Vincenzo Galvagno - Ablativi assoluti - Giuliano Ladolfi Editore 2013
Gli ablativi assoluti scontano una loro particolare solitudine. Sono
"sciolti", fanno costrutto a sé, nemmeno sono imparentati con il flusso
principale del discorso, qualsiasi esso sia. Esprimono spesso un "a
priori", qualcosa che è fondante e di cui insieme si può fare a meno, ma
che necessita poi di una propria "destinazione", o destino. Se Maria
Attanasio ha ragione quando nella prefazione parla di "un disagio
giovanile senza frontiere né passaporti", di "profondo disagio
esistenziale: ablativo assoluto tra irrelati ablativi assoluti", direi
che ormai il disagio non è più nemmeno un fatto generazionale, dato che
lo hanno in comune, oggi, sia i padri (poetici) che i figli. Ed
esattamente come avviene nel sociale e nel politico, i padri non hanno
lasciato gran che ai figli, i quali semmai dovranno trovare da soli
altre strade. Magari navigando tra epigonismo e debiti culturali da una
parte (come fanno alcuni) e il coraggio dall'altra di tentare linguaggi o
modalità espressive nuovi, con cui affrontare un tema ormai
connaturato, appunto esistenziale. E' quest'ultimo il caso, direi, di
questo libro, un libro interessante sotto diversi aspetti, questo qui di
Vincenzo Galvagno. Che è prima di tutto il libro di un giovane, mi par
di capire la sua opera prima, un giovane arrivato alla poesia forse
quando il secolo breve era già finito, pace all'anima sua. E che, in
modo molto maturo, manipola accuratamente la propria materia poetica. La
cosa più interessante forse è la messa in scena di questo materiale
poetico, la sua "sceneggiatura" per così dire, come è evidente
soprattutto nelle prime due sezioni. Quello che importa a Galvagno è
innanzitutto stabilire una assolutezza del valore poetico del vivere,
assolutezza anzi universalità del dibattersi dell'individuo in mezzo ai
desideri, alle limitazioni sociali, ai drammi indotti da queste
limitazioni o semplicemente dalla insoddisfacibilità del desiderio,
della volontà del singolo. La messa in scena è l'utilizzo di un doppio
artificio, forse postmoderno ma meglio ancora (se si pensa a Eliot o a
Pound, più che a Frost o Larkin citati dalla Attanasio) modernista,
l'appoggiare la costruzione dell'oggetto poetico, dandone ulteriore
sostanza e giustificazione, alla citazione antica, biblica o classica,
biblica negli exerga, omerica nei personaggi che talvolta popolano i
testi. Gli exerga, utilizzati poi in sostanza come dei titoli estesi,
sono anche un cospicuo sistema metaforico, imperioso come un
comandamento e oscuro come un oracolo pitico, a volte ribaltante il
significato ultimo (un esempio, il brano "Quanto l'immondo avrà
toccato..."). A questo si aggiunge ("interferisce", dice Attanasio
giustamente), o contrasta abilmente, la struttura linguistica,
sintattica, prosodica del corpo testuale. Che è moderna (il che sarebbe
quasi ovvio), ma soprattutto intrecciata, colloquiale, singhiozzante,
disarticolata quanto la messa a verbale di un pensiero che attraversa la
mente. Il tentativo, del tutto programmatico, è di ignorare la forma
"significante", dando per certo (con molta sicurezza) che è quel che si
dice (e non come) che sostanzia l'atto poetico, che còla la scrittura
nel suo stampo. Direi quindi che, oltre a una "interferenza", si tratta
qui di una "inferenza", di inferire con il linguaggio una verità nel
testo, di inverarlo (e non è un caso che la prima sezione abbia il
titolo "assoluto" di "Poesia e verità"). Ne esce nel complesso un
attuale poema per stanze, ma con molti spazi interstiziali che il
lettore può riempire con le sensazioni che ne riceve e con la "sua"
porzione di realtà. Questo è particolarmente accentuato nelle prime due
sezioni, come dicevo. Nella seconda poi (qui omessa perchè estrapolarne
un testo sarebbe insensato) l'effetto di inferenza è ancora più forte,
quando Galvagno, prendendo spunto da un tragico fatto di cronaca (il
suicidio di due giovani amanti omosessuali nella Sicilia inizio anni
'80) costruisce un breve "dramma in cinque atti", lirico ed elegiaco,
teatrale e commovente, dal bel titolo "Turbata quiete di pubblico
incanto" che stravolgendo un termine giuridico, con qualche amara ironia
mette subito in chiaro quale incantamento, quale "sensibilità" quel
fatto è venuto a spezzare. Qui si può dire che Galvagno, proprio
lavorando su un sottotesto, anzi un sottocronaca, per quanto certo
poeticamente immaginato, stabilisca la "verità", tanto personale quanto
indiscutibile, come se asserisse "vedete? la verità è nella poesia di
cui la tragedia è intrisa", ed è la poesia che la rende vera, che rende
alla meccanica del fatto la sua realtà quasi assoluta. Il mito, il
biblico, la cronaca, sono appoggi, strumenti, artifici (nel senso
etimologico del termine) per così dire esterni, casse di risonanza o
rispecchiamenti sempre della presenza soggettiva ma non invadente
dell'autore, che diventa più intima nella terza sezione, "Ablativo
assoluto", ma anch'essa orchestrata con un suggestivo linguaggio fauve, espressionista. Se il disagio, come ho avuto modo di dire fin troppe volte, è certo il topos un po' annoiante della poesia giovanile attuale, è il modus, cioè il trattamento artistico, che fa poi la differenza. Come dico in un mio scritto apparso su Poesia 2.0 (v. QUI)
molto dipende da quanto riesca l'autore a mettere da parte il suo
"centrismo", da quanto riesca a distanziare la sua materia, a discendere
in essa, ad interrogarsi sulle reali motivazioni del suo scrivere. Come
in gran parte avviene in questo libro. (g.c.)