possono essere variati a piacere, si può sostituire l'artista
che fa vita da artista con l'innamorato che fa vita da innamorato,
oppure il poeta sperimentale che fa il poeta sperimentale (quest'ultimo
spesso votato a una incomprensione totale del tutto vantaggiosa), e così
via: quello che non cambia è il poeta poseur, quello che prova a dartela a bere. Ma se lo riconosci, eviti. Di pubblicarlo, almeno sul tuo blogghetto.