Angelo Andreotti - Dell'ombra la luce - Ed. L'Arcolaio 2014
Dell'ombra la luce, e viceversa. Tutto il libro di Andreotti è
costruito su questo movimento altalenante e inevitabile, su questo
dualismo, questa opposizione, in ultima analisi su questa idea,
come un programma prestabilito. Non c'è praticamente testo in cui o
l'ombra o la luce o tutti e due (o le loro isotopie) non appaiano, in
quella che potrebbe sembrare come un'ossessione per l'autore, una
sostanziale reiterazione del tema per pressoché tutti i trentanove
componimenti della raccolta. E sembrano apparire di continuo come se
l'autore sentisse il bisogno di lasciare una imbastitura visibile, come
un filo di cucito che però il sarto si è scordato di tirar via.
L'opposizione luce/ ombra, con tutte le gradazioni intermedie, è
vecchia come il mondo e proprio per questo nel tempo ha acquisito in
tutte le culture una varietà non indifferente di significati simbolici e
metaforici. E' di fatto un archetipo di un sistema binario che va da
sole/luna a uomo/donna a yin/yang fino a eros/thanatos e al campo
psicologico come nel caso dell' "ombra personale" di cui parla Jung.
Non è chiaro quale senso o sfumatura assuma questo binomio nella poesia
di Andreotti, forse tutti forse nessuno. O forse non è nemmeno
importante stabilirlo con precisione. Ma io credo che alla fin fine
quello che inquieta veramente Andreotti - e anche noi - sia la
ciclicità in cui siamo prigionieri, in altre parole il tempo. Se questa
alternanza segna il tempo, come è fin da quando l'uomo ha cominciato ad
averne cognizione, allora la raccolta assomiglia molto ad un uomo
meditabondo seduto davanti ad una finestra. Il suo sguardo rivolto
all'esterno, attratto da una fenomenologia ricorsiva e ineluttabile su
cui facciamo però affidamento (il terrore dell'uomo primitivo che il
sole non ricompaia al mattino), è come se tuttavia rimbalzasse sui
vetri, ripercorresse l'occhio all'indietro e all'interno. Il tempo è in
fatto e sostanza una meditazione sulla morte, sulla finitezza
dell'essere o comunque sul passaggio irreversibile degli eventi.
L'avvicendarsi di luce e ombra è come un reagente, un attivatore del
"pensiero debole" poetico di Andreotti su fatti e cose, anche
oggettivamente minuti. L'uomo guarda fuori dalla finestra luce e ombra
che scorrono e pensa.
Io credo che questo ci sia nella poesia di Andreotti, ma di certo c'è
quanto meno anche un pensiero "altro" che riguarda per così dire la
potenzialità dell'ombra, della parte umbratile di noi, quello che
dobbiamo scoprire, appunto mettere in luce. Del resto il titolo sembra
suggerire un rovesciamento fenomenico e quindi metaforico, la luce
dell'ombra, proprio in questo senso. La luce di senso che l'ombra getta
sopra i nostri errori, la scelta della strada meno battuta come ebbe a
dire Marcel Proust, ma anche l'ombra dalla quale è possibile estrarre
per sottrazione la luce che irraggia le cose, come nella pittura
caravaggesca (e anche lì, a ben pensarci, non è che il fermo immagine di
una transizione temporale in cui scocca la rivelazione, come nella
"Vocazione di San Matteo").
Ripeto, io credo che tutto ciò sia presente nella poesia di Andreotti. O
forse vorrei che ci fosse, la mia può essere che sia una proiezione.
Perché in realtà questo dualismo di cui parliamo si subisce o si
trascende - come è sempre avvenuto nella cultura umana - mettendolo in
metafora. E nella poesia di Andreotti non sempre è così, qualche volta
viceversa si ha l'impressione di rimanere un passo indietro, o in
bilico, come se quel vetro a cui accennavo prima ci rimandasse sì a una
considerazione intima e introspettiva, ma ci precludesse - magari
salvandoci - la visione dell'abisso che il più delle volte ci indossa.
L'idea affascinante di una declinazione del tema e le sue varianti
sembra alla fine non permettere all'autore di calarvisi completamente
dentro, di farsi dramatis persona di questo dualismo insieme
generante e lacerante, magari ponendosene al centro, farsene personaggio
più che narratore/descrittore. Intendiamoci, questa è solo un'opinione e
certo può darsi che la mia aspettativa sia semplicemente diversa da
quella di molti altri lettori. Ma non nascondo che c'è qualcosa che mi
turba in questo libro e che preferirei che, invece, mi perturbasse. E'
forse quell'aria di serena acquiescenza che però da una parte non arriva
a una "rivelazione", dall'altra conseguentemente spesso non scalfisce
la superficie dell'io per arrivare a una reale cognizione del dolore
esistenziale, della sostanziale inanità dell'uomo di fronte a questo
ingranaggio del tempo che luce/ombra simboleggiano. Come un sasso che
rimbalza sulla superficie di uno stagno quello sì oscuro. Bisogna però
mettere in conto onestamente che ciò possa corrispondere ad una scelta
precisa dell'autore. Una eventualità che del resto è suffragata dalla
scelta formale, che certo può piacere, di una poesia saldamente lirica,
forse tradizionale se volete, che evita punti di frizione o "critici",
ben costruita dal punto di vista della prosodia, con una scelta
lessicale in cui la semplicità articolata in versi spesso musicali è
punto di forza, con testi che "cascano" bene come un abito tagliato a regola d'arte. Un lavoro insomma lontano - e questo è certo in questo
caso un merito - da una poetica dell'inquietudine individuale e
post-postmoderna, un po' ripiegata sul quotidiano e sull'oggetto, come
se ne legge tanta in giro. (g.c.)