Il teatro Lux in un giovedì sera di fine giugno è una fornace dalle pareti interamente dipinte di nero (e col nero, si sa, ci sta tutto). Stasera lettura di poesia, segue dibattito. Starring Franco Buffoni e Maria Borio, come dire il mentore e la "pupilla" (lei appare nel dodicesimo [2015] dei Quaderni Italiani di Poesia Contemporanea che Buffoni cura per Marcos y Marcos). Pubblico ad occhio e croce vario e competente (ed è per questo che - dopo - non farà alcuna domanda, tranne i due coraggiosi ragazzi che fanno da padroni di casa, che chiedono dell'io in poesia, che fanno domande sul macrotesto, ecc., insomma roba di una certa sostanza).
Con la mano plasticamente posata sull'asta del microfono Buffoni interpreta bene sé stesso, il poeta che realizza un'epifania elargendo agli astanti con voce pacata ma decisa un florilegio delle sue poesie, da "Jucci" per esempio, e altro, e poi "O Germania" che ha sempre un suo valore "politico" che in questi tempi europei piuttosto astiosi si fa apprezzare. E comunque sia, lo stile, che piaccia o no, si mostra e si dimostra, come pure la capacità di articolarlo su vari registri e tonalità, con l'io e senza l'io e via discorrendo, e con la voce ben modulata in alti e bassi e accenti
Fin qui tutto bene. Il tutto scorre. Ti arriva dalla poesia quel che - date le circostanze - dalla poesia letta in pubblico ti aspetti, ovvero un affrancamento dall'occhio, dalla pagina, dalla prosodia "stampata", a favore della liberazione di una mente percettiva e liberamente critica, sull'onda di un ritmo, pause, silenzi, accelerazioni che altri sceglie per te. Ma...c'è sempre un ma:
Le poesie di Maria Borio lette da lei medesima sono una delle cose più monotone che mi sia mai capitato di ascoltare, qualcosa che ti sprofonda nel nero surriscaldato del Lux, e questo mi pone un problema: non sono monotone ma lei le legge in maniera monotona? e se è così perché lo fa? è una scelta, una posa? oppure sono monotone perché "nascono" monotone, sono ontologicamente monotone e non possono esser che tali, perché nel loro dna hanno la monotonia e non c'è niente da fare, soprattutto se le leggi con una voce monotona?
"Monotono" in fondo non è che un termine tecnico, qualcosa che è opposto alla modulazione tra toni, in musica almeno, al salto di quinta, agli intervalli. Un po' di quella "musicalità" a cui allude Buffoni in una delle sue risposte.
Non lo so, difficile darsi delle risposte. Forse per prima cosa bisognerebbe mettere da parte la convinzione (che tutti hanno e nessuno ammette) che l'autore legga le sue poesie come le ha pensate, e quindi in maniera "veritiera", quella che in termini contrattuali si chiama "interpretazione autentica". In realtà non è così, almeno per me, perché la poesia ha un alone (o un'aura, come diceva Benjamin), una pluralità di significati su cui l'autore non ha un controllo totale, o lo perde nel momento stesso in cui decide l'imprimatur. Che forse nella lettura l'autore tenta di riprendere, magari con quel consapevole pizzico di retorica oratoria (o attoriale, se preferite) che spunta stasera nella voce di Buffoni. Ma è per così dire un recupero della scrittura, del testo. All'estremo opposto, noto incidentalmente, c'è la slam poetry, in cui quel che conta è la performance, lo spettacolo, e dove infatti non di rado il valore testuale è risibile. Leggere, anzi leggersi, è in definitiva fare i conti con la propria scrittura.
Se così è, allora che conti fa Maria Borio quando legge i suoi testi? Che forse corrisponda a un tema, all'idea che la vita, magari anche quella amorosa, sia monotonale esattamente come - nella concezione corrente - monodirezionale è il tempo? Non lo so, personalmente (forse complice l'afa) non riesco a respingere la sensazione di un ron ron metafisico, di un cicaleccio estivo, di un rumore di fondo.
Ma forse dipende dal fatto che non ho mai letto nulla della Borio. Così tornato a casa do un'occhiata in giro (è un po' poco, lo so), cerco qualche poesia per leggermela da solo, leggo qualche commento, come ad esempio QUI, uno dei siti più seri. A non pochi piace, ad altri le poesie "non piacciono granché", qualcuno vi rintraccia "un passato temporale che ha nulla a che fare con l’esistenza e non può fare a meno di essere “presente" " (e il presente, per lo più eterno, è ricorrenza assidua nella poesia per intenderci "giovane"); altri (e incidentalmente si tratta di un critico che stimo) parla di "quieta riflessione, attenzione alle “cose” - ma non è che le “cose” sono innalzate, sono oggi quello che una volta era la Musa? - , passo narrativo e intimo, lirismo non invasivo, ma anche una certa – voluta – piattezza di tono e nessun tremore sintattico, nessuna spezzatura, come se spezzare il discorso, sporcarlo a tratti, fosse peccato" (ah, certo, le cose, come dimenticarle - v. QUI), e di poesia scritte molto bene ma che "osano poco"; altri ancora richiamano Sereni, cosa in sé giusta ma forse un poco fuori luogo, o Montale, ma ne siamo lontani, forse per fortuna, anche da un punto di vista formale, e certamente come totale assenza di uno sguardo criticamente ironico. Vabbè, non mi resta che leggerne un paio.
Il giornale piegato dove segni e cancelli
affonda il passato.
È fosforescente, è l’ispettore di metalli
all’aeroporto, il radio
che ti può attraversare.
L’esperienza è quella data:
stai qui, aspetti, ti vendi?
Le nuvole si sono buttate fuori dal mondo,
le finestre correvano dietro
e questa tua voce trattenuta.
Una parte di te va con loro
lontano, veloce –
e ci fanno credere che i bisogni
sono veloci come te
che per un momento hai corso
laggiù.
Ma oggi questa vita come il radio
ci ha fatto trasparenti, essenziali.
I ragazzi del secolo esposto conoscono ragioni
più forti, verità più evidenti.
***
Quale dizione trattengono
le cose, quale semplice
pretesa? Il bisogno
di uscita, l’intercapedine
che non ci isola.
La mia protezione è lontana
e solo umana, come il corpo
di una mente o una voce.
E lo spazio dove tutti valgono
il peso del giorno e nemmeno
si inanella di occhi. Di scatto
alcuni riconoscono che
è possibile anche il vuoto,
altri si riprendono
dopo averlo colmato.
Ma il tuo nome è arrivato
sopra a un nulla, ha lasciato
con la luce la via.
Poi lo spazio si è preso
tutte le cose come mie e tue,
come le stringevi, allora,
in un balzo, nell’aria.
Forse è poco per esprimere un giudizio, lo ammetto, ma...No. Credo proprio che sia "monotonal inside", ineludibilmente generazionale, l'orizzonte di un universo ristretto, come ho avuto occasione di scrivere altre volte. E il mono-tono nella lettura è un calco del testo, è il rumore di fondo di questo universo limitato. (g. cerrai)